Fraternità nel diritto?

Non era un’aula di tribunale, e nemmeno una universitaria di giurisprudenza. Non c’erano sbarre e non si cercava di capire come pagare meno tasse. Eppure il diritto sembrava di casa, i codici e i codicilli, i pourparler su casi trattati in giudizio, sulle norme migliori per regolare certi problemi d’immigrazione… C’era il giudice e c’era il condannato, lo studente di un master di diritto internazionale e il docente di diritto costituzionale. Un titolo: Relazionalità nel diritto: quale spazio per la fraternità?. Un luogo: Castelgandolfo. Una data: dal 18 al 20 novembre scorsi. Gianni Caso, presidente onorario della Corte di cassazione, è stato tra gli organizzatori della manifestazione, promossa dal raggruppamento di operatori nella giustizia che suole farsi chiamare Comunione e diritto. Quale lo scopo del convegno? Quello di approfondire la relazionalità nel diritto – il diritto è relazione e regola relazioni – e di verificare lo spazio della fraternità in essa. L’idea diffusa è che diritto e fraternità siano lontanissimi… Effettivamente nella preparazione del congresso si è incontrata molta difficoltà in questa ricerca, essendosi manifestato un deficit di relazionalità, e, quindi, di fraternità nel diritto attuale. Perché? Nel diritto tende a prodursi la cultura del tempo; e, come notano gli studiosi, oggi la cultura umana sta attraversando una profonda crisi: nella vita di relazione si è venuto man mano smarrendo il senso dell’altro, e quindi il senso della relazione e della persona, e la persona è relazione e la relazione genera vita. È rimasto l’individuo, o meglio gli individui, e l’individuo dice solitudine. Di riflesso anche il diritto è diventato il diritto degli individui, isolati e spesso in contrapposizione tra loro. Allora, è possibile recuperare nel diritto la relazione e attraverso di essa l’esigenza di fraternità? Il messaggio che Chiara Lubich ha inviato al congresso mi sembra abbia dato la giusta risposta. Indicando agli uomini di diritto un orizzonte più alto e vasto (il fondamento della fraternità, che è l’amore di Dio Padre che lega gli uomini e le cose; la via per realizzarla, che è la pratica dell’amore vicendevole; la meta, che è la composizione in unità della famiglia umana), li ha invitati a tradurre queste intuizioni nella dottrina e nella pratica giuridiche. Di cosa è stato fatto il congresso? Le numerose esperienze e testimonianze che sono state presentate nei diversi ambiti della vita giuridica (civile, amministrativa, penale e internazionale), hanno mostrato da un lato il deficit di relazionalità nell’attuale normativa e dall’altro lato, attraverso il ruolo suppletivo svolto dagli operatori che animano la loro attività istituzionale o professionale con l’attenzione all’altro, con la cura del rapporto con l’altro, il recupero per questa via della relazione e, possiamo dire, del diritto della persona. Al convegno ha partecipato pure il presidente della Associazione nazionale dei magistrati. Che cosa ha voluto dire all’assemblea? Il dott. Riviezzo – premesso che il giudice, per dettato costituzionale, è soggetto soltanto alla legge e quindi non deve confondere l’etica col diritto – ha rilevato che il tema della fraternità entra fortemente sia nel momento della interpretazione della norma sia sul versante dei comportamenti concreti. Sotto il primo profilo, nel momento in cui il giudice si confronta con i valori costituzionali, quali il principio di uguaglianza, quello della dignità della persona umana, e con gli altri diritti fondamentali, valori e princìpi la cui tutela mena diritto alla fraternità; nel secondo versante, perché ogni giorno il giudice si trova di fronte alla realtà palpitante dell’uomo, sia nel settore penale che in quello civile. Davanti al giudice non ci sono fascicoli, carte, ma realtà personali, familiari, drammatiche. Accostarsi a queste realtà con lo spirito di fraternità può significare andare al nocciolo del problema, che spesso è molto diverso da quello che appare sulle carte. Nel penale, può significare aiutare il reo a trasformare quello che è un evento drammatico in una occasione di riscatto . Conclusioni? Nel corso di una tavola rotonda si è evidenziato, attraverso gli interventi degli esperti dei vari rami del diritto, l’urgenza di riportare il diritto ad avere questa attenzione e, finalizzato a ciò, rimettere la relazione al centro della speculazione e della vita del diritto e attraverso di essa la fraternità. Poiché – come ha concluso uno dei professori partecipanti – la relazionalità e la fraternità sono immanenti al diritto. Propositi arditi, senza dubbio, quelli enunciati dal giudice Caso. Parole che trovano un’eco nei singoli partecipanti. Tra di essi ne abbiamo scelti alcuni, gente nota o meno nota, per dire la varietà e la ricchezza della partecipazione. MARIO SPREAFICO: LA RELAZIONE E LA NORMA La curiosità e l’interesse suscitati dal titolo del convegno si trasformano poco alla volta in vera passione: ci si ascolta con attenzione in modo che da quell’ascolto possa scaturire una parola originale. E più l’ascolto si fa condivisione, più mi appare che anche la fraternità nel mondo del diritto sia possibile. La passione che avverto tra gli operatori mi porta a cercare di approfondire il significato della norma giuridica e, nel rapporto tra ius e lex, a indagare quali siano, o da dove possano scaturire l’insieme di valori etici e civili condivisi. Quali, nell’ambito del diritto internazionale? Quali, nelle relazioni interpersonali, nei rapporti di famiglia, o in quelli tra il singolo e la comunità? Quali ancora, tra il reo e la vittima del reato? Si delinea insomma una giustizia nuova? A mio parere no; forse più semplicemente, è nuovo il modo di considerare la giustizia: il diritto che, se è relazione, deve per ciò essere visto come modo di relazionarsi, non più come mera applicazione della norma astratta, ma come rapporto di vita tra più persone. Insolita apertura: una carrellata di dialogo planetario, nove persone, nove paesi. Sullo sfondo, la domanda: c’è spazio per la fraternità? Dapprima la risposta prende il via da assunti generali di chiara impronta filosofica, e da elementi originari del diritto. Domanda: Va bene, si vuol dare legittimità alla fraternità; ma come applicarla?. Per fortuna ecco che si aprono delle finestre verso il diritto privato e penale, si intravedono primi semi di fraternità. In Usa, in Irlanda e in Italia è la mediazione come via fraterna alla risoluzione dei conflitti. Dall’Austria la forte esperienza di una comunità di recupero di ex detenuti, comunicata da Gerhard, uno di loro: Forte della mia esperienza – dice – cerco di incoraggiare i nostri ospiti a non mollare mai. L’amore di Dio è più grande della nostra colpa. Dal diritto internazionale a quello pubblico, dal privato al penale, la domanda che si pone ai settecento intervenuti non pare più quella relativa allo spazio della fraternità nel diritto, ma piuttosto se il diritto, come regola della vita sociale, anzi, come ordine della società stessa può sussistere se non ha, come sfondo, anzi, se non si fonda sulla fraternità. In questa fraternità ricercata e vissuta, pare di poter trovare il preambolo di una nuova costituzione universale, che trova fondamento nell’amore reciproco, non come regola da adottare, ma come ragione di essere. Anche chi è vaccinato ad ogni tipo di convegno e dibattito rimane un po’ spiazzato. Il senatore Alberto Maritati, per molti anni magistrato, confida di non aver mai perduto occasione di prendere la parola a un convegno. Ma qui, no: Oggi non ho parlato, non ho parlato e sono felice di non aver parlato perché ho dedicato questo tempo all’ascolto. Me ne vado arricchito, ho ascoltato cose molto interessanti, ho trovato un gruppo forte che parla un linguaggio mondiale; ho trovato una comunità aperta a tutti coloro che vogliono lavorare per gli altri più ancora che per sé stessi. Veniamo alle parole di Giovanni Paolo II, ricordate da Chiara Lubich: Instaurare la fraternità universale non può certo essere il risultato dei soli sforzi dei giuristi: tuttavia il contributo di questi ultimi alla realizzazione di tale compito è specifico e indispensabile. Fa parte della loro responsabilità e della loro missione . Mi piace pensare che sia questa la prima conclusione del convegno. I GIOVANI: SEMI MATURI Meritano una parola, per la numerosa presenza (il 30 per cento dei partecipanti), per la partecipazione vivace, per il dialogo instaurato con i docenti universitari e con tutti gli operatori, per la speranza. Sono colpito dal fatto di trovare professori universitari, avvocati, magistrati, disposti a parlare di fraternità nell’ambito giuridico – è uno studente dell’Università Cattolica di Milano a dirlo – e ci credo che è proprio il sostegno alle relazioni fraterne che deve muovere la giurisprudenza, deve condurre l’opera del legislatore. Hanno scoperto qualcosa che va al di là dei codici e dei manuali: una realtà in cui è vivo il principio di fraternità. Così Marco, da Trento. E sono rimasti impressionati da questa visione del diritto e della giustizia. Istrael è veneta, e si prepara a diventare avvocato: Mi colpisce vedere emergere dagli istituti esistenti nel nostro diritto semi di fraternità. Forse i tempi sono maturi perché questi semi siano dei punti di partenza per operare anche nel diritto, per attuare, rendere applicata la fraternità; punti di partenza per dialogare proprio con chi non è ancora coinvolto nella realizzazione del principio di fraternità. P.P. ADRIANO PISCHETOLA: NOTAIO E FELICE DI ESSERLO Nel convegno si è sentita la necessità di dare spazio alle varie figure professionali, sottolineare la vita degli operatori nelle diverse funzioni, perché essi in primo luogo, attraverso il loro agire, possono contribuire a creare un diritto nuovo. In questi giorni hanno preso la parola due notai, dai quali è emersa una certa idea, senz’altro positiva, del ruolo e della funzione del notaio. Raccogliendo le ispirazioni di un insigne giurista Salvatore Satta, in Poesia e verità nella vita del notaio, mi piace mettere in evidenza la sua tipica funzione che è quella di disporre della realtà: Ciò che egli scrive – dice Satta – per il solo fatto che lo scrive, modifica il mondo. Lo modifica certo perché le parti vogliono che si modifichi, e nulla per definizione deve egli fare al di là e al di fuori della volontà delle parti: ma in quanto riceve quella volontà la traduce in atto, egli partecipa di essa e si trova a disporre della realtà. Messo al centro dell’atto, egli vede al di qua e al di là dell’atto, nei motivi profondi, nelle conseguenze lontane. È evidente a questo punto che se, nel disporre della realtà, il notaio sa di operare per il bene di altri fratelli, ciò comporta ed implica quel valore aggiunto – rectius – quel di più che fa la fraternità. a cura di Pietro Parmense

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