Fondi pubblici ai partiti: ora basta

O Dio o Mammona: così la Scrittura. In termini laico-politici: o si persegue il bene comune o l’interesse particolare e personale. Tertium non datur. Gli abusi: da sanzionare penalmente e con l’obbligo di restituzione del maltolto
Franco Fiorito

Crisi, ma non per tutti Le  imprese italiane (grandi, medie, piccole) soffrono i morsi della crisi. Non tutte, però. I partiti politici sono, nel nostro Paese, le imprese più redditizie, grazie al denaro pubblico. Lo certifica la magistratura contabile: dall'inizio della Seconda Repubblica (1994), a fronte di 579 milioni di euro di spese elettorali complessive, hanno ricevuto dallo Stato 2,25 miliardi di euro, vale a dire il 389 per cento in più. Il computo è stato fatto dalla Corte dei Conti nel referto dei controlli sulle spese elettorali dei partiti nelle ultime elezioni politiche, quelle del 2008.

I magistrati contabili hanno rilevato la totale assenza di una «correlazione fra contributo finanziario statale e rimborso delle spese elettorali». Il meccanismo del rimborso legato al numero dei voti anziché alle spese – rileva la relazione – ha fatto lievitare i costi delle campagne elettorali, visto che comunque i contributi statali prescindono da essi e sono molto superiori.
Il dimezzamento deciso dal Parlamento nel luglio scorso, non è quindi sufficiente, giacché non intacca, se non in misura minima, il vantaggioso rapporto tra spese ed entrate. Una correlazione che, a parere della Corte dei conti, «meglio avrebbe aderito all'esito del referendum abrogativo del 1993 sul finanziamento ai partiti politici».
 
Un excursus degli ultimi 20 anni Non c’è chi non ricordi che nell’aprile 1993, nel clima di sfiducia susseguente allo scandalo di Tangentopoli, la stragrande maggioranza degli italiani (il 90,3 per cento) si espresse, in un referendum, a favore dell'abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti. Tout court. Senza se e senza ma: abrogazione, voleva (e vuole ancora) dire "zero soldi pubblici ai partiti".
Il Parlamento ne prende atto, e corre ai ripari. Nel dicembre dello stesso anno, emana la legge n. 515 (con la quale modifica ed aggiorna una legge già esistente). Non si parla più di "finanziamento pubblico" ai partiti, bensì di "rimborsi elettorali": cambia la forma, non la sostanza. La sovranità democratica dei cittadini, espressa nel referendum del 1993, elusa ed aggirata. I rimborsi entrano subito in vigore, già quattro mesi dopo, a partire dalle elezioni politiche dell’aprile 1994. Il costo? 91 miliardi di lire (l’equivalente di 47 milioni di euro), per ciascuno dei due anni della legislatura. La stessa norma viene applicata anche dopo le successive elezioni politiche dell’aprile 1996.

Nel gennaio 1997 il Parlamento vara una nuova legge (la n. 2), che prevede la possibilità, per i contribuenti, di destinare il 4 per mille della propria imposta sul reddito al finanziamento dei partiti politici. La presa in giro della volontà popolare continua, reintroducendo dalla finestra – di fatto – in forma indiretta il finanziamento pubblico ai partiti, che era uscito dalla porta. I cittadini destinano parte della propria imposta sul reddito allo Stato, che poi la gira ai partiti. Una sorta di gioco delle tre carte. La gente, in larga misura, non si lascia abbindolare, e la destinazione del 4 per mille dell’Irpef ai partiti fa registrare un gettito irrisorio e comunque di gran lunga inferiore alle attese. Una novità importante, tuttavia, la legge del 1997 la introduce, prevedendo l'obbligo per i partiti di redigere un bilancio per competenza, comprendente stato patrimoniale e conto economico. Meglio che niente (prima non c’era neanche quest’obbligo). Il controllo dei bilanci è affidato alla presidenza della Camera, mentre alla Corte dei Conti è demandato solo il rendiconto delle spese elettorali. Sistema dei controlli rivelatosi poi, alla prova dei fatti, insufficiente, vulnerabile e facilmente aggirabile.

Nel 1999 una nuova legge (la n.157). L’esito del referendum del 1993 è ormai lontano sei anni: forse la gente ha già somatizzato. Si può allora reintrodurre il finanziamento pubblico completo per i partiti (senza nominarlo). Il rimborso elettorale previsto da questa legge, infatti, non ha alcuna attinenza diretta con le spese effettivamente sostenute dai partiti per le campagne elettorali. La legge prevede rimborsi per cinque livelli di elezioni (Regionali, Camera, Senato, Parlamento Europeo, Referendum), erogati in rate annuali di circa 194 milioni di euro. La legge entra in vigore con le elezioni politiche del 2001. Ma la voracità dei partiti non è ancora pienamente soddisfatta, perché la legge del 1999 prevede un quorum del 4 per cento e la durata completa della legislatura. Due paletti scomodi. Ma, per il Parlamento, non ci sono difficoltà per provvedere a superarli, nel quadriennio successivo.

Nel 2002 (con la legge n.156) il rimborso diventa annuale, e viene abbassato dal 4 all'1 per cento  (quello dei partitini fai-da-te) il quorum per ottenere il rimborso elettorale. La spesa prevista, per Camera e Senato, nel caso di legislatura completa, viene più che raddoppiata, raggiungendo 469 milioni di euro.

Nel 2006 (con la legge n.51) esce l’ultimo coniglio dal cilindro: l’erogazione è dovuta per tutti e cinque gli anni di legislatura, indipendentemente dalla sua durata effettiva (sic!). Con quest’ultima modifica l’aumento dei rimborsi cresce in misura esponenziale. Dal 2008, infatti, i partiti iniziano a percepire il doppio dei fondi, giacché ricevono contemporaneamente sia le quote annuali relative anche ai tre anni virtuali rimanenti della XV (interrotta dopo due anni) che alla XVI Legislatura. Siamo all’assurdo!
 
Dopo gli scandali, il Parlamento agisca Visto l’uso disinvolto e spregiudicato che ne fanno, meglio non mettere troppi soldi pubblici a disposizione dei partiti. Per non indurre in tentazione. E, quei pochi, siano sottoposti ad un rigido e trasparente sistema di rendicontazione e di controlli, al Parlamento nazionale come ai consigli regionali. A seguito degli scandali che, nel 2012, hanno interessato i tesorieri della Margherita e della Lega Nord, il dibattito è stato riaperto ed è approdato in Parlamento. Ma è soprattutto sotto la spinta indignata dell’opinione pubblica che, il 6 luglio scorso, il Parlamento ha emanato nuove norme (legge n.96), che prevedono il dimezzamento del finanziamento pubblico ai partiti.

All’art.1, è prevista la riduzione dei contributi pubblici per le spese sostenute dai  partiti a "soli" 91 milioni di euro annui, il  70  per cento dei quali, pari a euro 63,7 milioni, è corrisposto come rimborso delle spese per le consultazioni elettorali. Il  restante 30 per cento, pari ad euro 27, 3 milioni, è erogato, a titolo di cofinanziamento, quale contributo per l’attività politica. Decorrenza: immediata? Retroattiva? No, solo a partire dalla prossima legislatura (e ti pareva!).

All’art. 5 (questo sì, ottimo), è previsto altresì che, per aver diritto ai rimborsi per le spese elettorali, i partiti e i movimenti politici, siano tenuti a dotarsi di un atto costitutivo e di uno statuto, che specifichi espressamente l'organo competente ad approvare il rendiconto di esercizio e l'organo responsabile per la gestione economico-finanziaria. E, inoltre, che lo statuto debba essere conformato a principi democratici nella vita interna, con particolare riguardo alla scelta dei candidati, al rispetto delle minoranze e ai diritti degli iscritti. In caso contrario? I partiti inadempienti decadono dal diritto ai rimborsi per le spese elettorali e alla quota di cofinanziamento ad essi  eventualmente spettante.
Vogliamo augurarci che sia veramente così. Chi di dovere vigili perché lo sia.

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