Francesco, papa scomodo

A una settimana dalla visita di Bergoglio negli Emirati Arabi Uniti val la pena sottolineare la logica di viaggi come questo: favorire il dialogo e la pace, anche in contesti in cui mancano le libertà basilari

Nella settimana appena conclusa, papa Francesco ha scritto, come lui stesso aveva preannunciato nel messaggio al popolo degli Emirati Arabi Uniti (Eau), un’altra pagina storica. E, particolare fondamentale, non lo ha fatto da solo. A fianco gli sono stati due altri protagonisti durante questa visita: il grande imam di Al-Azhar, Al Tayyib, e la Chiesa cattolica degli Eau, simbolo di un cristianesimo che sempre più prende la forma della globalizzazione.

Emirates Pope

Il ritornello che ha accompagnato il papa argentino nella penisola arabica parlava di “prima volta” sia di un papa in quella parte di mondo, cuore dell’Islam, che di una messa celebrata in pubblico in un’area geografica dove la libertà di culto è diversamente praticata, essendo tuttavia negata la libertà di religione: in Arabia Saudita sono ammesse solo manifestazioni pubbliche di culto musulmane, ma sono tuttavia tollerate le celebrazioni di altre religioni all’interno di abitazioni private; negli Emirati, dove il papa è stato, le celebrazioni sono ammesse all’interno delle parrocchie, in numero limitato e sovraffollate; in Bahrein, invece, qualcosa si muove, visto che recentemente sono state addirittura costruite nuove chiese; la situazione del Kuwait è come quella degli Emirati, con un po’ più di controlli e con parrocchie ospitate negli scantinati di alcuni immobili; in Oman c’è una maggior libertà di culto e, in parte, anche di manifestazione pubblica della religione, vista la politica aperta di al Qaboosh; mentre in Yemen la guerra ha fatto saltare una libertà di culto applicata fino allo scoppio della guerra in modo assai contraddittorio.

La dichiarazione firmata dalle due autorità religiose è stata, senza dubbio, un passo avanti di grande valore per i rapporti fra musulmani, soprattutto sunniti, e cristiani. Tutto questo rimane innegabile. Ma non si deve sorvolare sul fatto che, accanto a tutto questo, non sono mancate, sia alla vigilia che al ritorno di Francesco, critiche e polemiche. Se ne è avuto sentore, anche a bordo del volo che lo riportava a Roma quando Bergoglio si è trovato a rispondere a domande eleganti, ma non prive di provocazioni precise: i diritti umani, tutt’altro che rispettati nell’Eau, soprattutto nei confronti dei lavoratori stranieri di bassa manovalanza; il modello ultra-capitalistico e “ateo” adottato dagli Emirati; la vicinanza della situazione drammatica in Yemen, ricordando che gli Emirati sono i primi alleati dell’Arabia Saudita nel fronte anti-sciita, e per la quale aveva pregato la domenica precedente prima di lasciare Roma; il ruolo del Qatar, vicino di casa, ostracizzato dall’Arabia Saudita e dai suoi alleati perché avvicinatosi a Teheran; l’appoggio dato al wahhabismo e al salafismo da alcuni regimi della regione, anche alle sue frange più violente…

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È sullo sfondo di queste situazioni tutt’altro che semplici che Bergoglio ha dimostrato ancora una volta quali sono le sue priorità e quale vuole essere la geopolitica della Chiesa cattolica del secondo decennio del XXI secolo. Quello che il papa, con tutta probabilità, voleva era un gesto che dimostrasse al mondo la possibilità di dialogo fra il mondo cattolico-cristiano e quello musulmano e, allo stesso tempo, riconoscere che, in un momento in cui le Chiese storiche del Medio Oriente vivono momenti drammatici che spesso costringono i cristiani a fuggire, una zona a dire il vero più a meridione della bimillenaria presenza cristiana, si sta popolando di una nuova cristianità, in gran parte diversa da quella tradizionale e storica che affonda le radici fin nei tempi apostolici o, comunque, nei primi secoli della Chiesa dei Padri. La visita è stata breve, puntuale e centrata su questi due avvenimenti: uno di dialogo interreligioso e l’altro di chiara pastorale nel mondo della globalizzazione. Il resto, come ha detto lo stesso papa Francesco, nel corso della conferenza stampa, non c’era tempo di affrontarlo.

«Sicuramente ci saranno problemi e aspetti negativi, ma in un viaggio di meno di due giorni queste cose non si vedono e, se si vedono, uno guarda da un’altra parte».

Una frase forte, esplicita, che ha suscitato sentimenti contrastanti tra i cristiani della regione. Certamente non dobbiamo prendere queste parole come espressione di un atteggiamento superficiale, tutt’altro. È una scelta di campo precisa e cosciente. Bergoglio, fin dai tempi della sua esperienza di provinciale dei gesuiti in Argentina e poi, soprattutto durante la cura pastorale della diocesi di Buenos Aires, si è sempre dimostrato tutt’altro che superficiale ed approssimativo. Ed anche questa volta non lo è stato. In effetti, nel corso del viaggio, prima o dopo, ha trovato il modo di indicare le problematiche aperte, come la questione della libertà religiosa o del rispetto degli altri diritti umani fondamentali. Ne è ben cosciente. Quello che, tuttavia, ha dimostrato ancora una volta è il fatto di avere le idee molto chiare sulle priorità. La visita ad Abu Dhabi ne aveva due che papa Francesco ritiene decisive nella geopolitica del cristianesimo di inizio XXI secolo: il dialogo fra cristiani e musulmani, appunto, in una epoca in cui, da più parti, si cerca di trascinare le religioni nello scontro di civiltà, e il sostegno a Chiese di recente costituzione, comunità cattoliche, internazionali, con diverse tradizioni e riti al loro interno, in questo caso, presente in modo tutt’altro che trascurabile in terra musulmana. Il resto – i problemi economici e politici, i diritti umani, i giochi dei signori della guerra − rimane, ma non era prioritario nella logica di Bergoglio negli Emirati.

È bene notare che questo papa argentino ci ha abituato a questa sua geopolitica ecclesiale e pastorale. Basti pensare alla visita in Albania, in un Paese dove la religione era stata cancellata ma che ora, fra le tante criticità, ha una dirigenza politica tutt’altro che integra. Nodi simili Francesco si è trovato a dipanarli in Myanmar e Bangladesh con la crisi dei rohingya e non solo: in un Paese ancora controllato, sebbene con modalità diverse da quelle di anni fa, da una giunta militare senza scrupoli e corrotta, ha accettato di fare una visita ufficiale e di recarsi in una capitale “fantasma” solo per i momenti di protocollo ben conoscendo le discriminazioni e persecuzioni perpetrate nei confronti di diverse etnie. La stessa esperienza, sia pure in modo e con toni diversi, si è ripetuta nell’Azerbaijan, repubblica caucasica dove le problematiche lasciate dalla politica di decenni sotto il pugno di ferro di Mosca sono tutt’altro che risolte e hanno lasciato il passo ad altre ancora più complesse: in misura minore alcuni di questi problemi erano presenti anche in Georgia e in Armenia.

Infine, non possiamo dimenticare che Francesco vive nella Città del Vaticano, nel cuore di un’Italia e di un’Europa che, sebbene autoproclamatesi paladine dei diritti umani, hanno in anni recenti (e non solo quelli recenti) dimostrato di essere ben lontane da comportamenti coerenti. Basti pensare al commercio delle armi, al ruolo che un numero notevole di questi Paesi ha nei conflitti di mezzo mondo, per non citare i recenti palleggi di responsabilità fra alcuni Paesi europei per l’accoglienza di poche decine di profughi, per settimane, lasciati a bordo di navi che li avevano salvati dalla morte.

Francesco con la sua coerenza di vita è in grado di esprimere pareri autorevoli che tutti accettano ma, soprattutto, li sa distribuire in vari momenti e contesti socio-geografici e non sempre nella specificità di una visita o di un viaggio o permanenza. In particolare lo sa fare, come è stato chiaro nella visita a Abu Dhabi e in tutti i suoi viaggi precedenti, dopo aver apprezzato la cultura del luogo, modelli sociali, atteggiamenti della popolazione. Senza dubbio sa essere, come lui stesso suggerisce, un costruttore di ponti più che di muri. La sua agenda resta sempre la stessa: per l’umanità intera, la pace, la giustizia, e, quindi, il dialogo, senza dimenticare, ovviamente, la salvaguardia dell’ambiente.

Per la Chiesa cattolica, a fronte delle questioni spinose degli abusi e della credibilità, continua ad insistere su parametri tutti suoi, tipici della teologia del popolo che dimostra di continuare a prediligere. In tal senso resta fondamentale la sua capacità di leggere la realtà ecclesiale dalle periferie più che dal centro e di iniziare processi più che ottenere risultati immediati, ma che rischiano di restare effimeri. In un certo senso, come diceva uno studioso musulmano nel commentare le immagini da Abu Dhabi, il papa argentino dimostra sempre più di essere la coscienza del mondo e di affermare quanto gli sta a cuore nei confronti delle diverse situazioni mondiali.

Questo, tuttavia, non significa farsi condizionare dalle contingenze anche gravi che via via si presentano. Ormai a 6 anni di distanza dalla sua elezione il papato Bergoglio comincia ad assumere un suo peso importante, sia nella storia della Chiesa che nella geopolitica. Soprattutto, si deve essere attenti ai processi che il papa «venuto da lontano» ha saputo mettere in moto. Abu Dhabi è stato per questo una tappa importante.

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