Il G20 di Roma, l’economia e il clima

Il G20 di Roma del 30-31 ottobre è una tappa chiave in cui i più grandi inquinatori riveleranno le loro vere intenzioni. I 20 Paesi che si incontreranno nella nostra capitale sono responsabili di tre quarti delle emissioni. Dal 31 ottobre al 12 novembre, poi, tutti i Paesi sono attesi a Glasgow per la conferenza ONU sul clima. Speriamo che prendano decisioni coraggiose per ridurre le emissioni gas serra, in conformità all’Accordo di Parigi
G 20 Joy Asico/AP Images for People's Vaccine Coalition

Il 12 dicembre del 2015 in molti hanno esultato per l’adozione dell’Accordo di Parigi da parte della ventunesima conferenza ONU sul clima (COP21). In effetti, risultato di 23 anni di negoziazione internazionale culminata in 21 conferenze ONU sul clima, l’Accordo di Parigi ha notevoli punti positivi. Ricordiamone due. Il primo, e forse più importante, consiste nell’invitare tutti i Paesi a impegnarsi affinché la temperatura del pianeta non aumenti più di un grado e mezzo rispetto al valore che aveva prima della rivoluzione industriale: grosso modo, questo risultato sarà possibile se ridurremo le emissioni di gas serra in modo da invertirne dal 2025 l’attuale tendenza all’aumento, fino ad annullarle completamente nel 2050 (neutralità carbonica). Il secondo, prevede che i Paesi ricchi aiutino i Paesi poveri in questa transizione ecologica con un fondo di 100 miliardi di dollari all’anno a partire dal 2021.

Questi risultati sono stati “catalizzati” dall’impegno del papa argentino, che aveva da poco pubblicato la sua enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune, e dalla convergenza tra i presidenti di Cina e Sati Uniti, i due Paesi più inquinatori, in ordine di emissioni.

Tutto bene? «Il diavolo è nei dettagli», dice un proverbio. Gli accordi internazionali possono essere ambiziosi ma – piccolo dettaglio – servono a poco se non sono attuati. Come osservava un “non addetto ai lavori”, affacciato alla finestra dell’Angelus il 13 dicembre 2015: «La Conferenza sul clima si è appena conclusa a Parigi con l’adozione di un accordo, da molti definito storico. La sua attuazione richiederà un corale impegno e una generosa dedizione da parte di ciascuno… esorto l’intera comunità internazionale a proseguire con sollecitudine il cammino intrapreso, nel segno di una solidarietà che diventi sempre più fattiva».

Tutti sanno come sono andate le cose in seguito. Gli Stati Uniti hanno adottato una politica ondivaga. Il 1° giugno del 2017 il presidente Trump ne ha annunciato l’uscita dall’Accordo di Parigi, cancellata con un “ordine esecutivo” del presidente Biden il 20 gennaio del 2021. Le conferenze ONU sul clima hanno prodotto risultati altalenanti, fino alla scandalosa COP25 di Madrid, caratterizzata dalla latitanza dei Paesi ricchi e non solo.

Eccoci così arrivati alla COP26 di Glasgow, prevista dal 31 ottobre al 12 novembre, preceduta dal G20 di Roma, dal 30 al 31 ottobre. Perché è importante? Perché i 20 Paesi che si incontreranno nella nostra capitale sono responsabili di tre quarti delle emissioni. Cerchiamo allora di capire quali sono le loro posizioni. Non è un buon segnale che i presidenti di Cina e Russia parteciperanno solo da remoto. Inoltre, gli impegni non sono uniformi. Per quanto riguarda la neutralità carbonica, solo 12 Paesi su 20 si sono impegnati a raggiungerla, andando dalla Germania, che conta di raggiungerla nel 2045, a Cina e Russia, che la rimandano al 2060. Insomma, sarebbe già un buon risultato del summit un’intesa sulla neutralità carbonica per il 2050.

Per avere un’idea della situazione è significativo vedere una rappresentazione del mappamondo deformato in modo che la superficie di ogni Paese sia proporzionale alle sue emissioni di CO2: cliccare qui.

E l’Italia? Se da una parte è allineata all’obiettivo europeo di emissioni zero entro il 2050 e il nostro premier ha dichiarato che «la crisi climatica può essere affrontata solo se tutti Paesi del G20 decidono di agire in modo simultaneo, coordinato e coraggioso», dall’altra siamo lontani dal versare il nostro contributo al fondo di 100 miliardi di dollari all’anno per la transizione ecologica dei Paesi poveri: il gettito attuale ammonta a 460 milioni di euro a fronte di un impegno di 3,4 miliardi di euro.

Perché siamo ancora così lenti a reagire di fronte alla crisi climatica, ormai sotto gli occhi di tutti? Le ragioni più profonde sono da ricercare nel modello economico ormai dominante che il nostro “non addetto ai lavori”( il Papa, ndr), in un discorso all’industria mineraria del 3 maggio 2019, ha definito «vorace, orientato al profitto, con un orizzonte limitato, e basato sull’illusione della crescita economica illimitata». Finché le scelte a favore dell’ambiente non saranno economicamente vantaggiose, saranno operate da poche persone di buona volontà. L’economia non diventerà ecologica, è l’ecologia a dover diventare economica. «L’argent fait la guerre» (il danaro fa la guerra), dice un altro proverbio.

Speranze zero? Al contrario. Ognuno di noi può contribuire in molti modi, come ho discusso nel mio ultimo libro Happy planet  per Città Nuova, non ultimo il “disinvestimento dalle fonti fossili”, praticato oggi da 1497 istituzioni per un totale di quasi 40 mila miliardi di dollari. A questa causa, sostenuta nella Chiesa cattolica soprattutto dal Movimento Laudato si’, ha aderito anche il Movimento dei Focolari. I potenti sono sensibili al portafoglio? Toccali nel portafoglio. «À la guerre comme à la guerre».

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