L'esperto risponde / Psicologia

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Spiritualità

Omosessualità: timori e interrogativi

Vorrei condividere alcune osservazioni.

Primo. Lo scorso incontro Zoom ha toccato il tema dell’omosessualità, in senso prevalentemente maschile. Si parla raramente di questo in ambito femminile. Eppure ci sono molti problemi al riguardo. Nelle comunità femminili si esprime la “sororità” con manifestazioni affettive (abbracci e baci) che se venissero adottate in ambito maschile farebbero subito parlare di “omosessualità”.

Secondo. L’argomento trattato è complesso e difficile anche a partire dal contesto in cui viviamo. Oggi, in cui la piaga della pedofilia si sta manifestando in tutta la sua ampiezza, si guarda con sospetto la possibilità di accogliere vocazioni con orientamento omosessuale. […]. La paura che si ripetano casi del genere frena, blocca, impedisce la serenità nel discernimento vocazionale.

Terzo. Ricordo che un importante monaco, una volta, ebbe a raccontare come in un monastero maschile, l’ingresso di persone con orientamento omosessuale ha portato ad una trasformazione del monastero. Secondo il detto “simile attira simile”, questo monastero si era andato componendo quasi unicamente di religiosi con orientamento omosessuale.

Un sacerdote religioso

Fonte; Pexels

Grazie per queste interessanti osservazioni, e grazie anche della sua partecipazione alla formazione agile, di cui ha dato un gradito riscontro. Abbiamo dovuto abbreviare il suo testo, ma solo per ragioni di spazio, magari altre considerazioni che pure ci sono giunte, o eventuali approfondimenti potrebbero confluire in ulteriori numeri di questa rubrica.

Ha ragione che si tende a declinare l’omosessualità prevalentemente sul versante maschile, ma l’argomento riguarda anche il mondo femminile, di certo. C’è da dire che la modalità espressiva maschile/femminile ha delle sfumature diverse: tra adolescenti, ad esempio, è possibile vedere due amiche tenersi per mano o scambiarsi affetto, mentre è meno “tipico” tra due ragazzi.

Detto questo: nelle comunità religiose, come nei seminari, la relazione interpersonale è tra persone adulte, come ripeto spesso, tipo mantra, per cui tra adulti, uomini e donne, la gestualità e la modalità espressiva non dovrebbero essere quelle adolescenziali. Darsi un abbraccio, mostrare affetto e tenerezza, sono canali belli quando utilizzati in modo appropriato e senza secondi fini, mentre possono diventare inopportuni quando, invece, creano dinamiche “di coppia” o di alterazione del rapporto, allora lo snaturano, lo rendono manipolatorio, ambiguo.

Talvolta, in effetti, mentre le comunità maschili soffrono un eccesso di indipendenza, al limite di una semplice convivenza tra colleghi, quelle femminili, all’opposto, soffrono di forme di dipendenza e di infantilismo, nel linguaggio, come nella gestualità e nel modo di vivere i rapporti. Questo, però, è trasversale all’omosessualità. In altre parole: non c’entra con l’omosessualità, ma con l’immaturità dei membri e dell’ambiente che favorisce fredda distanza o, all’opposto, vicinanze morbose, invischiate. Perciò, quando accadono situazioni di dipendenza e legami impropri al contesto, per esempio tra formatore/formatrice e formandi, il problema è piuttosto di affettività. Potrebbe essere coinvolto l’orientamento omosessuale, certo, ma non è quello il centro della questione, quanto la consistenza della vocazione e il livello di equilibrio dell’individuo.

Persone omosessuali lavorano o dovrebbero lavorare su se stesse, sul proprio mondo affettivo, relazionale e sessuale, come quelle eterosessuali, ancor più quando assumono un incarico di formazione o di governo.

Non c’è un galateo di comportamento, ma senza dubbio dovrebbe esserci un’attenzione e una cura specifiche per la convivenza vocazionale, essendo un gruppo “speciale”, di alto livello, quanto a Ideale di vita.

Altra questione è il riserbo e il pudore che ancora caratterizzano gli ambienti vocazionali femminili, per cui è vero che si parla pochissimo dell’argomento, e questo è un peccato perché il silenzio alimenta ignoranza e paure e non permette adeguati processi di accompagnamento.

Pertanto (e vengo al terzo punto del nostro lettore), se le vocazioni sono serie, ben fondate, ben accompagnate, e con motivazioni che si rinnovano nel tempo, e se – dunque occorrono diverse condizioni! – chi viene scelto per accompagnare e governare ha un buon equilibrio personale e una conoscenza di sé adeguata, non vedrei la ragione per cui si dovrebbero creare circoli di simili.

La presenza di gruppi, sottogruppi, etnie di “preferenza”, favoritismi, slogan, è indicativa di una non-comprensione vocazionale. Mi permetto anche di rilevare che – come dicevamo nell’ultimo Zoom – l’orientamento sessuale è una delle dimensioni della persona, che non la qualifica in toto e non la esaurisce. Dunque non può essere questo un aspetto che accomuna e dà l’impronta…del resto due persone con orientamento omosessuale, come due persone con orientamento eterosessuale, possono essere diversissime tra loro.

L’omosessualità, quindi, non crea “somiglianze” a meno che, mi spiace ripetermi, parliamo di adolescenti (per età o per maturità psicoaffettiva), che quindi si devono riconoscere nel branco, e allora adottano look, linguaggi e comportamenti quasi identici in modo da sentirsi, appunto, “gruppo di simili”, noi/loro. Chiunque utilizzi una dimensione di sé – qualunque dimensione di sé, dall’orientamento sessuale, alla qualifica professionale, alla sensibilità, alla provenienza geografica – per qualificarsi e associare altri rivelerebbe una grande immaturità personale.

Infine, punto importantissimo (il secondo), è scientificamente scorretto e lo è anche da un punto di vista esperienziale e statistico associare pedofilia (un disturbo previsto dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, DSM-5, tra quelli parafilici) e omosessualità (che non è un disturbo). Abusi e pedofilia, ipersemplificando al massimo, riguardano persone con gravi problematiche affettive e non toccano l’orientamento sessuale.

Attenzione, quindi, a non accontentarsi del “sentito dire” su argomenti così delicati, in cui si finisce per legare in modo del tutto indebito le due condizioni. La non conoscenza fa molto male alle persone coinvolte, fa un cattivo servizio alla Chiesa e crea generalizzazioni pericolose.

Piuttosto, la formazione andrebbe ripensata mettendo a tema quelli che fino ad oggi erano argomenti tabù negli ambienti vocazionali: affettività, corporeità, sessualità, dimensioni bellissime dell’essere umano. Dimensioni che, però, vanno conosciute per poter essere formate e accompagnate. Lo dico sia per il singolo, che per le comunità: quale affettività vive il gruppo, come la esprime… La paura dovrebbe, allora, insorgere per quegli ambienti che non si mettono mai in discussione, o che non approfondiscono le richieste vocazionali con gli strumenti che oggi sono a disposizione, per verificare se la strada ministeriale o a vita comune sia il bene della persona, se ella abbia la struttura umana per sostenere tale percorso di vita.

Sono convinta che quando si rimettono al centro i valori e la vocazione e si riflette seriamente sulla maturità personale e dell’ambiente, l’orientamento sessuale della persona finisce sullo sfondo, importante, ma non centrale. Ribaltare i termini, penso, rischia di alterare la possibilità di una riflessione seria e fondata su questo argomento, come i percorsi vocazionali meriterebbero.

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Vita in comune

Vita in comune e celibato sono compatibili?

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Dopo gli scandali degli ultimi anni forse sarebbe meglio ripensare, e forse abolire, le comunità di persone “costrette” al celibato. O almeno stabilire dei requisiti psicologici minimi indispensabili. Un laico preoccupato   preti


Direi in modo sintetico: non si può fare un identikit di chi è “adatto”, però ci vuole senz’altro una maturità di base. Un pensiero diffuso è che sia la condizione di celibato a far fallire molte vocazioni, o addirittura a deviarle. Non è così. I due report voluti dalla Conferenza Episcopale Americana, in seguito allo scandalo degli abusi esploso negli Stati Uniti nel 2002, rilevano che in realtà l’antica pratica del celibato, risalente nella Chiesa Cattolica all’XI secolo, non ha nulla a che vedere con la corruzione sessuale che l’ha gravemente ferita, anche perché il picco degli abusi negli anni ’60-’70 e la decrescita a partire dalla fine degli anni ‘80 mostrano come essi siano indipendenti rispetto alla continuità della pratica celibataria. Tuttavia bisogna essere onesti e senza illusioni: vivere insieme non è facile, non basta la buona intenzione di vivere con altri perché questo funzioni e produca benefici. Quando manca una struttura psicologica minima o essa è molto fragile, lo stare insieme moltiplica i problemi, come una grande cassa di risonanza dove l’eco amplifica ogni suono… A riprova di quanto sto dicendo voglio condividere una delle ricerche riguardo all’efficacia dei gruppi di incontro (cf. Yalom, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo) sui cambiamenti personali: lo stare in gruppo è migliorativo sul comportamento e la personalità del singolo? 210 partecipanti a 16 gruppi esperienziali trimestrali, con leader provenienti da 10 Scuole diverse, furono confrontati a 69 soggetti non partecipanti ad alcun gruppo a cui vennero dati questionari da riempire. I risultati furono che, appena dopo il termine dell’esperienza, i primi espressero una valutazione molto positiva dei gruppi di incontro quanto a “piacevolezza”, “costruttività” e “istruttività”; già nel follow up dei 6 mesi seguenti l’entusiasmo era diminuito, ma comunque un terzo di essi (circa il 39%) continuava a percepire un cambiamento positivo moderato o addirittura considerevole, l’8% dei partecipanti invece aveva subito un disagio che si era addirittura protratto per i 6 mesi seguenti la conclusione del gruppo; infine i soggetti di controllo, valutati nelle stesse dimensioni degli altri, mostravano un cambiamento minore sia in positivo che in negativo. Dipendeva forse dalla bravura del leader? Sembrerebbe di no: sebbene il ruolo del leader ed il suo equilibrio – e non la sua scuola di provenienza – influenzino notevolmente l’andamento del gruppo (un leader troppo direttivo genera un gruppo che non riesce a sviluppare autonomia, aritmico, uno troppo liberale genera gruppi confusi), egli non aveva una efficacia diretta sull’individuo. Qual era dunque la nota distintiva rispetto al cambiamento personale e alla sua durata? Ecco il fulcro della risposta: chi aveva la capacità di attribuire significati, di integrare e trasferire in altre situazioni di vita l’esperienza vissuta. Con altro linguaggio: chi aveva capacità di “insight”. Utilizzando questa ricerca per il contesto della vita in comune potremmo dire quindi che affinché la vita insieme possa funzionare è importante il ruolo di chi funge da coach, se è previsto che ci sia, ma è soprattutto una adeguata base di maturità a fare la differenza sostanziale. Se questa manca, anche la migliore esperienza comunitaria avrà un forte impatto sul momento che però di lì a poco scolora…
Vita in comune

Vita in comune, social, famiglia: quali scenari in futuro?

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Mi rincuorano certi dati che rilevano più che una crisi, un cambiamento (meno religiosi ma più diaconi per esempio). Mi preoccupa la crisi dei religiosi in Europa, quindi in Italia. Quante scuole cattoliche stanno chiudendo l'una dopo l'altra per mancanza di vocazioni che portino avanti carismi meravigliosi? Alessandro Pernini

 

I social network non aiutano la comunità, ma incentivano l'individualismo e la propria autocelebrazione, però penso anche che possano essere usati in modo formativo ed edificante, come può essere il tuo articolo "twittato". Ho 28 anni, non sono sposata e non ho figli, ma sto vivendo il mio discernimento vocazionale, ho molti amici coetanei alcuni sposati, alcuni con figli, altri soli e dediti totalmente al lavoro o allo studio, e guardandoli con gli occhi dell'amicizia vedo tanto spaesamento, molta confusione, in pochi sanno ciò che conta veramente nella loro vita, pochi hanno una meta. Penso che oggi ci sia bisogno di puntare sulle famiglie, di sostenerle su tutti i fronti, di considerare tutti i figli come propri e di non lasciarle sole. Credo questa sia la strada per tornare ad apprezzare la vita comune, le comunità e farle essere un focolare di amore per tutti. Rosa   social  


Che siamo tutti protagonisti e non solo spettatori di un vero e proprio cambiamento antropologico è fuori di dubbio: sta mutando ad una velocità impressionante il nostro modo di costruire l’identità, di vivere la corporeità, e di stare in relazione. Pensiamo al maschile e al femminile, la diade più antica dell’umanità: dimensioni che fino a poco tempo fa nessuno avrebbe messo seriamente in discussione, oggi vengono frantumate in una varietà di sfumature e sul profilo Facebook – per ora solo su quello USA – si dispone di parole stravaganti, ben 58, per poter identificare il proprio genere di appartenenza (ma forse mentre scrivo sono già aumentate le opzioni). E se ci spostiamo sui rapporti interpersonali, chi di noi può dire che una conversazione in chat non sia spesso più appetibile di una dal vivo…? Alla domanda se tutto questo sia opera dei social network la risposta è no, peraltro i social ormai fanno parte della nostra vita, anzi si può dire che siano il pianeta del terzo millennio e non ha senso ragionare in termini di demonizzazione. Però siamo onesti: non esiste la “neutralità”, per cui l’uso dei social ha necessariamente un’incidenza nella nostra giornata, nella nostra mente. Ad esempio, più di una Responsabile di comunità mi raccontava sconfortata che al momento della ricreazione, quando cioè ci si dovrebbe incontrare volentieri per stare insieme senza impegni di lavoro, tutte scappano nella loro camera, per navigare, usare skype... Allora diciamo che:
  1. i social non hanno creato, piuttosto hanno colto uno scontento relazionale già in atto e hanno offerto delle risposte che in nessun caso vanno subite per il solo fatto che ormai così va il mondo;
  2. se c’è una domanda, vuol dire che dietro c’è un bisogno. Se si cercano nuove forme relazionali significa che quelle precedenti non funzionavano bene.
Come ne usciamo? Potremmo osare alcune considerazioni come risposte possibili:
  • aver voglia di un’identità chiara, solida e ben costruita non vuol dire tornare ad essere rigidi e fuori tempo. Il ritmo ordinato della vita consacrata o le norme che una famiglia si dà, non sono da disdegnare, anzi sono una bella sfida in questa direzione;
  • i nostri spazi familiari, proprio quelli che a volte dovrebbero essere profezia di comunione, sono segnati da rabbia e risentimenti. È più facile tagliare che ricucire: processi, come quello del perdono, sono anti-economici ma hanno una potenza straordinaria individuale e relazionale, vale la pena scoprirlo o riscoprirlo;
  • se il momento ricreativo di una realtà comunitaria non va a nessuno, forse non sono più attuali le forme proposte per stare insieme, perché magari erano state pensate in un contesto storico ben differente. Oppure: se i pasti diventano un fuggi-fuggi di genitori e figli (nessuno escluso) forse è perché a tavola non si riesce a condividere qualcosa di sé, e andando a monte, non si ha niente da dire perché in fondo non ci si sente veramente famiglia. La vita in comune reclama una umanizzazione che significa: ascolto, dialogo autentico, presenza, tenerezza…
Concludendo: le forme di vita insieme non possono auto-giustificarsi, come mi pare accadesse un tempo, quando si davano per assodate e giuste per il solo fatto di esserci; è urgente recuperare attrattiva perché, come osserva Francesco, la gente arrivi a dire: “vogliamo venire con voi!”.
Vita in comune

Le comunità religiose hanno ancora un futuro?

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Vocazioni in calo, problemi affettivi e un senso di "fatica". Nella nostra società individualistica le forme di vita comunitaria sembrano quasi anacronistiche. O no?   suore


Ricordo un giorno speciale di fine liceo: in uno di quei campi scuola organizzati per far conoscere a ragazzi e ragazze le diverse strade vocazionali, ci portarono in un monastero di clausura. Fu un’occasione folgorante per noi adolescenti qualunque: nonostante l’abito, le grate e l’ingresso buio mettessero un che di soggezione, l’incontro con delle giovani così particolari rese quel pomeriggio indimenticabile. I numerosi volti, allegri e accoglienti, tutti under trenta, provenienti da varie regioni d’Italia, facevano un forte contrasto con l’ambiente austero nel quale ci accoglievano. I miei 17-18 anni non mi permisero di fare le domande giuste per arrivare alle radici della loro scelta di vita, radicale e apparentemente sganciata dalla realtà circostante; quasi certamente ci attenemmo ad un copione banale di curiosità del tipo: «Ma tu puoi fare questo…, puoi fare quello…?». Sta di fatto che da allora mi hanno incuriosito e affascinato, per svariate ragioni, non solo quelle stra-ordinarie realtà divine-umane racchiuse spesso in case monumentali, con prati ben curati dal verde invidiabile, ritmate da campane e preghiere raffinate, ma tutte le forme di vita in comune, fatte di un'umanità eterogenea che condivide la quotidianità, con le innumerevoli fatiche che qualunque convivenza comporta, e sotto la spinta di un medesimo progetto di fede, il “carisma”. I numeri da allora sono scesi: 15/20 giovani che si trovano insieme in un percorso del genere sarebbero eccezionali oggi, almeno in Italia. Dando un’occhiata alle statistiche ufficiali dell’Annuario Pontificio 2016 che riferisce vari report numerici riguardanti la Chiesa cattolica nel mondo, ho trovato dati molto interessanti, che rappresentano uno spaccato significativo del nostro tempo. Uno sguardo generale: nel corso degli ultimi nove anni il numero dei cattolici battezzati nel mondo è cresciuto ad un ritmo superiore (14,1%) a quello della popolazione mondiale nello stesso periodo (10,8%). La presenza cattolica sale, pertanto, al 17,8% nel 2014, dal 17,3% del 2005. In termini assoluti si contano circa 1.272 milioni di cattolici nel 2014 a fronte dei 1.115 milioni del 2005. L’Europa è l’area meno dinamica in assoluto, al contrario dei due continenti emergenti di Asia e Africa. E fin qui forse niente di nuovo. Se proviamo a leggere nello specifico l’andamento delle vocazioni “particolari”, cioè quelle di impegno radicale, attivo ed esplicito nella Chiesa, inizia a delinearsi almeno il contorno di questo millennio, anche da un punto di vista geografico. Sono in aumento, a livello mondiale, (ma non in America del Nord ed in Europa dove invece sono in ribasso) i numeri del clero, cioè dei sacerdoti diocesani e religiosi, da 406.411 nel 2005 sono passati a 415.792 nel 2014, poi il numero grosso modo si stabilizza. Per essere più precisi però, i sacerdoti diocesani presentano un andamento nel complesso crescente rispetto ai sacerdoti del clero religioso che invece, a livello globale, sono piuttosto in calo. Un altro dato importante: meno sacerdoti abbandonano la loro strada; bene, si direbbe che l’attenzione formativa post-conciliare, nel discernimento e nell’accompagnamento, inizi a produrre i suoi frutti. Sono però in aumento i decessi per età avanzata, soprattutto in Europa dove l’indice di natalità è basso mentre quello di invecchiamento è elevato. Ancora un dato molto significativo: diminuiscono religiosi e suore nei tre continenti di America, Europa ed Oceania; in Africa ed in Asia, invece, l’incremento è decisamente sostenuto, intorno al 20% il primo e all’11% il secondo. In altre parole e a grandi linee, la vocazione sacerdotale diocesana ha ancora generalmente presa; sembra invece averne meno, almeno in America del Nord ed Europa, quella alla vita religiosa. Osserviamo allora che l’Europa chiaramente cessa di essere un modello di riferimento quanto a contributo demografico e vocazionale in senso stretto. Tuttavia proprio qui, e nelle regioni dove stanno venendo meno scelte di consacrazione, sta crescendo a ritmo sostenuto il numero dei diaconi permanenti, cioè di uomini sposati che coadiuvano i sacerdoti nell’azione pastorale sul territorio, e ciò «non è certamente riconducibile a motivazioni temporanee e contingenti, ma sembra esprimere nuove e differenti scelte nell’esplicazione dell’attività di diffusione della fede»; in Asia ed Africa questa vocazione invece è ancora poco conosciuta e forse meno “necessaria”. Qualche altra considerazione immediata: appare evidente che alcuni stili di vita hanno ancora appeal sull’uomo contemporaneo, altri invece ne hanno molto meno. Non sarà un caso se le vocazioni più “collettive”, cioè che richiedono il vivere insieme, non sono così numerose nei paesi del benessere materiale dove invece – scorriamo semplicemente i numeri – quelle di carattere più individuale attirano maggiormente. Mi pare inoltre, al di là delle statistiche ufficiali, che alcune forme di consacrazione laica che non richiedono necessariamente la vita comunitaria e forme più “moderne”, per quanto pur sempre di vita consacrata, di convivenza si stiano invece diversificando. Alla base di tutto, oltre alla vocazione personale che è la prima chiave di lettura, c’è probabilmente una fatica generalizzata a vivere insieme, complici i social che hanno potenziato modalità rapide e light di connessione più che di relazione, una moderna e magari giustificata intolleranza verso le strutture eccessivamente rigide, ma anche il bisogno lecito di rinnovare la vita comune che forse deve ritrovare forme più attuali e convincenti, rispetto a quelle del passato, che poi così perfette non erano. Per concludere: la condivisione di vita (religiosa e non) è una scelta controcorrente, ma ha ancora un futuro, secondo me, anzi proprio oggi rappresenta una scelta profetica.  
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