Una festa dei lavoratori

Tra delocalizzazioni e filiere di sfruttamento, la necessità di sperimentare una nuova e antica solidarietà

Nel giorno della festa dei lavoratori 2019 è bene ricordare quanto avvenuto lo scorso marzo nelle vicinanze dell’Outlet di Castel Romano, nelle vicinanze della Capitale. Un fatto di cronaca, sotto inchiesta della polizia, avvenuto quando alcuni facchini in sciopero sono stati picchiati, usando anche la pistola taser, dalla vigilanza privata di una nota marca di abbigliamento spagnola. Uno dei tanti brand presenti nel grande centro commerciale che, tra l’altro, sarà aperto regolarmente nel giorno del primo maggio. Come tanti altri in questo giorno.

La vicenda di Castel Romano, con i facchini ricoverati in ospedale, rimanda a vertenze poco note ma che palesano la grande ferita della moderna filiera del lavoro con la giungla dei subappalti. Come ha detto Michele Azzola, segretario generale della Cgil di Roma, «L’idea padronale di risolvere i conflitti sindacali ricorrendo alla violenza dimostra quanto sia necessario cambiare profondamente il sistema e intervenire sul rapporto tra committente e appaltatore, anche per evitare il fenomeno distorto dei subappalti spesso al di fuori di qualsiasi norma e regola».

Termini come “padronale” possono suonare troppo ottocenteschi per qualcuno ma rimandano all’origine della festa del primo maggio, agli scontri violentissimi avvenuti negli Stati Uniti per la conquista di diritti elementari e della giornata di otto ore. Una lotta sostenuta dalle organizzazioni dei lavoratori europei in un mondo molto meno connesso di quello dei nostri giorni, ma capace di esprimere una solidarietà internazionale che oggi è molto affievolita.

Proprio la debolezza di una rappresentanza globale delle ragioni del lavoro nei confronti dei capitali liberi di muoversi a piacimento, decidendo se e come investire, è la contraddizione drammatica del sindacato del nuovo millennio. Una estraneità che si consuma, poi, negli stessi luoghi del lavoro quotidiano, tra persone classificate in contratti diversissimi tra loro, fino a forme di prestazione che vanno dal grigio al nero. Contraddizioni aggravate dal crescente ricorso alle famigerate “gare al massimo ribasso” in cui alla fine ci rimettono sempre i lavoratori.

 

Senza parlare del conflitto artificiale che si pone spesso tra la necessità del lavoro per vivere e le fabbriche che producono danni ambientali o strumenti di morte. Contraddizione che almeno da qualche anno è messa in evidenza con la manifestazione dell’”uno maggio”, come la chiamano, a Taranto, epicentro dello scontro tra le strategie della produzione industriale e l’urgenza della tutela della vita di tutti.

In tale contesto va interpretato come un segnale da cogliere il recente incontro “L’Economia dei lavoratori e delle lavoratrici” che si è tenuto, ad aprile, nella fabbrica recuperata RiMaflow, a Trezzano sul Naviglio, con la condivisione di esperienze da Francia, Spagna, Ungheria, Croazia, Slovenia, Grecia, Belgio, Germania, Federazione Russa e Kurdistan. Un esempio di un percorso avviato nel 2007 in Argentina con il recupero e la rimessa in funzione delle imprese da parte degli stessi lavoratori licenziati dopo le chiusure di massa avvenute con la crisi del 2001.

Una realtà, quella della Ri Maflow, visita nel maggio 2018 dall’arcivescovo di Milano Mario Delpini per manifestare la vicinanza e l’invito a non rassegnarsi: «A volte ci sentiamo impotenti, vittime di qualcosa di più grande, di ingiusto. Viene voglia di abbattersi, scoraggiarsi, rassegnarci. Voi non lo avete fatto. Noi, come Chiesa, siamo vicini a ogni situazione di preoccupazione e difficoltà. In ogni persona c’è del bene e il desiderio legittimo di felicità che merita di essere ascoltato. Non dobbiamo condannarci alla rassegnazione, non dobbiamo essere vittime. Alcune battaglie saranno perse, altre vinte, ma non dobbiamo mai smettere di avere stima nell’umanità. Non posso garantirvi soluzioni, ma voglio darvi un motivo, la fede, per sperare».

 

 

 

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