Giornalisti scomodi per il potere

Il cinema esalta l’importanza e il ruolo sociale che il giornalismo può rivestire. Dal recente “The Post” a “Fortapàsc”. Tanti i giornalisti che hanno dato la vita, come Giancarlo Siani, Ilaria Alpi e Jean Dominique

Steven Spielberg, con il bellissimo The Post, rende omaggio al giornalismo migliore, quello vero, quello, come viene detto nel finale del film, che si mette «al servizio dei governati, e non dei governanti». Racconta di giornalisti in lotta per migliorare il loro paese, impegnati a scrostare ed esporre una verità importante che può salvare molte vite, una verità utile ai più fragili della nazione, alle famiglie coi figli in Vietnam, per esempio.

Una verità, soprattutto, che fa bene alla democrazia e al suo futuro, che insegna alle persone la forza e la bellezza di questo nobile e delicato mestiere. Non importa, per i protagonisti di The Post, se ai potenti – che siano i grandi politici o i finanziatori del giornale stesso – questa verità non piaccia, o comunque non interessi, e starebbe bene sotto la polvere, ben chiusa col lucchetto nei cassetti metallici degli uffici più segreti. Sono giornalisti ed editori coraggiosi, quelli di The Post (presi dal vero, dalla storia), uomini e donne che rischiano la carriera e il futuro del giornale stesso: o la va o la spacca, perché mettersi in panchina quando la faccenda si fa pericolosa vuol dire aver fallito in partenza l’obiettivo, non vivere il proprio lavoro come una missione.

Non c’entra la vanità di diventare o rimanere i numeri uno, di confermarsi firme di punta; c’entra la volontà di lavorare per la collettività, c’entra usare la propria posizione virtuosamente, fare le scelte scomode ma indispensabili, quelle che rendono davvero autorevole un giornale. The Post si chiude con una torcia che penetra furtivamente nella sede del partito democratico americano: è l’inizio del Watergate e dello scandalo politico che ne seguì.

È una breve sequenza aperta, che anticipa i titoli di coda e lancia virtualmente un altro importante film sul giornalismo americano, che racconta un altro pezzo pesante di storia a stelle e strisce. Il film è Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula, del 1976, con Dustin Hoffman e Robert Redford nei panni dei due giornalisti (sempre del Washington Post) che con le loro indagini e ricerche – a partire dalla notte del Watergate – costrinsero il presidente Richard Nixon alle dimissioni. È una specie di sequel virtuale di The Post, anche se le inchieste sono diverse, e nella prima (raccontata dal film di Spielberg) Nixon è solo l’ingranaggio di un sistema di menzogne governative iniziate molto prima, che coinvolsero altri presidenti prima di lui. Tutti gli uomini del presidente, che vinse quattro Oscar, è un’ulteriore dimostrazione di come il giornalismo possa servire (allora come oggi) a smascherare la corruzione e a difendere le leggi democratiche.

giancarlo-sianiQuesti film parlano di un giornalismo libero e appassionato, altruista e disinteressato, e così fanno venire in mente altri film che raccontano altri giornalisti bravi e coraggiosi, persone vere che hanno rischiato pur di far bene il loro mestiere e certe volte hanno pagato con la vita. Penne scomode, cercatrici di verità, pensieri impavidi come quelli di Giancarlo Siani: ragazzo napoletano giovane e sveglio che, quando fu freddato dalla camorra la sera del 23 settembre del 1985, aveva ventisei anni e un biglietto in tasca per il concerto di Vasco Rossi. Ma la sua Meari non partì mai per quel viaggio, perché negli articoli scritti da Siani (da reporter precario) per Il mattino di Napoli c’erano scritti i legami profondi tra politica e criminalità organizzata in terra campana.

Ha fatto benissimo Marco Risi a raccontare tanto coraggio con un film del 2009 preciso e toccante, solido e asciutto, intitolato Fortapàsc. C’è una sequenza, in particolare, che spiega il valore di Giancarlo Siani, quella in cui egli parla col suo caporedattore/mentore interpretato da Ernesto Mahiuex, il quale gli spiega la differenza tra «giornalisti giornalisti e giornalisti impiegati». Siani, ovviamente, innamorato della verità e della giustizia, apparteneva alla prima categoria, così come Ilaria Alpi, uccisa il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio, e raccontata nel film Ilaria Alpi – Il più crudele dei giorni, di Ferdinando Vicentini Orgnani, del 2003.

O come Jean Dominique, il giornalista haitiano appassionato del suo Paese e ucciso perché dalla sua radio urlava (in lingua creola, quella del suo popolo) verità scomode contro il potere, con una voce affascinante e convinta di stare dalla parte giusta, la parte dei più deboli nella dittatura di François Duvalier. Quattro colpi di pistola misero fine alla sua vita il 3 aprile del 2000, ma lo straordinario documentario di Jonathan Demme, The Agronomist, del 2003, fa rivivere Jean Dominique in tutta la sua bellezza e il suo esempio, al pari degli altri appena citati, spiega meglio di tante parole l’importanza e il ruolo sociale che il giornalismo che può rivestire.

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