Far politica industriale in tempi fragili

Gli scenari evocati dal workshop Ambrosetti di Cernobbio richiedono cambiamenti decisivi nella produzione, negli investimenti e leadership, con particolare attenzione alle risorse e al lavoro
Fabbrica Bertone

Mentre gli operai sardi di Portovesme partivano con i loro caschi gialli verso Roma, per difendere il lavoro e quindi la loro stessa esistenza, nello scenario di villa d’Este, a Cernobbio, sul lago di Como, si celebrava, dal 7 al 9 settembre, il seminario evento dello studio di consulenza direzionale Ambrosetti.
L’appuntamento, che si tiene ogni inizio dell’anno sociale, ha «l’ambizione di fornire ai massimi responsabili d’impresa e alla classe dirigente elementi utili per prefigurare scenari futuri ed elaborare visioni strategiche vincenti», così ha affermato il senior partner Valerio de Molli nel discorso di apertura dell’edizione 2012.

Se si superano le formalità esteriori, si rimane colpiti, leggendo l’analisi iniziale proposta dallo stesso de Molli, dai concetti espressi. Si tratta di analisi che da decenni vengono proposia da quei movimenti ambientalisti, legati ad Altra economia che contestano le modalità di sviluppo imposte dalla globalizzazione e dal pensiero liberista.

Ecco allora che De Molli parla di «insostenibilità di un modello di sviluppo occidentale che per anni si è basato sulla leva del debito» e invita a dare uno sguardo al pianeta e ai suoi enormi paradossi a partire da quel divario sociale costantemente in crescita che ha reso i «ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri» e l’Europa, un continente «in declino e con poche idee». Uno sguardo alla «classifica dei primi mille nuovi decimilionari al mondo, nel 2011, – mostra – non c’è un solo europeo!».
Si esamina anche l’uso sconsiderato delle risorse mondiali (dai 3 miliardi di animali di allevamento che consumano un terzo dell’intera produzione alimentare alle banche in possesso del valore in prodotti derivati pari a 4 volte il Pil dell’intera economia mondiale). Insomma, uno scenario che rischia di «esplodere all’improvviso con tensioni e lotte geografiche, generazionali e/o di classe con epiloghi difficilmente prevedibili». Cifre e analisi accompagnate da citazioni di Gandhi e Carlo Maria Martini nvitano a trovare «una forte leadership in grado di riorientare cambiamenti profondi e strutturali anche negli stili di vita e di consumo con una visione di lungo termine».

L'invito al cambiamento è tassativo e i segnali che giungono dal workshop Ambrosetti sono significativi ed emblematici perché mettono in evidenza l’urgenza di adottare una politica industriale europea conseguente ad una visione di lungo termine. È ciò che emerso negli interventi di Romano Prodi, Markus Kerber, presidente degli industriali tedeschi, assieme ai commissari europei al mercato interno, Michel Barnier, e alla concorrenza, Joaquin Almunia. Come ha detto Prodi, «la Germania è troppo grande per l’Europa e troppo piccola per il mondo» e restando «da sola non potrà reggere la concorrenza». Il nodo centrale resta la questione dei costi dell’energia che non può vedere un Paese armato contro l’altro per accaparrarsi le risorse di idrocarburi. Tema che si trasferisce anche nei problemi di casa nostra: l'Alcoa è un'impresa che per la produzione d'alluminio impiega notevoli quantità di energia con costi insostenibili che fanno prevalere l'orientamento alla chiusura.

Si tratta di uno dei tasti sui quali batte insistentemente il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che reclama una linea di politica industriale chiara ed esplicita da seguire assieme.
A dire il vero un progetto di questo genere esiste. Si chiama “Industria 2015” ed è stato approntato nel 2006, con l’intenzione di stabilire le linee guida necessarie «per il riposizionamento strategico e competitivo del sistema industriale italiano nell'ambito dell'economia mondiale». Sarebbe il caso di riprenderlo in mano per farne occasione di un dibattito vero, basato sui contenuti comprensibili piuttosto che su formule astratte. Un esercizio necessario di democrazia reale. Altrimenti resta solo il discorso elitario per nuove e vecchie pretese leadership.

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