Francesco a Sarajevo

papa

Sarajevo ha rappresentato in un certo senso la tragicità del secolo breve: qui, infatti, a inizio novecento, è scoccata la scintilla che ha portato alla Prima Guerra Mondiale e qui, alla conclusione del millennio, è avvenuta una delle carneficine più assurde della storia dell’umanità e di quella Europa che vanta il monopolio del progresso della civiltà e dei diritti umani. La visita di Francesco non è stata, dunque, casuale. Era ed è parte di un pontificato che manda messaggi sempre più chiari non solo ai fedeli cattolici, ma anche agli uomini di ogni angolo di mondo, di ogni etnia, cultura e religione o assenza di credo.

Ventiquattr’ore: un blitz lo si potrebbe definire. Ma un momento importante perché Francesco non è mai scontato nelle sue scelte, nelle sue parole, nei suoi gesti e nel pensiero che lo guida come punto di riferimento – e glielo riconoscono ormai in tanti – non solo per i cattolici ma per il mondo. Come ha fatto notare padre Lombardi, al termine del viaggio, è difficile dire quale sia stato il momento più coinvolgente e più importante. Senza dubbio un papa visibilmente toccato di fronte a religiosi e religiose che hanno condiviso gli orrori della guerra e pagato di persona per stare con la gente ed il bacio delle loro mani ha toccato cuori e sanato ferite. Lombardi ha, tuttavia, sottolineato la valenza dell’incontro interreligioso che ha definito «di altissimo livello» riconoscendo che «anche gli interventi degli altri leader religiosi, che sono stati presenti e che hanno parlato, erano eminenti nella loro qualità».

A differenza di altri eventi di questo tipo durante i viaggi papali, che conservano un loro valore ma restano spesso isolati o casuali, quello di Sarajevo è parte di un cammino lungo, nato nel cuore della guerra degli anni Novanta – era il 1997 – quando si formò quel Consiglio interreligioso, che ha garantito l’esperienza della ricostruzione e del mantenimento della pace, nel tentativo anche della riedificazione di coscienze e di fiducia reciproca. Ieri questo Consiglio era rappresentato da leaders – tutti espressioni autorevoli delle diverse comunità religiose della regione – che da anni continuano «un lavoro estremamente importante di lunga prospettiva e che va in profondità per stabilire veramente un contatto nel profondo del cuore sulla posizione e sulla base della fede, della credenza religiosa, e non degli interessi o dei momenti della politica o dell’economia».

Francesco non è il primo papa ad aver messo piede a Sarajevo. Giovanni Paolo II lo aveva fatto diciotto anni fa quando le ferite erano ancora aperte e i dubbi che si potessero rimarginare erano molti e assai radicati. Questi due decenni hanno visto, grazie anche al lavoro dei leaders religiosi, passi importanti e concreti e per questo papa Bergoglio ha potuto azzardare la proposta di Sarajevo – la nuova Sarajevo – come modello di concordia per il mondo. Questa città resta l’ambiente ideale per accogliere in modo cosciente e significativo la ‘cultura dell’incontro’ di cui questo papa è apostolo e testimone. Alla parola ‘incontro’ Francesco ha coniugato ieri quella della ‘speranza’, incoraggiando, per esempio, sia i religiosi che i giovani a realizzare una pastorale della speranza, i primi, e ad essere la sua realizzazione, gli altri. Sarajevo, simbolo dei conflitti e delle pulizie etniche del XX secolo può essere, in questo senso, «un simbolo della ricostruzione nella comunione – ha sottolineato padre Lombardi – nella diversità, nella convivenza pacifica e armonica delle diverse componenti». Che Francesco insista sulla speranza è stato chiaro nei riferimenti che ha fatto alla fila dei bambini, tutti nei costumi dei diversi gruppi etnici della regione, che lo hanno accolto all’aeroporto: lì, ha giustamente sottolineato, c’è il futuro e, soprattutto, la speranza del futuro.

Un ultimo aspetto che ha colpito nell’incontro coi leaders religiosi è stato il ‘grazie’ che il papa ha rivolto loro. Non è stato un atto scontato e di protocollo. «Rivolgo un cordiale saluto a ciascuno di voi e alle vostre comunità – ha esordito – e ringrazio in particolare per le cortesi espressioni e le riflessioni che sono state proposte. E sentendole posso dirvi che mi hanno fatto bene!». Chissà quante volte nella storia leaders di religioni diverse dal cristianesimo si sono sentiti dire da un papa: mi ha fatto bene quanto hai detto. Anche qui sta una teologia semplice, ma profonda del dialogo ecumenico ed interreligioso. La fede dell’altro, la sua preghiera, la sua tradizione fa bene a noi cristiani, come la nostra fede fa bene agli altri: sono tutti doni di Dio.

È in questo ambito fraterno e di incontro che si comprende come sia credibile quanto Francesco ha affermato: «Il dialogo interreligioso, infatti, qui come in ogni parte del mondo, è una condizione imprescindibile per la pace, e per questo è un dovere per tutti i credenti e […] prima ancora di essere discussione sui grandi temi della fede, è una conversazione sulla vita umana. In esso si condivide la quotidianità dell’esistenza, nella sua concretezza, con le gioie e i dolori, le fatiche e le speranze; si assumono responsabilità comuni; si progetta un futuro migliore per tutti. Si impara a vivere insieme, a conoscersi e ad accettarsi nelle rispettive diversità, liberamente, per quello che si è. Nel dialogo si riconosce e si sviluppa una comunanza spirituale, che unifica e aiuta a promuovere i valori morali, i grandi valori morali, la giustizia, la libertà e la pace. Il dialogo è una scuola di umanità e un fattore di unità, che aiuta a costruire una società fondata sulla tolleranza e il mutuo rispetto». Il papa si è citato, riportando in questi passi frasi intere dell’Evangelii Gaudium, la Lettera Apostolica dove ha dedicato un capitolo fondamentale alla questione del dialogo in generale e, poi, specifico. Il suo auspico è stato che, per nutrire una vera speranza nel futuro, il dialogo interreligioso non si limiti «solo a pochi, ai soli responsabili delle comunità religiose, ma dovrebbe estendersi quanto più è possibile a tutti i credenti, coinvolgendo le diverse sfere della società civile. E un’attenzione particolare meritano in tal senso i giovani, chiamati a costruire il futuro di questo Paese».

Nessuno sconto a buonismo, semplicismo e faciloneria. Bergoglio ha insistito sulla necessità di identità precise per un dialogo vero e sul realismo che rende tutti consapevoli che c’è ancora tanta strada da percorrere. «Non lasciamoci, però, scoraggiare dalle difficoltà e continuiamo con perseveranza nel cammino del perdono e della riconciliazione. Mentre facciamo giusta memoria del passato, anche per imparare le lezioni della storia, evitiamo i rimpianti e le recriminazioni, ma lasciamoci purificare da Dio, che ci dona il presente e il futuro: Lui è il nostro futuro, Lui è la fonte ultima della pace».

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