Gandhi, la politica e noi

Nuova rubrica con letterati, santi e filosofi dell'editrice di ogni tempo e luogo che hanno fatto grande il pensiero umano nel dialogo e del sovrumano. Partiamo con il filosofo ebreo del Novecento Martin Buber e la sua riflessione aperta sul Mahatma
Buber

Grandi testimoni di un pensiero intramontabile perché caratterizzatori della vita spirituale e intellettuale del passato e del XX secolo, italiano e non. Sono i maestri del pensiero d'Occidente e d'Oriente che hanno trovato il loro spazio ideale nel catalogo di Città Nuova editrice che di settimana in settimana vi portiamo a conoscere. Aspetti di un pensiero su tematiche attuali e sempre vive.

Iniziamo con il filosofo e educatore ebreo Martin Buber che fu, nella Germania a cavallo del Novecento, interlocutore raffinato nel dialogo fra cristiani ed ebrei. Fu anche traduttore della Bibbia ebraica e curatore dei racconti dei Chassidim.  Di lui Città Nuova, oltre a 100 pagine di Martin Buber, ha pubblicato sette saggi confluiti nel libro Profezia e politica curato da Gianfranco Morra, da cui vi proponiamo una riflessione sulla politica di un un altro grande "rivoluzionario del pensiero" di inizio secolo: Gandhi.

«Durante la prigionia di Gandhi un alto funzionario britannico, riferendosi agli avvenimenti recenti in seguito ai quali il Mahatma aveva ricevuto i pieni poteri dal Congresso di Ahmadabad nel dicembre del 1921 e aveva dato, nel febbraio del 1922 un ultimatum al vicerè, poi revocato in seguito allo scoppio dei disordini di Chauri Chaura, così si espresse: “Gandhi ci ha spaventati sul serio. Il suo programma ha riempito le nostre carceri, ma non possiamo continuare a mettere in galera le persone, soprattutto quando si tratta di un Paese di 319 milioni di abitanti. E se le cose fossero andate ancora oltre, se per esempio si fossero rifiutati di pagare le tasse, chissà quali sarebbero state le conseguenze! L’esperimento di Gandhi è sicuramente il più imponente che la storia abbia mai conosciuto, ed è mancato poco che avesse successo. Quello che gli è mancato è stata l’attenzione alle passioni umane”.
 
«Si tratta di una constatazione errata. A Gandhi infatti non è mancata l’attenzione alle passioni umane, bensì la disponibilità a sfruttarle. La revoca dell’ultimatum lo dimostra in modo molto chiaro, poiché lo scoppio dei disordini viene interpretato come un ammonimento di Dio. “Dal momento che in India non esiste un vero clima di non-violenza, che solo può giustificare la disubbidienza di massa”. Il giudizio conclusivo dell’alto funzionario di britannico non significa dunque che il successo politico non è possibile senza considerare le passioni umane, ma che esse vanno adeguatamente sfruttate. Questa considerazione non corrisponde a verità, ma può essere utile per interrogarsi sul rapporto di Gandhi con il successo politico.
 
«Nel famoso trattato Né santo né politico, Gandhi chiarisce la propria posizione: “In apparenza prendo parte alla vita politica in modo attivo; in realtà questo appare soltanto perché oggi siamo avvinghiati dalla politica come dalle spire di un serpente da cui è impossibile sfuggire, per quanto ci si sforzi di farlo. Il mio desiderio è di misurarmi con esso”. Più avanti leggiamo: “Ho tentato con l’aiuto di alcuni amici, di introdurre la religione nella politica”. La nostra domanda di partenza prende pertanto una forma ancora diversa, e suona ora così: è possibile ora insinuare la religione nella politica, al punto di poter raggiungere comunque un successo politico?
 
«La religione indica la meta e il percorso; la politica lo scopo e i mezzi. Lo scopo politico è connotato dal “raggiungimento”, che chiamiamo comunemente “successo”, e tale raggiungimento viene incamerato dalla storia. La meta religiosa è invece quella che indica, anche nelle esperienze più elevate, la direzione del cammino dei mortali, senza entrare a far parte del percorso storico. La storia del creato riconosciuta dalla religione che crede nella storia; la storia individuale, conosciuta da tutte le religioni, anche da quelle che non credono nella storia; gli avvenimenti che si verificano lungo il percorso, dall’origine al suo compimento, no sono contraddistinti dal marchio del successo. La parola vince ma in termini diversi da quelli che i suoi rappresentati si auguravano. La parola, infatti, non vince nella purezza, bensì nella corruzione; essa dà i suoi frutti nella corruptio seminis: Qui non c’è spazio per il successo, e infatti, quando la storia delle religioni ce ne parla, esso in realtà non è più materia per la religione, bensì per la politica religiosa. È esattamente il contrario di quanto aveva affermato Gandhi: si tratta infatti della politica che si insinua nella religione… E la condotta di Gandhi è senza ombra di dubbio religiosa nel vero senso del termine».
 

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