Francesco e il Giappone

Il santo padre è atterrato a Tokyo, in un Paese dal fascino irresistibile tanto quanto complesso dal punto di vista sociale. Immergiamoci nel contesto delle comunità cattoliche locali, una minoranza che vive la sfida dell'integrazione e dell'accoglienza di molti migranti cattolici che arrivano del Paese del Sol Levante

Papa Francesco è in Giappone, la terra in cui aveva desiderato andare missionario durante i suoi studi da giovane gesuita. Vi arriva come papa a trovare una Chiesa davvero di “periferia”, dall’”altra parte del mondo”, come disse la sera della sua elezione parlando dell’Argentina da dove lo avevano scelto i cardinali per guidare la Chiesa. Il Giappone è davvero agli antipodi, e non solo geografici, di Roma. La cultura che da sempre ha suscitato un fascino irresistibile sull’Occidente è anche rimasta ermetica all’occidentale che vi si avvicina senza avere l’atteggiamento giusto dell’ascolto, del rispetto, del saper valorizzare ed entrare nelle sue pieghe più profonde con umiltà. Tutti attributi che non difettano a Bergoglio, che abbiamo visto conquistare il popolo thai proprio con queste sue caratteristiche.

La Chiesa in Giappone attraversa un momento certamente tutt’altro che facile. La sua presenza è minuscola, quasi impercettibile e, negli ultimi decenni, i battezzati locali sono stati veramente pochi. Si vive in clima di recessione ecclesiale, se è concesso usare questa terminologia, anche se l’attuale arcivescovo di Tokyo, mons. Tarcisio Kikuchi Isao, afferma di essere tranquillo e di non lasciarsi impressionare dalle statistiche. Come mi diceva un amico che da decenni vive a Tokyo, ci sono tantissimi giapponesi che si sentono vicini ai valori cristiani, pur non ricevendo il battesimo per motivi di rapporto con i familiari più stretti, e per la questione, complessa e difficile da cogliere in Occidente, della riverenza ed affetto – fino al culto – degli antenati. Ma ci sono altri sviluppi. Dati recenti dimostrano addirittura che il numero dei cristiani non giapponesi che vivono nella terra del Sol Levante ha superato quello dei “battezzati giapponesi”. Si tratta di uno di quei disegni misteriosi della storia umana, che anche qui ripete un fenomeno caratteristico della globalizzazione. Ne abbiamo parlato quest’anno in occasione della visita di papa Francesco ad Abu Dhabi, dove si formata una comunità cattolica che sfiora il milione di persone. In modo molto simile, il fenomeno nuovo che la Chiesa giapponese si trova a dover affrontare è quello del gran numero di persone che sono arrivate nel Paese dell’Estremo Oriente per motivi di lavoro, in particolare manodopera e manovalanza. Si tratta di migranti che provengono da diversi Paesi asiatici, che si fermano più o meno a lungo – spesso anche 10 o 20 anni – ma che, terminati i rispettivi contratti, devono rientrare nei loro Paesi di provenienza. La clausola è strettissima: accoglienza zero.

Da tempo la Chiesa giapponese si sta interrogando su quale atteggiamento avere nei confronti di queste comunità straniere spesso numerose o molto numerose, soprattutto a Tokyo e nel circondario. Inizialmente si è tentata l’integrazione di questi non giapponesi nella comunità cattolica locale, ma con scarsi risultati a causa degli orari di lavoro di questi migranti che non trovano né tempo né forze per studiare e imparare la lingua e, quindi, per partecipare alla vita sociale e inserirsi nel tessuto che li circonda. Senza questi due elementi l’integrazione diventa impossibile. Negli ultimi tempi, sia a livello della Conferenza episcopale che delle parrocchie, si sta facendo strada l’idea che sia necessario e inevitabile rispettare le differenze culturali di queste comunità, sia fra loro che con quella locale del Giappone. Il processo è tutt’altro che semplice, a volte doloroso e, comunque, tortuoso. Da una parte, infatti, i cristiani giapponesi si scontrano con culture diverse con le quali non sanno come comportarsi, dall’altra, i cristiani provenienti dall’estero si trovano persi davanti sia alla cultura shinto che confuciana e buddhista del Giappone che alla vita della Chiesa locale ben diversa da quella dei loro Paesi di origine.

Il problema, come si vede, è molto complesso e si aggiunge a quelli della minuscola minoranza cattolica. Molti di questi “migranti”, nelle settimane scorse, hanno scritto alla diocesi di Tokyo e alle parrocchie per chiedere che il papa intervenga sulla loro situazione. Recentemente, l’arcivescovo Tarcisio Kikuchi Isao, nominato due anni fa dopo un’esperienza missionaria all’estero, è tornato sul problema, nel corso di una cerimonia per l’invio di catechisti nelle varie parrocchie della diocesi. Ha sottolineato come la presenza nel Paese di tutti questi cristiani non giapponesi non sia da considerarsi come un problema, ma piuttosto come una grande risorsa. Senza sottovalutare il fatto che questa novità certamente crea situazioni non facili, ha affermato che potrebbe essere un fenomeno provvidenziale per la Chiesa locale che potrebbe ricevere nuovi semi da questi cristiani. Ovviamente, il problema è ancora aperto e, come detto, questi cristiani non giapponesi sperano che papa Francesco intervenga su questa loro condizione.

Una sfida in più che attende Bergoglio in una terra dove il cristianesimo ha da sempre trovato grandi difficoltà e dove suoi confratelli gesuiti sono caduti martiri. Senz’altro qui papa Francesco affronterà la questione del nucleare e dell’ambiente non solo a causa delle bombe atomiche cadute a Nagasaki e Hiroshima, ma anche per via dei disastri ambientali recenti.

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