Georgia ancora sotto pressione

Nella notte tra il 7 e l’8 agosto 2008 scoppiava la strana guerra tra georgiani e russi per il controllo dell’Ossezia del Sud e dell’Abcasia. I profughi ci sono ancora. A colloquio col presidente della Caritas Georgia.
Georgia - Zerostani

Non nasconde di avere un certo orgoglio, padre Witold Szulczynski, presidente della Caritas in Georgia: «Abbiamo costruito dal nulla, inaugurato e consegnato al governo georgiano tre asili nei pressi del confine con l’Ossezia del Nord – mi spiega –. Ma i soldi stanno calando: nel mondo le emergenze umanitarie non mancano mai, e i donatori si concentrano sull’ultima… Così l’altro giorno abbiamo dovuto sospendere la mensa che avevamo aperto nell’agosto 2008, quando non ancora era finita la guerra, nel campo di Isani, l’ex ospedale della città. Erano 2000 i profughi lì ospitati, oggi ce ne sono 800, disperati, senza un lavoro e senza prospettiva alcuna. Servirebbero 10 euro al mese, ma non li abbiamo più. Anche i donatori italiani – il 90 per cento dei nostri benefattori – hanno ridotto di molto le loro offerte». I profughi di Isani hanno scritto persino al papa perché non si interrompesse il servizio, ma non c’è stato nulla da fare, i soldi non ci sono.

 

«Una diocesi italiana del ricco Nord, ad esempio, che versava 15 mila euro all’anno, oggi ce ne da solo 1.500, perché hanno dovuto aprire una mensa nella città per i nuovi poveri del luogo, che non sono solo extracomunitari, ma in maggioranza italiani». Il presidente della Caritas Georgia mi racconta però di tanti episodi commoventi di generosità che registra ogni giorno, di italiani in particolare che rinunciano all’essenziale per aiutare un caso o l’altro.

 

Continua padre Witold: «I profughi rimasti qui, coloro che non hanno trovato un lavoro altrove, o sono emigrati all’estero, sono i più poveri dei più poveri. Non hanno più nulla: la loro sola proprietà era un campo e una casetta. Ricevono dal governo 30 lari al mese, 12 euro, quasi nulla, e non riescono nemmeno a comprare una pastiglia d’aspirina, se ne han bisogno. E i georgiani non vogliono più sentir parlare di guerra, profughi o politica internazionale. E così non si parla più di questa gente abbandonata da tutti, i media tacciono e ci si diverte, per quanto è possibile».

 

La strada per Gori l’avevamo già percorsa assieme con padre Witold Szulczynski, il 21 agosto 2008, con un miniconvoglio di due camion e due fuoristrada: per la prima volta dei giornalisti (il collega parmigiano Pino Agnetti e il sottoscritto) e un convoglio umanitario entravano nella città che diede i natali a Stalin, dopo lo scoppio della guerra nella notte tra il 7 e l’8 agosto (per la cronaca, qualche setimana fa il governo ha finalmente rimosso la statua che ornava la piazza principale della cittadina). Tre giorni prima, Bernard-Henri Lévy aveva scritto su Le Monde e sul Corriere della sera di aver incontrato nella città solo morte e distruzione. Ma non era nei fatti mai entrato nella città (più tardi il direttore di Le Monde l’ha dovuto ammettere , dove le distruzioni erano in realtà molto relative, anche se 9 mila persone non avevano nulla da mangiare da una settimana…

 

Oggi andiamo a Zerovani, una decina di chilometri prima di Gori, dove il governo georgiano, utilizzando soprattutto i fondi internazionali giunti nell’emergenza di due anni fa, ha dato alloggio in 2600 casette prefabbricate di 50 metri quadri ciascuna a circa 10 mila profughi di etnia georgiana che abitavano in Ossezia del sud. Ci sono pure un municipio, una scuola, un asilo, qualche negozietto, un’apparente pulizia. Ma il luogo è nei fatti un campo di concentramento, che genera un’infinita disperazione in chi vi abita: «Qui si sopravvive, chi ce l’ha, con la propria pensione (90-100 lari, cioè 40 euro al mese), oltre che con l’aiuto dello Stato ai profughi (30 lari, cioè 12 euro) e con gli aiuti della famiglia – mi dice Elgudjan Macerashvili, profugo dalla cittadina di Ahalgori –. Nessuno lavora qui, salvo qualche giovane che scende a Tbilisi ogni giorno per sbarcare il lunario. Tutti speriamo di tornare in Ossezia, ma ora non è possibile vivere ancora sotto la minaccia dei mitra dei russi».

 

Nel gruppetto di uomini annoiati (o sfiniti?) coi quali mi trovo a conversare dinanzi alla scuola, c’è pure Aftandil Tkzelibarashvili, che ha la trentina un po’ affaticata. Lui è uno di quelli che vanno ogni giorno a Tbilisi, lavora nell’edilizia. Guadagna 600 lari al mese, 250 euro, ma non ne riceve mai la totalità e peraltro sempre in ritardo: «La vita è durissima qui a Zerovani, perché non c’è futuro di sorta. Sì, 1000 bambini a scuola ci vanno, ma per i giovani qui è la morte. Appena si può, si fugge da questo lager. Le vedi le paraboliche sulle casette? La gente è capace di passare tutta la giornata ad inebetirsi davanti alla tv senza nulla da fare di meglio».

 

Conviene Tamasi Kokoladze, che gestisce una piccola macelleria, di cui non conosce nemmeno il proprietario. Lui riesce così a mantenersi ma non può nemmeno immaginare di mettere su famiglia: «Non c’è speranza. Ho pensato anche di tornare in qualche modo al villaggio, ma mi lascerebbero in vita i miei vicini ossetini? E la mia casa sarà ancora vuota o qualcuno l’avrà occupata nel frattempo?». Tra una casetta e l’altra ci sono 25 metri circa, trasformati quasi da tutti in orti dove cresce di tutto, almeno per la sopravvivenza. E qualche donna trova persino il modo di far crescere dei fiori, di dare un minimo di contegno al luogo. Qualcuno avvia un qualche commercio: chi fa il dentista, chi vende qualche oggetto per la casa, chi vestiti usati. C’è chi pure, avendo da parte qualche soldo, ha allargato la casetta con un garage, una stanza supplementare o un piccolo portico di legno. Ma la gente cerca di andarsene più lontano possibile: la nuova meta preferita è la Turchia, spesso semplicemente come passaggio per la Grecia e l’ambitissima Unione europea.

 

Le statistiche non ufficiali parlano di due milioni di georgiani emigrati negli ultimi vent’anni, a fronte di una popolazione totale residente che non raggiunge i tre milioni e mezzo: basti l’esempio della seconda città del Paese, Kutaisi, che nel 1989 aveva 230 mila abitanti, e che ora ne ha 90 mila. L’emergenza continua, e non bastano i ponti in plexiglass o le luci psichedeliche della capitale georgiana a cambiare la dura realtà.

 

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