Eurozona, grandi proclami e pochi risultati?

Il piano di 300 miliardi di investimenti con cui Jean Claude Juncker è riuscito a farsi eleggere presidente della Commissione Europea sembra avviarsi al fallimento, perché si propone di attirare oltre il 90% delle risorse necessarie da privati. Una riflessione
Banca centrale europea - Francoforte

David Cameron ha inaugurato la campagna referendaria in favore della permanenza della Gran Bretagna nella Comunità Europea, sventolando il suo cosiddetto “successo” di poter escludere per sette anni gli immigrati europei dai benefici della sicurezza sociale inglese.

 

Intanto il sindaco di Londra, suo compagno di partito, pronunciandosi contro, ha fatto crollare il valore della sterlina, segno che la City, che sa fare i conti, vuole rimanere in Europa, anche se questa è piena di acciacchi, con Paesi che litigano: quelli dell’Est vorrebbero che gli altri continuassero ad essere solidali con loro versando i fondi strutturali, ma non vogliono esserlo con gli immigrati, i Paesi del Nord attenti al rigore vorrebbero un ministro del tesoro unico che controllasse i conti di tutti, mentre quelli del Sud lo accetterebbero, ma se distribuisse anche risorse…

 

Servirebbe davvero un ministro del tesoro comune? Non farebbe la fine dell’Alto rappresentante della Comunità Europea Mogherini a cui i capi di stato ed i ministri degli esteri dei paesi europei lasciano davvero poco spazio?

 

Uno spazio se lo potrebbe conquistare solo se ai ministri del tesoro dei singoli Stati avesse qualcosa da offrire in cambio, come sostituirsi ad essi nel finanziare spese o nell’effettuare investimenti.

 

Attualmente l’economia asfittica aumenta il malumore generalizzato, assieme ai consensi verso chi vorrebbe liberarsi da una struttura che ogni anno assorbe circa l’un per cento del PIL degli stati, 140 miliardi: la metà di tali risorse torna per finanziare attività nei vari paesi, maggiormente verso quelli che si devono integrare, e per investimenti strutturali suggeriti dalle autorità locali: l’Italia versa sedici miliardi e ne può avere indietro sei, quando propone progetti validi.

 

Diciannove delle 23 nazioni della comunità hanno scelto la  moneta unica: quelle più avanzate lo hanno fatto per ampliare un mercato senza ostacoli per le loro aziende, quelle meno avanzate per essere aiutate ad adottare leggi che cancellino le cattive abitudini ed a realizzare investimenti di ammodernamento delle loro strutture.

 

Mentre per le prime nazioni la comunità “funziona”, per le seconde la via risulta più impervia del previsto, per le resistenze interne ai cambiamenti di chi si era ritagliato privilegi e per la difficoltà a trovare le risorse per rilanciare l’economia: per rendere stabile e credibile la moneta comune, col trattato di Maastricht si sono impegnati a contenere i deficit di bilancio ed il debito pubblico.

 

Non potendo più rilanciare l’economia con la svalutazione della moneta, né aumentando le imposte già elevate, le risorse necessarie dovrebbero trovarsi nella riduzione della spesa pubblica e dell'evasione fiscale, difficili da realizzare in tempi brevi.

Così gli sperati vantaggi futuri della integrazione per queste nazioni vengono appannati dagli oneri del presente ed il crescente disagio offre sempre più argomenti a quanti vorrebbero abbandonare questa esperienza.

 

Diventa sempre più evidente che quando si è scelta la moneta unica si sono fatte le cose a metà, si è preteso di fare quelle “nozze con i fichi secchi” che la saggezza popolare del proverbio sconsiglia, mentre l’essere nuovamente entrati in recessione impone un qualche cambiamento alla politica europea.

 

Il piano di 300 miliardi di investimenti da realizzare negli anni del suo incarico, con cui Jean Claude Juncker è riuscito a farsi eleggere presidente della Commissione Europea, assomiglia proprio a delle “nozze fichi secchi”: egli infatti dedica ad esso una parte risibile di risorse della comunità europea e si propone di attirare oltre il 90 % delle risorse necessarie da privati: una magia di difficile realizzazione. 

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