Europa, grandi novità ai vertici

Designate, per la prima volta, due donne a capo di importanti istituzioni Ue. Sulla nomina di Von der Leyen al vertice della Commissione, pende, tuttavia, l’incognita del voto in parlamento. L’Italia ottiene la presidenza del parlamento, per la prima metà della legislatura
AP Photo

Molti osservatori hanno trovato sconcertante lo spettacolo dei capi di Stato e di governo dei 28 riuniti in Consiglio europeo per interminabili ore diurne e notturne per decidere le nomine ai vertici delle istituzioni dell’Unione europea (Ue) per i prossimi anni. Vale tuttavia la pena di ricordare che l’Ue è un’unione di popoli e di Stati. Se i popoli sono rappresentati al Parlamento europeo (Pe), dove è sempre possibile trovare una maggioranza stabile in base all’esito delle elezioni e alla forza relativa di ciascun gruppo politico, per gli Stati – rappresentati al Consiglio europeo o nel consiglio dei ministri Ue, nelle sue varie formazioni – il processo è assai più complesso.

Al Consiglio europeo non si vota, si cerca un consenso. Non c’è una maggioranza definita, ma leader nazionali appartenenti a o coalizzati con (Macron) una delle tre famiglie politiche tradizionali (8 popolari, 7 socialisti, 7 liberali) o, più raramente, espressione di famiglie politiche minoritarie o indipendenti (il nostro Conte, i britannici, i polacchi, ecc.), che discutono – a volte molto a lungo – per trovare un compromesso.

Ognuno con i propri interessi nazionali da difendere. Alla ricerca, nel caso delle nomine in questione, di un equilibrio non solo tra tendenze politiche, ma tra Nord e Sud, Est e Ovest, uomini e donne, e con un’esigenza di ricambio generazionale espressa da più parti. Un esercizio assai delicato, in cui si procede per tentativi, e che consuma un sacco di tempo e di energie.

Martedì 2 luglio è stata trovata la quadra per quattro delle principali nomine, dopo una serie infinita di bilaterali con il presidente del Consilgio europeo Tusk e dopo che la soluzione, prospettata dalla cancelliera Merkel a Osaka ai leader Eu partecipanti al G20 e da loro approvata (il socialista Timmermans alla guida della Commissione Ue) era stata clamorosamente bocciata dagli altri leader popolari che, dopo aver accettato di malavoglia di abbandonare il proprio candidato Manfred Weber, si sono rifiutati di essere posti di fronte al fatto compiuto, pur dalla più potente, ma evidentemente in calo di capacità di influenza, esponente della famiglia del Partito popolare europeo.

Timmermans, oltretutto, mai avrebbe ottenuto l’appoggio dei polacchi (conservatori), ungheresi e romeni (popolari), governi che sono stati messi sotto accusa da Timmermans, nella sua attuale funzione di vicepresidente dell’attuale Commissione, per mancanze in materia di Stato di diritto.

I ribelli del Partito popolare europeo hanno finalmente ottenuto la nomina di un esponente della loro famiglia politica al posto più importante, quello di presidente dell’esecutivo Ue, dove il Consiglio europeo ha designato una donna, la ministra tedesca Ursula von der Leyen.

Un’altra donna, la francese Christine Lagarde, attuale capo del Fmi, è stata nominata alla presidenza della Banca centrale europea. Per la prima volta nella storia dell’integrazione europea, due donne in due posti chiave delle istituzioni Ue, un’enorme novità ed un’ottima notizia.

Per l’Italia si tratta tuttavia di notizie solo relativamente buone. Se Lagarde dovrebbe continuare la politica monetaria espansiva intrapresa da Draghi, e di cui il nostro, come altri Stati dell’Eurozona, hanno beneficiato, von der Leyen sarà certamente una paladina del rigore nei conti pubblici.

Forse meno dello Spitzenkakandidat Weber, ma il nostro governo farebbe bene a non aspettarsi regali di sorta dalla prossima Commissione, relativamente alle procedure di infrazione che periodicamente pendono sull’Italia (e che comunque sono solo proposte dalla Commissione, e poi decise dagli altri Stati membri).

Le altre due nomine decise il 2 luglio sono quella del giovane premier belga Charles Michel (43 anni), liberale, alla guida del Consiglio europeo e del navigato socialista spagnolo Josep Borrell come Alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri, posto attualmente occupato da Federica Mogherini.

Sulla nomina di von der Leyen pende tuttavia un’incognita. Il Pe rischia infatti di avere un grosso problema di credibilità e di peso politico. Nel 2014 era riuscito, con successo, ad imporre la logica degli Spitzenkandidaten: il “candidato di punta” designato dalla famiglia politica europea che aveva ottenuto il maggior numero di consensi alle elezioni europee, cioè il popolare Juncker, era stato designato dal Consiglio europeo e poi votato, senza alcuna difficoltà, dal Parlamento.

Dalle elezioni europee di maggio, ancora una volta, il Ppe è risultato il primo partito, ma il suo candidato, Weber, è stato rapidamente scartato dai leader Ue, per la ferma opposizione di Macron. Da qui la proposta di Timmermans, che era lo Spitzenkakndidat dei socialisti. Ora il Pe si troverà a votare un presidente designato della Commissione, una donna politica di grande esperienza uscita dal cilindro del Consiglio europeo, ma che non era una Spitzenkakndidatin.

Sinora, solo i popolari (von der Leyen è una dei loro) e liberali (da sempre contrari, in assenza di liste elettorali paneuropee, alla logica degli Spitzenkandidaten) hanno assicurato il loro voto. Ma occorrerà il sostegno anche dei socialisti ed eventualmente dei verdi, che non hanno fatto mistero della loro delusione.

Per il Pe, votare von der Leyen significherebbe cedere su una delle più importanti battaglie, sinora coronata di successo, nel braccio di ferro permanente con gli Stati membri. Significherebbe, cioè, cominciare la legislatura con il piede sbagliato, con un gesto di debolezza politica che potrebbe condizionarne la capacità di influenzare le decisioni nei prossimi 5 anni. È probabile che alla fine il Pe darà il via libera alla candidata, magari in modo non ortodosso (per esempio, con l’appoggio puntuale del gruppo di Salvini, che rappresenta il 10% degli eletti ma è tenuto fuori da ogni discorso sulle maggioranze).

Intanto il Pe ha eletto il suo presidente, seguendo l’indicazione del Consiglio europeo secondo cui il posto sarebbe dovuto andare ad un socialista. L’Italia, tagliata fuori dai giochi delle nomine a causa del suo isolamento in Consiglio Europeo (il nostro governo non è apparentato ad alcuna delle tre famiglie politiche che, di fatto, hanno deciso le nomine) ha ottenuto un risultato davvero insperato con l’elezione di David Sassoli del Pd. Che presiederà l’assemblea per i primi due anni e mezzo della legislatura, per poi lasciare il posto a un popolare, in ossequio alla consolidata logica della staffetta.

Chi non ha ottenuto nulla, in apparenza, sono i governi dei Paesi dell’Europa centrale e orientale. In realtà il gruppo di Visegrad ha ancora una volta fatto blocco, non tanto per ottenere una nomina, ma per ostacolare quella di Timmermans. Che per l’Italia – pare che Conte, su indicazione di Salvini, si sia allineato sulla posizione dei quattro di Visegrad – sarebbe probabilmente stato un candidato, oltretutto sicuro di ottenere il voto del Pe, preferibile, per la sua sensibilità sociale più in linea con le politiche del governo gialloverde.

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