Fellini e la città eterna

Le strade e le piazze del "suo" set a cielo aperto. L’incontro con Rossellini e Giulietta Masina
Marcello Mastroianni, Federico Fellini e Sofia Loren

Chissà se il grande amore di Federico Fellini per Roma, c’entra col fatto che sua madre fosse originaria della capitale, e che qui si conobbero i suoi genitori. Certo è che il suo cinema abbonda di città eterna e anche le opere non ambientate a Roma sono piene di rimandi a quella Roma che accoglie Federico giovanissimo, nemmeno ventenne.

Arriva con la scusa dell’università, e va a vivere in Via Albalonga, a due passi da Piazza Re di Roma. È il 1939. È magro, pieno di capelli, vuole fare il giornalista umoristico. Non si è ancora innamorato del cinema. Gli piacciono le immagini, quelle sì. I colori, l’arte e gli artisti. Il cinema arriverà più tardi, attraverso quella città che per lui era un enorme set a cielo aperto.

Lo disse in un prezioso frammento di televisione, del ’72, Io E… di Luciano Emmer, che funzionava così: a un personaggio famoso veniva chiesto di commentare un’opera d’arte. Fellini non scelse un quadro, una scultura. Nemmeno un film. Scelse l’Eur. E parlò anche di Roma come cinema nel quotidiano: «Spesso Roma mi dà questa sensazione. Dico, ma come? C’è ancora la passeggiata archeologica? Ma non l’hanno ancora smontata? Le notti di Cabiria è un film che ho fatto tanti anni fa? Spesso c’è il conforto e la sorpresa di trovare ancora in piedi strade, piazze, che ormai dovrebbero essere portate al deposito, ai rifiuti». Sono le strade e le piazze di Roma che il suo cinema ha reso memorabili. A partire da un’immagine potente, tra le più importanti di questa storia d’amore: la panoramica aerea che apre La dolce vita, con l’elicottero che attraversa le antiche rovine del Parco degli acquedotti, poi le periferie di Roma Est, altri quartieri e infine San Pietro.

C’è la Roma sacra e profana di Fellini, dentro: magica, misteriosa, e potremmo trovare molti altri aggettivi. Una Roma dei ricchi e dei poveri, con la Fontana di Trevi e la Via Veneto degli attori e dei paparazzi; con l’Appia antica attraversata dalla diva Anita Ekberg e la villa del divo interpretato da Amedeo Nazzari in Le notti di Cabiria, ma anche con la Centocelle de la prostituta di La dolce vita e le grotte del parco della Caffarella dove vivono certi poveri assistiti da un volontario che va a portargli da mangiare, sempre in Le Notti di Cabiria. E poi Caracalla, dove da una parte ballano i ricchi nelle feste esclusive, e dall’altra le povere donne come Cabiria vendono il loro corpo per fragilità, perché non hanno mai conosciuto altre strade.

Fino alla Tuscolana di Piazza San Giovanni Bosco e all’Eur, appunto, che Fellini amava molto e dove girò diverse sequenze dei suoi film. «L’Eur ti restituisce questa leggerezza – disse alla telecamera di Emmer – come di abitare nella dimensione di un quadro: un’atmosfera liberatoria, visto che in un quadro non esistono leggi se non quelle estetiche». Dell’Eur amava la sua metafisica ma la Roma raccontata da Fellini è anche calda e popolare, quelle delle trattorie e dell’avanspettacolo, la Roma colorita e grassa, sudata e rumorosa di San Giovanni e di Trastevere, conosciuta alla fine degli anni ’30 quando dopo San Giovanni c’era solo campagna, e infatti in Roma, meraviglioso film con cui nel 1972 il regista rievoca la città che lo accolse più di trent’anni prima, le pecore attraversano la piazza davanti alla basilica. È un film autobiografico, Roma, sui primi anni di Fellini nella capitale, ma è anche il ritratto dei suoi abitanti coloriti e caciaroni.

C’è un’ultima Roma di Fellini, però: vera ma più ancora illusoria; reale ma più ancora bugiarda, inafferrabile. Immaginaria. Fantasiosa. «Quando mi chiedono qual è la città in cui vorrebbe vivere – diceva sempre Fellini ad Emmer – alla fine se dovessi esser sincero, dovrei dire Cinecittà. Una città che può essere inventata giorno per giorno». Quella città nella città, alla fine della città, sulla Tuscolana che sta per incrociare il raccordo, è stata per Fellini la protagonista di un film: Intervista, del 1987, e addirittura lo spazio della sua camera ardente, con lo Studio 5 – per lui anche rifugio – che subito dopo quel 31 ottobre del 1993 divenne luogo per chi voleva salutarlo.

Alla fine di una vita in cui Roma – insieme a Rimini – è stata la sua città. Fatta di una serie di luoghi fondamentali, come la sede del Marc’Aurelio in Via Barberini 68, dove iniziò a scrivere e disegnare e dove, nel maggio del ’39, conobbe Ruggero Maccari col quale iniziò a buttare giù gag per gli spettacoli di Varietà di allora. Di vari comici tra cui Fabrizi, di cui Fellini divenne amico. Di notte tornavano insieme a piedi, dal centro fino a San Giovanni. Fabrizi abitava in Via Sannio, vicino a Fellini, e allora chiacchieravano, anche se era soprattutto Fabrizi a parlare. Raccontava la sua vita non semplice da ragazzino e a Fellini piaceva ascoltarlo.

Per Fabrizi scrisse i soggetti di Avanti c’è posto e Campo de Fiori, nel 1942, e per Fabrizi, quando durante la guerra per campare faceva le caricature per i soldati americani in un negozio in Via Nazionale, venne a trovarlo Rossellini. Stava preparando Roma Città aperta e voleva Aldo Fabrizi. «Sei tu Federico Fellini?» «Sono io», disse Fellini. «Mi chiamo Rossellini. Sto mettendo su un film che parla di Roma sotto l’occupazione nazista. La storia di un prete fucilato dai tedeschi. Fabrizi è l’unico che può interpretare la parte, ma i dialoghi scritti non lo soddisfano». Rossellini spiegò a Fellini che con la sua mediazione e la sua opera di convincimento, insieme al suo lavoro sui dialoghi si sarebbe potuto raggiungere l’obiettivo.

Fellini prese parte alla sceneggiatura di Roma città aperta, e tutto cambiò. Era il Neorealismo, e lui collaborò anche alla sceneggiatura di Paisà, di cui girò addirittura alcune sequenze. Rossellini gli mostrò che il cinema poteva essere fatto in libertà, in modo personale e questo fu per Fellini la svolta.

Quell’incontro in Via Nazionale fu determinante, come l’indirizzo di Via Asiago 10, dove c’era L’Eiar e dove Fellini conobbe Giulietta Masina. Era il ’42. Lei era Pallina nella rubrica Cico e Pallina di una trasmissione dal titolo Terziglio. Federico ne era l’autore e si sposarono. Era il 30 ottobre del ‘43, poche settimane dopo l’armistizio. Per quasi tutta la vita hanno abitato in Via Margutta e amavano passeggiare insieme fino a Piazza del Popolo e per le gallerie d’arte, gli antiquari e le botteghe dei pittori.

Il giorno del matrimonio andarono a trovare Alberto Sordi che stava recitando a teatro. Lui si fermò e disse al pubblico che quelli appena entrati erano suoi grandi amici. Non aveva potuto assistere al loro matrimonio, ma erano stati così cari da andare a trovarlo mentre lavorava. Il pubblico applaudì quei due ragazzi ancora vestiti da sposi e Sordi stesso racconta dei primi tempi della sua amicizia con Fellini: erano giovani, sognatori e squattrinati.

Andavano a mangiare in Via Frattina, accanto all’antiquario Apolloni, con la cameriera che forse si era innamorata di uno di loro gli metteva un uovo sotto la pasta, di nascosto dalla cuoca. Poi Fellini conobbe Giulietta e iniziò a mangiare: «Richiamava una mia nostalgia di innocenza. Mi prende per mano e mi porta in zone dove da solo non sarei mai arrivato», diceva Fellini di lei. Per lei, e con lei, realizzò opere straordinarie come La strada e Le notti di Cabiria. Con lei il suo genio ha inventato un cinema irripetibile che segna un prima e un dopo. Con lei, e anche un bel po’ per mano a Roma, Fellini ha regalato al cinema i suoi capolavori che lo porteranno ad essere ricordato non solo oggi, che sono i cento anni dalla sua nascita, ma anche, c’è da scommetterlo, per i duecento, trecento, cinquecento anni. Almeno. Buon compleanno, Federico.

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