L'esperto risponde / Salute e benessere

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Vita consacrata

La necessaria umanità

Sono una consacrata e con qualche fratello della nostra realtà maschile ultimamente stiamo condividendo alcune osservazioni che ci toccano personalmente. Entrambi, pur essendo felici e convinti della nostra vocazione, realizzati nello studio (io) e nel lavoro apostolico (lui), notiamo quanto potrebbero crescere le nostre comunità dal punto di vista dell’umanità. È vero che ci possono essere anziani e anziane difficili da sopportare, esigenti e lamentosi, come anche i giovani, possono essere passivi e poco collaborativi, e poi ci sono le differenze culturali, ma talvolta pensiamo che se trovassero case meno rigide e prese solo dai mille impegni da portare avanti, forse si tranquillizzerebbero un po’, e tutti staremmo meglio. Abbiamo troppe opere da gestire e poche forze, quindi si capisce che le nostre energie sono orientate a risolvere continue emergenze, ma nel frattempo le nostre comunità rischiano di inaridirsi. Si può essere in 3 e sentirsi a casa ed essere in tanti, ma sperimentare un grande senso di solitudine. Parlare di famiglia, allora, è azzardato in alcune nostre case.

Siamo tornati diverse volte sul tema della comunità come gruppo umano “speciale”, speciale al punto che nessuna immagine di gruppo è del tutto adatta a rappresentare le dinamiche di una realtà vocazionale fraterna.

La riflessione iniziale, ma anche le diverse storie di vita che ho modo di affiancare quotidianamente, rendono però alcune considerazioni sempre attuali e forse non scontate.

C’è Paolo che da poco ha lasciato la vita religiosa e che si trova completamente da solo ad affrontare il suo “reinserimento” nel mondo del lavoro, e della vita fuori da una struttura nella quale è cresciuto e nella quale ha creato tanti rapporti buoni e amichevoli.

Marta, invece, sta affrontando delle difficoltà personali, certo può andare ogni tanto a casa a trovare i suoi genitori, sono loro, infatti, a crearle molti pensieri, lei che è figlia unica, ma quando rientra in comunità le due esperienze sembrano non avere alcun collegamento. Se sta a casa, si occupa dei suoi ed è concentrata lì, quando rientra riprende la vita comunitaria come se niente fosse: nessuno le chiede granché oltre la domanda formale, nessuno sembra aver ben capito la gravità delle sue preoccupazioni.

Infine c’è Matteo, di mezza età, il quale dopo tanti anni di percorso non si è ancora arreso a vedere alcuni confratelli isolati, distaccati, molto poco coinvolti nella vita insieme. Anche Matteo, ormai, sta imparando a prendere distanza e a farsi «gli affari suoi», «tanto nessuno è attento a nessuno». Purché non si diano problemi e si rispetti il lavoro, ciascuno è del tutto autonomo nella gestione della vita ordinaria, ignaro della condizione interiore del fratello accanto.

Tre icone possibili e frequenti nelle comunità. Ci sono esperienze fraterne serene, capaci di sostegno e vicinanza a giovani e anziani, a forti e deboli, ma non sono rare le tre voci-icona che fanno eco alle parole della nostra lettrice.

Allora recuperiamo la categoria “famiglia” per le fraternità di uomini e donne, ma prendiamone la dimensione sana e costruttiva.

Anche perché, parliamoci chiaro, se ci sono persone che a distanza di molti anni, sono ancora proiettate più sui luoghi di origine che sulla scelta che hanno compiuto, oppure hanno amicizie e fiducia solo in rapporti esterni alla comunità, sconfortati dalla freddezza interna, qualcosa non va. Certo questo ha a che vedere con molti fattori: la realizzazione vocazionale, la maturità individuale, l’egocentrismo del nostro tempo, ma direi – per essere onesti – anche col benessere che si vive nel gruppo di appartenenza.

Nel gruppo possono non esserci amici, come quelli che si sceglierebbero o che si sono incontrati nella vita, può succedere non è strano. Come ripetiamo spesso, non ci sono neppure relazioni filiali in senso stretto, cosa che renderebbe infantile la dinamica del gruppo e anche insana. Ma dimensioni quali il supporto, l’ascolto, la stima, il rispetto dell’altro con la sua storia e i suoi momenti alti e bassi, sono centrali per una comunità sana, armonica, che possa essere attraente per i suoi membri e per quelli che si avvicinano con un desiderio vocazionale.

Il fuggi fuggi fuori casa, ripeto, sottende tante questioni, ma ciò non esonera dall’interrogarsi su come funzioni «la nostra famiglia concreta», quale sia il clima prevalente: indifferente o accogliente, giudicante o capace di dare spazio, c’è un’aria serena o conflittuale, c’è libertà di espressione o, invece, prevalgono sempre le stesse voci, quelle più forti e capaci di orientare tutte le altre.

Sempre più comunità oggi si mettono in discussione, dopo molteplici uscite, a causa delle scarse entrate, o motivate dalle situazioni spesso faticose che i responsabili si trovano a gestire riguardo alle relazioni fraterne. Il lavoro è complesso, ma la domanda di fondo è molto semplice: cosa non funziona nel nostro stile di vita, o potrebbe funzionare meglio?

Non che si debbano rincorrere i consensi così da poter convincere i giovani ad entrare. La vocazione alla vita fraterna non è per tutti. I piccoli numeri sono evangelici. Ingrossare le fila delle comunità non è nello spirito della loro essenza.

Tuttavia lavorare sull’umanità dei membri e del loro stare insieme, anche alla luce di molte sofferenze passate e presenti, penso possa essere uno stimolo bello, arricchente, doveroso per non continuare passivamente sull’onda delle tradizioni e del fatto che «per qualche anno siamo tranquilli, perché tanto vocazioni ce ne sono».

Come farlo?

  • Intanto può essere utile enucleare le difficoltà, in modo chiaro e il più oggettivo possibile, senza caricare tutto già di un’interpretazione e quindi di un significato.

Enucleare.

  • Creare spazi dove sistematicamente si possano esprimere cose belle e meno belle di quella specifica realtà. Senza giudizi, senza creare caos, perché l’interesse è che le cose vadano meglio, e non quello di valutare personalmente questo o quel fratello/sorella. Attenzione, quindi, al linguaggio che si utilizza.

Avere spazi.

  • Aiutarsi a prestare attenzione (non ad impicciarsi, che è diverso) alla persona accanto, con un volto e un nome. Riconoscerla non come una qualunque, ma come individuo concreto. «Ieri non ti ho visto, tutto bene?». «Mi pare che tua sorella fosse in ospedale, si è ripresa?». Non servono i dettagli, è già molto offrire cura che si fa interesse delicato per la vita altrui. La solitudine fa male. Nessuno può vivere senza avere intorno rapporti affettuosi, che si interessino a me e io all’altro. Penso sia chiaro che questo non ha a che vedere con realtà fusionali, dove manca la riservatezza, e il confine interpersonale.

Avere cura.

Le comunità hanno moltissimo da dire al mondo, sono vocazioni irrinunciabili. L’umanità, però, non è secondaria perchè esse siano esperienze credibili.

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Vita in comune

In comunità siamo una famiglia?

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Giorni fa ho richiamato un giovane che, durante un momento di gruppo, ha espresso alcuni sentimenti personali. Il mio richiamo è nato dalla preoccupazione che fratelli più anziani e maturità diverse avrebbero potuto travisare quell’espressione di sé. E infatti, dopo pochi giorni, qualche fratello è venuto a discutere con me non avendo capito cosa Marco [nome di fantasia] volesse dire. Torna, allora, un nostro “campo di battaglia” sull’essere gruppo: cosa significhi e quali sono le accortezze da mantenere. Un formatore


  Non è nuovo per questa rubrica l’argomento famiglia e fraternità. Tema affascinante e significativo. Bellissima categoria antropologica il “siamo famiglia” ma chiederei innanzitutto “quale famiglia”: tra ieri e oggi ci sono state talmente tante trasformazioni che l’assetto domestico ha cambiato volto nell’ultimo decennio, e si fatica un po’ a delineare un quadro familiare standard. Si sono accorciate le distanze genitori-figli, piuttosto amici che educatori i primi verso la prole, il lavoro con i suoi ritmi ha reso la presenza in casa da parte di padri e madri ridotta al minimo, l’ingresso della tecnologia ha aperto varchi enormi nelle giornate anche dei più piccoli, con tutta una serie di conseguenze sulla dimensione relazionale e sessuale. Se ne parla molto già da tempo e questi sono solo rapidi cenni. La vita comunitaria dove si colloca? È necessario utilizzare la categoria famiglia secondo alcune coordinate di riferimento, perché la chiarezza chiama in causa il modo di comunicare tra i membri, lo stile di vita insieme, il rapporto di chi è chiamato a governare con gli altri membri, l’apertura di sé con i fratelli e le sorelle di comunità. Le esperienza soggettive nelle realtà di origine sono le più diverse è chiaro, tuttavia la vita fraterna nei processi vocazionali ha bisogno di riferimenti propri che aiutano ad evitare confusioni nei rapporti interpersonali. Questa volta proverò a condividere qualche considerazione esperienziale per punti sintetici, che non possiamo approfondire singolarmente. Chiedo scusa se propongo temi noti a chi vive direttamente una vocazione comunitaria, è solo una strada per dare voce a riflessioni che nascono dall’affiancare storie concrete di vita.
  • I ruoli sono temporanei: non si è responsabili o formatori a vita, non ci sono genitori/figli, mamma/papà. I compiti che si ricevono in comunità o nell’Istituto hanno una durata temporanea e funzionale allo svolgimento di un servizio, per il bene dei fratelli e delle sorelle. Gli incarichi, però, ruotano e chi è oggi superiore, domani lascia quell’impegno e ne assume un altro. Di fatto il piano è paritario e di reciproco dono. Una grande benedizione per la vita in comune questa rotazione che evita l’appropriazione di un “titolo” e la tendenza naturale a viverlo come “mio per sempre”.
 
  • L’ambiente comunitario è familiare purché si declini questo termine tenendo conto che a stare insieme sono persone che talvolta non si conoscono, perché magari trasferiti da un’altra sede. In ogni caso, anche laddove la comunità fosse stanziale: le età, i percorsi di vita, le storie personali e le provenienze geografiche sono molto diverse. Quanta delicatezza è richiesta per un assetto simile! L’idea di “appartenersi” l’un l’altro (“altrimenti che comunità saremmo”) quasi mi spaventa: la vocazione non avviene come gruppo. La coppia si sceglie, si dona e si appartiene reciprocamente (ma anche qui bisognerebbe declinare meglio l’appartenenza); i membri di comunità, invece, hanno una fisionomia differente, che rischia altrimenti espressioni fusionali molto pericolose e malsane. È sempre Dio all’origine di ogni vocazione, tuttavia nessuna vocazione può esattamente conformarsi ad un’altra. L’apertura che un coniuge ha con il partner, ad esempio, non può essere l’icona di riferimento per immaginare che Carlo debba aprirsi con Mario, Francesca debba raccontare ogni dettaglio di sé a Paola.
  Durante i pasti, in casa – per fare un altro esempio – talvolta si affrontano argomenti delicati che riguardano questioni interne di famiglia, ma di solito si presta una maggiore attenzione rispetto ai contenuti qualora ci fossero persone non del nucleo più stretto. Crescere insieme e conoscersi da anni, come accade nella famiglia naturale, orienta il modo di stare insieme e di comunicare, di conseguenza anche la conversazione domestica si modella prestando una cura di riservatezza. In comunità, mentre si è a tavola, si potrebbe parlare del lavoro, della giornata, di “come è andata oggi” (cosa che purtroppo non sempre avviene), ma sarebbe meno opportuno scendere in questioni private in uno spazio di per sé non deputato alle “confessioni”. Schiacciare, quindi, la comprensione della fraternità su un’apertura incondizionata, “tutto a tutti” e aspetti simili porta a disordine. Ci sono luoghi, spazi e modalità di condivisione, che dovrebbero rispettare la conformazione di quello specifico gruppo. Non ha senso ragionare in astratto.
  • Si è fratelli e sorelle, ma la fonte di tale legame dà l’impronta al modo di esprimere la relazione fraterna. Il linguaggio. Il decoro personale. La postura corporea. Potrebbero essere titoli per altrettante riflessioni sullo stile di un ambiente vocazionale. I giovani che entrano in quell’ambiente quale clima trovano? È vero che lo spazio non “costruisce” la persona, ma di certo la condiziona, la educa, la bellezza attiva bellezza, il tono di voce ispira emulazione nel tono di voce, un abbigliamento decoroso favorisce una dignità corporea. Potremmo andare avanti ancora con l’elenco.
  È forse un galateo la vita fraterna? Attenzione – mi si permetta – a non travisare delle accortezze che custodiscono lo stare insieme tra persone non selezionate l’una con l’altra, a delle forzature relazionali e ambientali. Per concludere. Partecipare a tutti che “ho iniziato una psicoterapia”, “mi sono innamorato e sto vivendo un momento difficile”, “quando ero piccolo sono stato abusato”, “ho capito di essere omosessuale”, “Giulia, la mia consorella, non mi piace come si comporta”, “che razza di responsabile ci hanno dato”… e affini, cioè ogni nota personale, intima, per sua natura delicata, deve trovare interlocutori pensati, decisi non sull’onda emotiva o di un astratto concetto di “famiglia”, ma di una riflessione seria e orientata al bene comune. Spontaneità e autenticità sono costrutti ben diversi. Ambienti attenti e curati, nel senso delineato finora, rispettosi della dignità di una vocazione umano-trascendente, che non scadono perdendo di vista quanto esigente e bella sia una chiamata sacerdotale o religiosa, fanno la qualità di un contesto comunitario. L’umanità del singolo così non viene mortificata, anzi, credo sia custodita al meglio dall’impegno personale di ciascuno e da un contesto che riflette su se stesso e sul clima che respira chi arriva e si ferma lì.
Vita in comunità

Finestre o muri

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Siamo alcuni formatori e formatrici che si sono incontrati in una recente giornata di studio, e lavorando nei gruppi è emersa una problematica comune: come mediare tra le esigenze che realisticamente le nostre comunità, i nostri Istituti oggi hanno, e le esigenze e spesso le richieste dei singoli fratelli e sorelle? Il percorso comunitario può essere inadeguato al singolo, ma anche il percorso del singolo può diventare “scomodo” per ciò che invece si attende la comunità. Talvolta, per non dire spesso, si creano tensioni, si tira da una parte e dall’altra la questione, da cui divisioni e parteggiamenti. Capiamo che la cosa detta così è generica, ma ci sarebbe utile qualche pista percorribile per venir fuori o non cadere in queste “trappole” conflittive e divisive. Come fare?


Molto interessante la vostra sollecitazione, sia per le esperienze comunitarie che per quelle familiari. Al solito, non credo che la pista sia univoca e non solo perché non entriamo nello specifico concreto della situazione, come del resto la domanda nota, ma soprattutto perché vivere insieme pone interrogativi complessi, e complesse sono le vie che si aprono, a partire dall’evento singolo. Forse potremmo provare a riflettere sui due aspetti che rimangono entrambi veri, significativi, e inscindibili nelle vocazioni relazionali. Mi piace parlare di vocazioni relazionali perché nessuna scelta di vita è per sé o si esprime solo individualmente. Questo significa che non si può prescindere dal sé, ma neppure dal dato fondamentale che essere coppia vuol dire vivere a-due, essere prete vuol dire vivere per la comunità che gli viene affidata, e per la realtà più grande che è la Chiesa, essere comunità vuol dire che la fraternità è parte integrante della “mia” vocazione. L’intreccio, allora, è assai stratificato. Ma, appunto, non ne usciremmo facilmente se ci mettessimo a definire da quale parte l’ago della bilancia deve orientarsi. La persona o il gruppo. Dovremmo evitare, anzi, i ragionamenti binari perché schiacciano e falsano le prospettive, quando si voglia riflettere con una disponibilità autentica. Chiunque di noi sperimenta il bisogno di essere accolto non in modo anonimo, né come membro “X”, ma di avere un posto speciale nell’interesse del partner, del Vescovo, del superiore, della formatrice, di quel confratello o consorella. Questo dice di bello quanto abbiamo necessità dello sguardo altrui, dell’attenzione raffinata e personale delle persone con cui viviamo. Dice che non siamo dentro un progetto d’azienda e che la motivazione relazionale rimane centrale in famiglia, come in vocazione (ormai ci intendiamo sull’uso di questo termine). Il punto è, come ben individua l’interrogativo iniziale, se è necessario mettere un confine a questo bisogno, oppure esso è sconfinato. Di conseguenza: chi dovrebbe corrispondere al nostro bisogno e fino a dove. Sull’altro versante: quanto si deve rinunciare ai propri desideri se il gruppo lo richiede. Penso sia fondamentale mantenere chiaro che non è pensabile disgiungere il singolo dal contesto comunitario, ed entrambi sono chiamati ad un processo di maturazione, che potremmo anche declinare, in modo meno tecnico, come processo di dono, di espansione del cuore, di generatività. Perciò, se è vero che la persona ha un mandato di crescita e di allargamento delle proprie risorse identitarie e interpersonali, quando sia nel “posto giusto”, è vero anche che il contesto deve fare la sua parte, in quanto è chiamato a sua volta a crescere, che vuol dire diventare flessibile per accogliere i nuovi membri, per essere disponibile di fronte a situazioni difficili di malattia, malessere interiore, ingresso di giovani fratelli e sorelle che portano proposte nuove. Dire che chi entra in un processo vocazionale è solo al servizio di un progetto, mi pare riduttivo rispetto alla grandezza che potrebbe assumere una prospettiva di relazione singolo-comunità-Chiesa. Non c’è lotta di potere, chi comanda e chi ubbidisce. Di fatto, è chiaro che i ruoli sono diversi, ma non è in termini di forza che si può risolvere il dilemma, quando, arriva uno stimolo nuovo in comunità: Marco avanza una richiesta di studio, mentre servirebbe che lui facesse altro; Francesca chiede di essere trasferita mentre la sua presenza sarebbe molto utile qui… Esempi banali, ma indicativi di questioni normali e ordinarie che la vita ci mette davanti. Quindi, cerchiamo di non perdere di vista che ci sono sempre almeno due interlocutori in una vocazione. Mi vengono in mente, a questo proposito, gli studi sulla comunicazione non violenta:
  • che cos’è che ci fa allontanare dalla nostra natura empatica, portandoci a tenere comportamenti violenti e strumentalizzanti?
  • che cos’è invece che permette ad alcune persone di rimanere collegate alla loro natura empatica anche nelle circostanze più difficili?” (da: M.B. Rosenberg, “Le parole sono finestre oppure muri”).
Come rimanere umani in condizioni difficili? Riprendendo un’altra domanda-sintesi dello stesso volume. Il senso è che dietro una richiesta ci sono bisogni, sentimenti, emozioni, ed è necessario, per rimanere umani e sintonizzati gli uni con gli altri, andare oltre la richiesta “secca”, il comportamento esplicito, le generalizzazioni massicce che cercano di incasellare, stigmatizzare, e giudicare. Nuovamente: vale per il singolo e vale per il gruppo. Torno alla questione iniziale: è vero che il rischio di richieste bizzarre o egocentrate è vivo negli ambienti comunitari, ma dal momento che si tratta di contesti adulti e di fede, di altissimo spessore, vale la pena cercare vie che rispettino la complessità delle situazioni. La formazione potrebbe aiutare la persona ad acquisire un senso di appartenenza rispetto alla realtà che sta scegliendo, perché la senta sempre più sua, per averne cura, per essere progettuale e propositiva. In tale direzione si favorisce la presa in carico – piuttosto che la competizione – seria, affettuosa e autentica di Marco rispetto al suo Istituto. Nello stesso tempo l’ambiente comunitario dovrebbe dirsi: “Francesca è parte di me”, non è irrilevante che stia bene o male, che abbia un’esigenza o ne abbia un’altra. Maturare, quindi, è il cammino di uscita da sé, dai propri schemi rigidi e autoreferenziati per cogliere cosa sta accadendo dall’altra parte. Marco e Francesca ascoltano la comunità e quanto ha da dire, la comunità sospende il giudizio per cogliere cosa sta effettivamente chiedendo Marco o Francesca. Si attiva, allora, un processo di reciprocità che non va tanto a caccia di soluzioni – pur talvolta necessarie e ineludibili – ma di quel terreno comune dove si potrebbero trovare delle proposte accettabili per entrambi. Spesso, invece, siamo impantanati in un luogo che ingabbia e non apre a nulla! Come nel caso del braccio di ferro. Uscendo, quindi, dall’imbuto per cui il singolo è capriccioso/la comunità troppo esigente, penso che la grande avventura del vivere insieme – nelle piccole, come nelle grandi cose – sia il rimanere dentro i processi di mutua ricerca dell’altro, delle sue esigenze, e sorpattutto della comune appartenenza ad un’unica realtà umana e spirituale.
Chiesa

Omosessualità e vocazione: una sfida doppia?

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Sono un sacerdote formatore in un Istituto a vita comune e uno dei giovani che seguo mi ha fatto conoscere la vostra rubrica. Ho cercato e trovato anche il tema che oggi vorrei evidenziare, quello dell’orientamento omosessuale. È entrato in comunità un ragazzo trentenne, laureato in Ingegneria, con esperienze lavorative proficue (un ragazzo in gamba), il quale mi ha manifestato fin dai primi incontri la propria omosessualità, e qualche pregressa esperienza affettiva con ragazzi. Questa esplicitazione mi ha spiazzato perché in genere, semmai, una simile apertura avviene molto in là nel tempo e quasi mai in maniera spontanea. Ho letto i numeri della rubrica che hanno riguardato l’argomento, ma quando poi tocca in prima persona il servizio che si porta avanti gli interrogativi si fanno concreti. La nostra realtà comunitaria sta cercando di formarsi meglio sull’argomento, quindi la mia è una richiesta di qualche suggerimento su come procedere. Non ci sono ricette, ma sicuramente sarà importante avere alcune indicazioni di massima per non far del male a nessuno. Grazie, p. Roberto  


Grazie davvero! È vero che abbiamo affrontato l’argomento in diverse occasioni, ma quando si parla della persona, dei suoi processi, del suo mondo emotivo-affettivo, non c’è mai nulla di scontato. Come sempre nello stile di questa rubrica – che lei ha conosciuto da poco – propongo qualche riflessione che ho elaborato attraverso lo studio, il confronto con colleghi, con formatori/formatrici e attraverso l’esperienza di accompagnamento psicologico di chi vive la vocazione presbiterale, monastica, a vita comune. Questo per dire che non si danno “soluzioni”, e che l’opportunità di lasciare aperto il dialogo, senza alcuna pretesa di avere in tasca l’ultima parola, è il clima consueto del nostro spazio on-line. L’alternativa è il pensiero unico e inamovibile che non lascia margini per riconoscere gli apporti della scienza, della storia, del Magistero stesso che cammina cercando di cogliere i segni dei tempi. La prima considerazione molto semplice è l’importanza e quindi l’apprezzamento rispetto all’apertura spontanea di un giovane/di una giovane (per età o per percorso formativo) al proprio formatore. La consegna di sé e della propria intimità sono da considerare un atto di grande coraggio e di fiducia: evidentemente la persona non teme gravi ripercussioni rispetto a quanto dice e crede che le informazioni che fornisce possano entrare a far parte dell’accompagnamento. Quando si riceve un pezzo di vita dell’altro il tempo del giudizio andrebbe sospeso… prima di correre a catalogare nella casella del giusto/sbagliato, dato innocuo/pericolo, sono d’accordo/in disaccordo, l’apertura personale va semplicemente ricevuta e accolta. Molto raramente, infatti, un dato umano, isolato dal suo insieme, può assumere una tonalità specifica e assoluta. L’aver avuto genitori separati, padre o madre assente, depresso/a, violento/a è un elemento di anamnesi importante, ma in se stesso non dice chi è, e come è diventata la persona che racconta del proprio ambiente domestico. Qui un giovane adulto sta confidando qualcosa di importante che coinvolge il proprio modo di vivere se stesso, gli affetti, le relazioni. Non si può approfondire in questa sede cosa voglia dire “sono omosessuale” perché andremmo fuori spazio, ma teniamo conto anche della necessità di decodificare tale informazione essendo spesso confusa, vaga, o comunque non sufficientemente elaborata la comprensione di sé. In ogni caso, come anticipato, attenzione: il dato “omosessualità” non rivela quale sia il modo di essere di quell’individuo. Il primo collegamento che spesso scatta di fronte all’espressione dell’altro omosessuale, infatti, è la confusione sessuale che ne consegue, anzi confusione sull’identità di genere dell’individuo (mezzo uomo e mezza donna), confusione nella sua gestione dell’eros (impulsi sfrenati o quasi), caos nei rapporti interpersonali (conflitti sicuri). Tali presupposti fanno scattare l’allarme in chi segue i processi formativi. Chi ascolta e affianca storie di vita reali sa bene che tutto questo è possibile, ma è possibile a prescindere dalla dimensione dell’orientamento sessuale. C’è, tuttavia, un aspetto significativo e non trascurabile: in un contesto omogeneo di soli uomini o sole donne, soprattutto durante la formazione iniziale, che un membro giovane abbia un orientamento verso persone del medesimo sesso è una variabile da non sottovalutare. Credo che il dubbio del sacerdote si inserisca qui. Piuttosto che aumentare il “controllo” però – Marco, omosessuale e sorvegliato speciale, vediamo come si comporta – è importante affiancarlo per approfondire le motivazioni vocazionali (fondamentale), e perché possa integrare la dimensione omosessuale nel complesso della sua personalità, secondo la vocazione che sta iniziando a vivere. Marco-integrale dovrà imparare a conoscere meglio se stesso e i propri punti di forza e di vulnerabilità, quindi cosa per lui costituisce una risorsa, ma anche cosa non lo aiuta a crescere secondo il progetto esistenziale che sta scegliendo. Per esempio: forse cercherà il confronto e l’amicizia solo o prevalentemente con altri giovani o persone esterne da cui pensa di essere compreso o con cui pensa di avere in comune l’orientamento sessuale. Il formatore potrà sostenere Marco perché incontri e si relazioni oltre il dato omosessualità. Non è facile, sia chiaro, è naturale per chiunque la ricerca dei “simili” (mi si passi questa espressione alquanto infelice), ma è vitale non chiudersi in sottogruppi di appartenenza perché la scelta vocazionale è universale, trasversale alle categorie culturali, politiche, soggettive. Tuttavia ciò non è valido solo in merito all’orientamento, ma a qualunque altro dato personale che funga da filtro e discriminante nei rapporti. Il formatore – preparato a sua volta nel servizio che gli hanno affidato e non improvvisato in ambito formativo (prima responsabilità comunitaria) – ha l’ulteriore responsabilità di trattare da adulto chi entra in seminario o comunità e quindi di confrontarlo gradualmente quando noti qualcosa che non lo convince, senza riversare sulla persona l’intera lista di cose che non vanno, da cui il conseguente congedo finale e irreversibile verso l’uscita. Se veramente si vuol dare alla persona la possibilità di maturare (altro tema affascinante), allora l’accompagnamento dovrà essere chiaro e autentico, fatto di dialogo (formatore/formando), di dubbi condivisi, di criticità rilevate, senza camuffare sotto le vesti dell’accoglienza un disgusto, un rifiuto interno che di fatto condiziona la prosecuzione del giovane in quel contesto. Altrimenti meglio essere onesti fin dall’inizio: qui non possiamo riceverti. Se, invece, si ritiene possibile il cammino vocazionale, per molti altri dati di partenza che fanno supporre la potenzialità di un buon processo formativo, allora lo sguardo deve rivolgersi alla maturazione della persona, secondo lo specifico stato di vita in cui si è inserita. In altre parole: potrà diventare un buon sacerdote o religioso? Quali sono gli impedimenti perché realizzi in modo armonioso la vocazione presbiterale o a vita consacrata? Durante il periodo iniziale i fattori di maturazione riguardano – tanto l’omosessuale quanto l’eterosessuale – il progressivo senso di appartenenza rispetto alla comunità, il senso di fede, la capacità di non fare di un dato il tutto di sé, la disponibilità ad incontrare, interfacciarsi, collaborare con altri fratelli e sorelle senza rigide ripartizioni, la libertà interiore da carriera, denaro, protagonismo... Ci vorrà prudenza nel permettere ad un giovane, una giovane omosessuale, di stare in ambienti omogenei quanto a genere? Certamente. Le sfide sono maggiori per la possibilità di attrazione e legami “di coppia”, ma non si può ridurre tutta qui la vocazione e le sue tensioni. Né si può pensare, in modo intellettualmente onesto, che l’esclusione a priori di un omosessuale sia una strada percorribile, a prescindere da qualunque valutazione seria, globale e costruita con la persona stessa. Non voglio invocare, anche se sarei tentata, le parole del Papa sui processi da attivare o su altre espressioni di apertura da lui pronunciate, perché tutto può essere strattonato da una parte e dall’altra. Piuttosto, concludendo: a) si può riflettere su quale sia “il modello” di prete o consacrato oggi che la realtà formativa ha in mente. È grossolano detto così, ma credo ci capiamo. b) è bene chiarire in cosa consista la maturità della persona che cammina verso l’ordinazione e/o la consacrazione, criticità ed eventuali impedimenti assoluti di quella persona. La vocazione è una cosa seria ed esigente, peccato quando la si riduce a pezzetti sganciati l’uno dall’altro e dimenticando che si tratta di un incontro divino e umano dove la voce di Dio e la felicità umana convergono.  
Vita in comunità

Come favorire la crescita personale

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Sono una responsabile di comunità, giovane per età e per esperienza in questo ruolo. Sono stata preparata, dal punto di vista accademico, per assumere l’incarico che mi è stato assegnato, ma la domanda che mi porto da tempo è cosa favorisca veramente un cammino dei nostri fratelli, delle nostre sorelle. Nella mia esperienza, con altre della mia età, non ha funzionato, come avrebbe dovuto, l’averle mandate fuori a studiare, ma talvolta anche l’averle trattenute in apostolati interni ha avuto effetti da pre-pensionamento e deresponsabilizzanti. Qualcuna ha avuto poco a mio parere, qualcuna fin troppo, ma sembra che nulla dia garanzia assoluta di “riuscita” formativa e vocazionale.


Proprio nei giorni scorsi ho incontrato un gruppo di responsabili e formatrici e questa domanda è emersa da più prospettive. Una questione concreta e attuale, che in altri numeri della nostra rubrica abbiamo già toccato, ma che riprendo volentieri dopo la pausa estiva. Un autore, Irvin Yalom, ha approfondito gli studi sul funzionamento e l’efficacia dei gruppi esperienziali, che vorrebbero favorire l’incontro e la crescita personale dei membri. C’è uno stile di gruppo vincente, c’è un leader migliore di un altro? E quanto incidono questi sul benessere e quindi sul cambiamento individuale dei singoli membri? Nei nostri termini: il clima comunitario quale peso ha sulla maturazione dei consacrati; il/la responsabile della comunità dovrebbe avere delle specifiche caratteristiche? Le ricerche prodotte sull’argomento valutavano, tra le altre, dimensioni quali «l’autostima, i valori esistenziali negli atteggiamenti e nei comportamenti interpersonali, i meccanismi di difesa, la capacità di esprimere le emozioni, i valori, i modelli di amicizia e importanti decisioni di vita» (I. Yalom, Boringhieri 2002, pp. 537-8). Mi avvalgo, perciò, dei risultati emersi, mutuando ciò che può rivelarsi utile per il nostro ambito, quello della vita in comune consacrata, in quanto almeno alcune considerazioni hanno senz’altro una validità trasversale rispetto ai cosiddetti T-group, che erano strutturati, con un numero di partecipanti, una durata, e un facilitatore qualificato. Una prima osservazione molto semplice è che «il gruppo di incontro […] influenzava chiaramente il cambiamento, ma sia in meglio che in peggio» (ib.), e comunque l’entusiasmo del singolo per l’esperienza gruppale non era di lunga durata. Riguardo al leader – entriamo nel vivo del nostro ambito – non risultava rilevante la “scuola” di pensiero e di appartenenza (noi diremmo: dove ha studiato e in quale corso si è formato), quanto il suo modo di intervenire sul gruppo. Il leader, tra i suoi vari compiti, può: a) stimolare emozioni; b) assistere i membri offrendo sostegno, protezione, calore, accettazione; c) spiegare, chiarificare, interpretare (si parla di “attribuzione di significato”); d) avere funzioni più o meno direttive, come fissare regole, norme, individuare obiettivi, dare il ritmo al gruppo. L’utilizzo di queste 4 funzioni è stato considerato secondo una correlazione precisa con gli esiti (il miglioramento individuale): partiamo da stimolazione emozionale e funzione direttiva (a e d). Rispetto a tali funzioni il troppo o il troppo poco produce in entrambi i casi esiti negativi, in modo curvilineo. Poca stimolazione rischia di favorire un gruppo senza energia, con una ridotta vitalità, asfittico, ma d’altra parte troppa stimolazione rende il contesto emozionalmente carico, in eccesso, direi elettrico. Così pure una scarsa direttività genera un consesso umano smarrito, confuso, dove c’è solo soggettività, ma il fissare troppe regole e dare direttive al dettaglio, stimola persone infantili, poco autonome. Aggiungo una nota interessante, che ancora mutuo dalle ricerche: chi dirige “a bacchetta” sul momento affascina e seduce, “guarda come è sicuro di sé”, e le persone si sentono rassicurate da una figura che sembra avere la soluzione per tutto. Alla lunga, però, il guru fa morire l’energia vitale altrui. Pertanto servono entrambe le funzioni (stimolazione e direttività), ma in misura moderata su tutt’e due le polarità. Le altre due funzioni, invece, se associate – e solo se associate – producono sempre esiti positivi. Assistere, cioè offrire empatia, stima incondizionata…e insieme stimolare la persona a rileggere la propria esperienza, per comprenderla, integrarla, e utilizzarla in altre situazioni, aiuta la crescita. Viceversa, la sola dimensione emotiva senza l’integrazione cognitiva non è sufficiente a far maturare la persona. Per fare un esempio: favorire il disvelamento, l’apertura intima di un membro del gruppo (self-disclosure) non produce cambiamento se questa consegna di sé non è accompagnata da un insight, da una comprensione intellettuale. Attenzione, allora, specie negli ambienti femminili, a non moltiplicare i momenti di scambio emotivo, “parliamo dell’esperienza vissuta, cosa hai provato”, se poi lo scambio si esaurisce in uno sfogo, senza alcuna rilettura e integrazione di quella esperienza col resto della vita, il che vuol dire senza che quell’evento abbia acquistato senso oltre l’oggi. Diventa, altrimenti, una confusione. Torniamo alla questione iniziale che pone la giovane responsabile. La maturazione della persona è favorita da molteplici fattori. Non basta che ella sia parte di un “bel gruppo” umano (magari fosse efficace la semplice immersione), in quanto l’entusiasmo non dura e non è detto, comunque, che ci sia un miglioramento personale nel vivere insieme. La funzione del leader, superiore o superiora di comunità, è senza dubbio importante per non attivare gruppi troppo emotivi (chi vuol piangere/gridare, piange/grida dove e comunque voglia), che sanno più di campo-giovani che di vita in comune. Ma neppure gruppi devitalizzati, aridi, che sanno piuttosto di azienda di lavoro, che di famiglia. E ancora: un buon leader di certo non facilita la creazione di gruppi infantili che si perdono se non vengono loro date le indicazioni giuste, momento per momento, se non hanno un planning dettagliato della giornata, se non hanno istruzioni militaresche. Ma neppure, d’altra parte, gruppi anonimi che rappresentano solo un insieme di individualità autogestite, perché manca un coordinamento, un progetto comune, un minimo di struttura che faccia dire che si è “comunità”. Certo, ogni comunità dovrebbe riflettere seriamente su cosa la faccia sentire tale, quali sono le condizioni minime essenziali che tutti/e condividono o dovrebbero condividere, al di sotto delle quali il gruppo diventa un insieme indefinito di persone X. Ma al di sopra delle quali si rischia l’asfissia. Un’altra conclusione molto ad hoc che le ricerche ci forniscono, è che l’attribuzione di significato può essere stimolata dal leader, ma è compito di ciascuno assumere questo impegno. In altre parole: è importante offrire supporto, empatia, conforto, stima, dare modo alle persone di esprimersi, ma anche orientarle, offrire dei feedback. Tuttavia ciò che è vincente è stimolare la riflessione che a questo punto è emotivo-cognitiva, perché ciascuno riesca a far sintesi, ad apprendere, a migliorare in base al vissuto. Qualora la persona, però, non fosse in grado di entrare in questa dinamica di senso, allora il processo di maturazione si arresta, e nessuno può farci nulla. Non c’è comunità, non c’è superiore/a che possa incidere nel miglioramento individuale. Aggiungo: non che sia “colpa” della persona (non ci sono colpe), può darsi che l’ambiente non sia quello adatto alla sua crescita. Di fatto, messi a disposizione i possibili strumenti maturativi – e la comunità non si tiri fuori da questo onere – il singolo ha una parte fondamentale, e se rimane ad uno stadio inadeguato all’età, è meglio che cerchi un contesto esistenziale più adatto al volo della vita.
Vita consacrata

Come convivere con persone “difficili”?

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Nella convivenza emergono situazioni che vanno oltre le difficoltà di carattere o di periodi particolari di crescita, di crisi o di prove. A volte ci troviamo con persone che minano profondamente i rapporti, la fiducia e l’amore che sono alla base della nostra vita e la ragione dello stare insieme. Fuori della comunità nessuno, neanche la famiglia, lo avverte, giacché custodiscono moltissimo l’immagine esterna di sé. Inoltre, nelle nostre comunità gli spostamenti frequenti non contribuiscono all’identificazione e all’accertamento di questi problemi. Purtroppo, tali casi sembrano non avere possibilità di cura perché la persona problematica nega la realtà vista e vissuta da tutte le altre. Anche se si parla chiaramente con lei, con esempi, dando la possibilità di una correzione, o di essere aiutata da un professionista esterno, in genere ella non accetta. Come comportarsi? Un consacrato É vero che ora si sta molto più attenti al profilo delle candidate, ma ci troviamo con alcune situazioni molto difficili e ci tocca affrontarle in modo che ci sia anzitutto la carità verso queste sorelle, ma senza trascurare nemmeno la salute e “l’esaurimento” delle altre. Le decisioni che prendiamo ora determinano in qualche modo il panorama futuro che lasciamo alle sorelle più giovani. Credo che la nostra generazione adulta abbia una grandissima responsabilità in questo senso. Avrebbe qualcosa da dirci al riguardo? Come si possono affrontare situazioni in cui la persona ha difese così alte che non riconosce niente di se stessa? Una consacrata  


Domande molto stimolanti che vengono dal mondo maschile e femminile, e che mettono al centro la problematicità sopraggiunta di un fratello o di una sorella nell’ambito della vita comune. Problematicità spesso neppure minimamente immaginate al di fuori del contesto di vita, perché la persona è “abile” a celare le tensioni che, invece, crea dentro casa o all’interno del contesto in cui trascorre molte ore. Direi che non si possa impostare una riflessione a senso unico, di fronte all’interrogativo del “cosa fare” di fronte a uomini e donne che, quando ormai la loro scelta è già definitiva, creano difficoltà serie nel clima comunitario. Condivido, piuttosto, alcune osservazioni. Prima osservazione: gli anni iniziali purtroppo potrebbero non essere sufficienti a dire come la persona sarà in futuro. Mi spiego: chi accompagna i cammini formativi sa bene quante dinamiche di accondiscendenza, compiacenza, tolleranza indotta si attivino nella persona che sente di essere valutata dal suo formatore/formatrice. Ella è consapevole che il tempo di ingresso e quello immediatamente successivo sono orientati proprio a cercare di comprendere, insieme alla persona stessa, se la strada intrapresa favorirà la sua piena espansione spirituale ed umana. È chiaro, allora, che i primi anni sono solo parzialmente “onesti”, non per cattiva volontà di Marco (nome di fantasia) che chiede di entrare in comunità, o di Francesca (nome di fantasia) che desidera consacrarsi al Signore, i quali volutamente ometterebbero gli aspetti scomodi di sé, quanto perchè è naturale cercare di adattarsi alle situazioni quando c’è un obiettivo importante da raggiungere. Chi di noi, sotto osservazione, non cerca di sfumare i propri limiti? Tuttavia questo non vuol dire che i formatori non debbano prepararsi adeguatamente prima di assumere il compito di accompagnamento, e quindi fare il possibile ai fini della valutazione. Attenzione, quindi, da parte dei responsabili, che chi assume l’onere formativo abbia strumenti idonei all’incarico. Inoltre, quegli anni sono in qualche modo indicativi di alcuni fattori quali, ad esempio, la stabilità dell’umore, la disponibilità a collaborare e a lasciarsi mettere in discussione, di quanto bisogno la persona abbia di primeggiare, dominare, apparire... quindi c’è comunque uno spaccato significativo che lascia presagire come procederà Marco e come procederà Francesca. Propongo, allora, alcune domande che potrebbero orientare un processo di accompagnamento vocazionale:
  • Chi accompagna – possibilmente non da solo/a – lascia che il tempo passi sperando che le cose si sistemino, o ha il coraggio di intervenire dove osservi che qualcosa non funziona?
  • Ma soprattutto: quale “modello” di consacrato/a si ha in mente? Cioè, cosa dovrebbe raggiungere la persona che inizia un processo vocazionale, quali caratteristiche spirituali e umane dovrebbe assumere per essere accolto e stare bene secondo quel carisma?
  • E non meno importante, anzi urgente: quale modello di comunità c’è sullo sfondo? Certo, una comunità di amore, collaborazione... d’accordo, ma concretamente, quali atteggiamenti, quali personalità non starebbero bene in quello specifico contesto carismatico? Sono interrogativi che andrebbero discussi apertamente sia perchè è cambiata la comprensione della “vita comune” rispetto a qualche generazione fa, sia perchè ci devono essere delle coordinate di confronto chiare quando si accompagna una persona, altrimenti la valutazione diventa troppo soggettiva.
Gli interrogativi accennati coinvolgono ulteriormente il rapporto tra i membri, il rapporto con l’autorità, l’equilibrio tra vita interna e apostolato... dipendenza e autonomia individuale. Occorre parlarne e parlarne, negli spazi e nei contesti adeguati, ma il formatore, la formatrice non può improvvisare queste riflessioni o portarle avanti da solo/a. Sarebbe grave. È la comunità, l’Istituto, la Congregazione, il Movimento intero che si fanno carico di accogliere o meno una persona, anche se di fatto i ruoli sono diversificati e sono affidati temporaneamente ad alcuni. Seconda osservazione ben nota a chi segue questa rubrica: le comunità vocazionali non possono assumersi oneri terapeutici “prendiamo quel fratello, poi cercheremo di aiutarlo”. Non è loro compito, anche perchè mancherebbero gli strumenti adeguati al supporto e alla cura. E per molte altre ragioni che non possiamo approfondire ora. Pertanto, quando è verosimile che la persona ha scarsi margini di miglioramento è opportuno aiutarla a prendere consapevolezza che non è il cammino adatto a lei. Terza osservazione. Mettiamo in conto, come si diceva, che un buon accompagnamento e perfino un adeguato cammino psicologico, non costituiscono una garanzia certa che la persona procederà serenamente (magari). Negli anni a seguire il tempo d’inizio, possono subentrare diversi fattori legati alla conoscenza di sé della persona che si scopre diversa da come aveva iniziato. Possono emergere malattie, insoddisfazioni, frustrazioni che cambiano gli equilibri personali e quindi interpersonali. Le variabili sono innumerevoli. Fatto sta che la comunità inizia a risentire di un fratello o una sorella che diventa difficile: pretende, “usa” l’ambiente e l’Istituto secondo il proprio progetto, ma senza passione personale, è disinteressato della vita fraterna. Qui il panorama meriterebbe molti esempi. Nuovamente: che fare? Dirlo apertamente alla persona interessata sembra non sortire effetto, proposte di aiuto interno ed esterno non vengono accolte. Servono strategie di sopravvivenza per tutti, se la persona non collabora e non accetta di assumersi le proprie responsabilità. Condivido ciò che attingo dall’esperienza clinica.
  • Le comunità vanno in qualche modo coinvolte attivamente nell’informazione e nelle proposte concrete: può essere utile cambiare qualcosa dello stile di vita, o sistemare diversamente l’orario, i momenti di incontro...? È vero, ci sono sensibilità e maturità diverse, ma la comunità è fatta di soggetti adulti e come tali vanno allenati a partecipare al clima comunitario e alle sue ferite. Non servono i dettagli di vita del fratello o della sorella, serve però che tutti prendano coscienza che tutti stiamo risentendo di una presenza “scomoda”.
  • Piuttosto che attivarsi nell’emergenza, sarebbe utile che in modo ordinario le comunità maschili e femminili fossero responsabilmente coinvolte nell’andamento interno, dall’economia al clima emotivo di casa. In questo modo quando sopraggiunge una difficoltà l’ambiente è più pronto e meno spaventato dalla criticità che si evidenzia.
  • Cambiare ambiente non risolve, ma allegerisce le tensioni del gruppo se Marco o Francesca non riescono a prendere coscienza che il loro modo d’essere è faticoso per la comunità. Di nuovo: tutta la famiglia carismatica è famiglia per quella persona, non solo la comunità specifica dove si trova in quel momento.
Spiritualità

La vocazione: una caccia al tesoro?

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Sono un “giovane adulto” in cammino all’interno di una comunità religiosa; alcuni di noi scelgono anche il sacerdozio, altri rimangono fratelli laici. Sono già da diversi anni inserito in questo percorso, ed eccomi a mettere in discussione l’orientamento della mia vocazione. Sto valutando, cioè, con chi mi accompagna, la solidità del mio desiderio missionario che significherebbe cambiare espressione carismatica. Come può immaginare, non è facile. Non è facile neppure trovare chi possa prendere in considerazione questi dubbi quando ormai la formazione iniziale sta terminando e quindi si dà per scontato che quella persona porterà a termine la decisione in linea col cammino intrapreso. Scegliere una figura esterna all’ambiente non è ben visto. Sceglierla interna all’ambiente non mi dà sicurezza di essere seguito con cuore libero, per una sorta di “conflitto di interessi”. Sto banalizzando, ma spero di avere qualche indicazione in merito. Grazie per questo originale spazio-amico. Dopo anni di insegnamento, come religiosa, vivo un desiderio fortissimo di dedicarmi alla missione. Mi è stato detto che i poveri sono intorno a me, che non occorre andare lontano…sì certo questo lo so, non sono fresca di vocazione. Quando scelsi la Congregazione dove sono ora, sinceramente non mi sono posta la domanda sul carisma specifico, erano le religiose conosciute ad ispirarmi, e non l’apostolato, solo conseguenza dell’ambiente a me caro. Sono stata molto bene fino ad oggi, non rinnego nulla e rifarei tutto, ma ora non sono più in pace. Sono ben seguita, per cui mi sento fortunata, e immagino con dolore il momento in cui dovrò prendere distanza dalle mie sorelle perché noi non abbiamo esperienze missionarie. In fondo però non è ancora camminare con Dio, come scriveva Etty Hillesum?


Molto delicato e complesso il tema sollecitato dal “giovane adulto” e dalla religiosa. Riflessioni provvidenzialmente molto simili, che sollevano il medesimo interrogativo. La mia prospettiva, lo ricordo, è da psicologa credente per cui mi muovo nello spazio delle scienze umane che mi competono, non entrando, invece, nel merito del “discernimento”. In altre parole, provo a condividere qualche pensiero che riguarda l’individuazione della propria strada di vita, tema a me caro, soprattutto quando questa venga ripensata rispetto alla decisione iniziale. Fascino e insieme consapevolezza di quanta pacatezza e libertà interiore occorrano per accompagnare la valutazione ai primi passi e quella successiva di una scelta di vita. In un interessante e gustoso articolo pubblicato di recente si esprime con chiarezza e garbo la “mitologia” che è proliferata attorno all’argomento del riconoscere la propria vocazione, quasi fosse un oggetto da riuscire a trovare decifrando le indicazioni poste e i rebus, come nella “caccia al tesoro”. Di tappa in tappa, di risoluzione in risoluzione, ecco la vocazione. Oppure, la vocazione rappresentata come una condizione sintomatologica da individuare (ce l’ho/non ce l’ho) con dei test specifici. La vocazione, in quanto processo spirituale e umano-psicologico, ha una matrice relazionale ed è una dimensione in divenire. C’è un’intuizione vaga, più o meno intensa emotivamente, e c’è un percorso fatto di scoperte, comprensioni, nuove comprensioni, soste, pause, scatti di corsa in avanti, battute d’arresto. Tutto questo viene confrontato all’interno di un rapporto, Dio-persona-Chiesa. Talvolta i formatori e le formatrici vivono come un fallimento o, peggio ancora, un cattivo investimento gli anni di studio e accompagnamento offerti, quando poi la persona si orienta altrove. È comprensibile, ma non possiamo sottovalutare la complessità e la scommessa vocazionale, che non è sotto l’assoluto controllo dell’individuo, e neppure quello dei formatori/formatrici e ancor meno dello psicologo. Il processo per comprendere la propria strada è lungo, e i tempi canonici che la Chiesa offre, sebbene orientino a non rendere infiniti gli itinerari formativi, in realtà non possono comprimere, né appiattire le storie individuali. Di fatto, lo dico da una prospettiva esperienziale e clinica, è solo nel corso del tempo, quando la persona si trova concretamente in gioco, che ella può confermare la scelta intuita o decidere di indirizzarla secondo altre dimensioni carismatiche o vocazionali. Non è raro, infatti, che lui o lei entri in “crisi” quando si immerge nel contatto col reale fraterno o di apostolato, allora Marco conosce nuovi aspetti di sé che prima non erano venuti fuori e Francesca scopre risorse di se stessa che non aveva immaginato fino a quel momento. L’età in cui questo accade è variabile. Magari succedesse solo quando i tempi formativi lo consentono! Gli anni, le energie che cambiano, motivazioni che dopo il primo decennio scricchiolano, esperienze positive o fallimenti, portano la persona in un punto di se stessa che non aveva preventivato a tavolino, nonostante tutta la buona volontà e la buona formazione. È del tutto naturale. Ma che fare quando l’incontro con la realtà profonda di sé avviene dopo il tempo della formazione iniziale? Rischiare di non arrivare mai a prendere una decisione stabile? Mettere in conto che anche dopo una scelta definitiva ci possa essere un margine di dubbio? Non credo si debba porre così la questione. Ogni scelta esistenziale, che sia onestamente tale, è desiderata in modo stabile e duraturo, non certo col beneficio del dubbio. Direi, però, che non si può pensare a una linearità di tappe, consequenziali e progressive, nell’accompagnamento personale. La storia della salvezza ci dice che c’è un itinerario, ma che le svolte sono all’ordine del giorno. La storia rimane la stessa, sebbene con mille eventi che la rimodulano. Dunque ci si impegna a dare il massimo di sé nell’oggi e con lo sguardo al domani, in modo fedele e coerente. Tuttavia non si possono scartare con leggerezza le nuove comprensioni che sopraggiungono. Queste devono pur trovare una collocazione nella vita della persona, e tale collocazione può condurla altrove rispetto al luogo di partenza. Voglio precisare: non sto supportando una prospettiva che rende precari i “sì” detti per la vita. Cerco, piuttosto, accogliendo le domande da cui siamo partiti, di allargare lo sguardo oltre risposte binarie. Se accompagnato e non lasciato all’emozione del momento – certo il tema è qui appena accennato – un riorientamento della rotta non credo che debba portare a cercare i colpevoli del cattivo discernimento. Almeno per quanto io riesca a comprendere. In questo processo risulta fondamentale l’incontro con persone libere interiormente, di preghiera, e preparate nell’accompagnamento, dentro o fuori la propria realtà di vita. Sono, però, altrettanto fondamentali:
  • l’apertura personale – ricordo che nella vocazione sono coinvolte persone adulte, fosse anche per l’età cronologica –;
  • il tempo che la persona impiega per vagliare le criticità che vive;
  • gli strumenti di cui si avvale in questo tratto della sua esistenza. Il confronto deve essere autentico e non di facciata, quando magari la decisione è già presa.
Concludo con uno spaccato reale. Un giovane inizia un itinerario in seminario. Dopo qualche anno si rende conto che c’è qualcosa che non lo fa stare bene, ma non riesce a comprendere chiaramente dove sia l’origine del malessere, nebuloso e indefinito. È proprio il suo vescovo ad aiutarlo a riorientare la strada verso un’esperienza monastica. Questo pastore non teme di perdere forza lavoro, cosa che peraltro sarebbe un cruccio condivisibile di questi tempi. Non tronca le perplessità del giovane, prende sul serio quel malessere ancora indecifrabile e gli offre un’alternativa. Non è detto che Fabio (nome di fantasia ndr) procederà nella nuova via, però l’esempio mi sembra renda bene la processualità vocazionale e che nella Chiesa ci sono figure di autorità dallo sguardo ampio e lungimirante, libere dalle smanie di possesso. Star bene nella propria vita e nella propria vocazione è davvero importante. Facilitarlo per noi e per chi affianchiamo è rendere un servizio all’essere umano, alla comunità, e alla Chiesa perché significa volere il bene del fratello e della sorella, e magari ridurre il numero degli scontenti che spesso appesantiscono l’aria delle nostre comunità di fede.
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