Gli “alunni modello” del neoliberismo

Non è la prima volta che un Paese ritenuto il "primo della classe", applaudito dal mainstream economico, riveli poi che il suo successo si basa su una narrazione incompleta dei fatti e su grandi disuguaglianze. È successo con l’Argentina e ora è toccato al Cile.

Uno dei problemi del neoliberismo è quello di riuscire a “vedere” le problematiche sociali, analizzando non solo i dati macroeconomici, ma anche quelli relativi alla distribuzione degli ingressi, l’accesso a servizi basilari e alla qualità della vita della popolazione. Spesso i suoi “alunni modello”, rivelano non solo i limiti delle loro ricette, ma anche che il successo di cui fanno sfoggio è piuttosto una narrazione molto parziale della realtà.

Poco prima della debacle argentina di fine 2001, il Fondo monetario internazionale e l’establishment economico si sperticavano in elogi per come fossero state applicate in modo esemplare le ricette strutturali che avevano “risolto” la crisi di dieci anni prima. Rinchiusi in hotel cinque stelle, senza andare in giro per le strade per farsi un’idea di come viveva la gente, gli economisti dell’Fmi ripassavano i numeri dando il loro ok alle misure adottate. Nel 2000, questo significò nuove tasse e tagli agli stipendi pubblici. Il dogma era quello di contenere il deficit onde evitare l’inflazione. Quello che non si poté evitare fu il collasso politico di fronte alla protesta del 35% della popolazione al di sotto della soglia della povertà, che gli economisti non seppero “vedere”. Trascorsi 19 anni, l’Argentina non si è mai ripresa completamente.

L’altro primo della classe latinoamericana è, o era, il Cile, che ha l’inflazione al 1,5%, il debito pubblico intorno al 25% del Pil, mentre quello procapite oscilla tra i 20 mila e i 22 mila dollari, e per il 2021 raggiungerà i 24 mila. Il Paese è inoltre membro dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), cioè il club dei Paesi ricchi, insieme al Messico sono gli unici della regione a farne parte. Un esempio di stabilità sociale e istituzionale. «Il nostro è un modello perfetto – mi spiegava prima della crisi, un avvocato attivista del partito al governo, fervente difensore del successo economico raggiunto –, tanto è vero che i migranti vengono qui, mica altrove». Gli faceva eco il presidente Sebastián Piñera appena pochi giorni prima del 18 ottobre, riferendosi al Cile come a una «oasi pacifica».

Sebbene siano diversi la situazione e il contesto rispetto all’ Argentina, nel Cile si ripete il problema di capire come uno degli obiettivi di qualsiasi scienza, pertanto anche dell’economia, è quello di spiegare i fenomeni della vita reale. Ammetteva tempo fa un economista formato alla scuola del neoliberismo: «I nostri modelli economici servono più a giustificare le nostre teorie che a spiegare quanto avviene». Agli entusiasti del modello cileno è sfuggito un malessere crescente e diffuso. Il fatto che, a dispetto di quanto stabilisce l’articolo 1 della costituzione, si è ben lontani da un ordine sociale capace di garantire una accettabile uguaglianza sul piano delle opportunità. La riduzione del numero dei poveri è vera, ma se la si misura solo in base agli ingressi, perché su scala multidimensionale questa praticamente si duplica fino al 19% e quando si considera la frangia di coloro che con pochi cambiamenti possono sprofondare nella povertà, il numero è nuovamente vicino a raddoppiarsi.

Se, socialmente, l’educazione gratuita argentina durante i decenni ha spesso consentito di mischiare alunni di famiglie agiate e meno agiate, l’accentuata separazione sociale cilena ha invece creato mondi paralleli che non entrano in contatto. Questo porta alla presenza di cognomi che si ripetono nelle cupole di potere con impressionante frequenza e a una scarsa mobilità sociale. Il risultato è l’invisibilità della povertà. Questa non è fatta di favelas o villas miserias, come accade in Brasile o Argentina. Ma di quartieri umili delle periferie degradate, nelle quali vive una grande fetta della popolazione, tirando lo stipendio fino a fine mese con pasta scaldata e wurstel, nella gran parte dei casi indebitati fino al collo, potendo frequentare scuole di pessima qualità e centri sanitari inefficienti.

Sciolti i legami di solidarietà che ci uniscono come esseri umani e che spingono a trovare i meccanismi per ridurre le sperequazioni, la fede nel dio mercato ha fatto credere ciecamente che prima o poi, dalla tavola dell’abbondanza, la ricchezza sarebbe arrivata a tutti. Il problema è quando quel “prima o poi” si trasforma in decenni. Per questo, si avverte con sempre maggiore chiarezza la necessità in Cile di un nuovo patto sociale. L’attuale costituzione venne imposta durante la dittatura nel 1980, con la specifica intenzione di far leva su quell’individualismo che il neoliberismo giustifica quando afferma: «La società non esiste». Si alzano dunque con forza le voci a favore di un processo costituente, capace di recuperare il senso del bene comune, del “noi”, eclissato dal un modello che è stato un successo solo per alcuni, pochi.

 

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