L'esperto risponde / Chiesa

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Vita in comunità

Solo sani e performanti

La pandemia ha reso più manifeste alcune fragilità in diversi di noi, fragilità che forse già esistevano ma che ora si rendono più evidenti. Come fare per imparare ad integrare nella nostra vita personale e nella vita comunitaria le debolezze proprie e altrui? Alle volte mi sembra che come comunità ci vediamo più nel dover essere, che nel guardare la realtà della persona, tenendo conto del suo percorso e dei processi che vive in un contesto in continuo cambiamento. Ci può dire come fare a contenere situazioni di malattia psichiatrica in una comunità? E badare anche alla salute delle persone che convivono con lei? Una consacrata, responsabile di comunità

Immagino che le sue considerazioni troveranno accoglienza ed eco in moltissime situazioni comunitarie e in moltissime situazioni di vita, anche familiari. Perciò grazie.

La domanda provocatoria che si potrebbe porre è se il vivere insieme, secondo le coordinate di un carisma, favorisca l’insorgere di disagi relazionali, affettivi, psichici. Ovviamente detta così, la risposta è “no”, non c’è un rapporto causa-effetto, ci mancherebbe. Tuttavia credo che l’argomento che lei introduce meriti delle riflessioni approfondite e meno spicciole di connessioni semplicistiche.

Vivere insieme tra sconosciuti non è roba facile, ce lo siamo detti tante volte. Dobbiamo partire, però, da remoto. A differenza di un passato non troppo lontano, oggi c’è una grande sensibilità nell’accompagnare chi chiede di entrare in comunità, maschile o femminile. I formatori vengono sempre più preparati al loro compito, i giovani sono sostenuti attraverso colloqui all’interno, studi, talvolta percorsi specialistici in collaborazione con professionisti di fiducia. In poche parole: è meno frequente che il percorso vocazionale vada avanti in automatico, e questo è davvero significativo. Rettori e formatori/formatrici sempre più spesso sanno cogliere segni di disagio nell’uomo o nella donna che è in formazione, ad esempio cambi frequenti di umore, scarsa collaborazione, elevata conflittualità o senso critico eccessivo, relazioni non aperte. Vedono che qualcosa non va e chiedono un confronto con la propria equipe, oppure con chi collabora con la comunità. Benissimo.

Tuttavia nel corso degli anni le sfide del vivere insieme e dell’apostolato possono incidere sull’equilibrio personale. Anche chi “sembrava” solido e con tante risorse può trovarsi per diverse circostanze di vita a consumare più energie di quante ne avesse a disposizione. Talvolta ha poco senso accusare uno scarso discernimento. Pensiamo, ad esempio, ad una missione che affronta Marco in cui riceve delle delusioni, ad un ambiente comunitario in cui Francesca viene inserita ma nel quale non riesce ad integrarsi, ad un incarico che Andrea assume, ma che non è adatto alle sue potenzialità. Le ragioni di un malessere non preventivato sono le più diverse, come lo sono le combinazioni degli eventi in un dato momento di vita. Può subentrare anche un lutto, una malattia fisica o psicologica che cambia profondamente l’assetto mentale di Carlo o di Marta. Ognuno di noi sfugge a delle previsioni perfette e lineari di come andrà la propria storia. E meno male.

Però non possiamo terminare qui.

Credo che nelle situazioni prospettate dalle considerazioni iniziali l’integrazione psico-spirituale, di cui tanto si parla, sia davvero necessaria e le domande ne fanno cenno.

La delineo molto sinteticamente per punti:

  • Che la vita sia imprevedibile non vuol dire non impegnarsi il più possibile per rendere autentica la valutazione iniziale, accompagnando la persona nel suo processo di fede e risposta spirituale. E accompagnandola nel comprendere – con lei – se la strada intrapresa è quella in cui il meglio di sé verrà fuori, il cuore si espanderà al massimo e la generatività potrà attivarsi.
  • Gli anni formativi dovrebbero seguire e valutare l’apertura progressiva della persona, quanto a consapevolezza di sé, al dialogo col formatore, al servizio fraterno.
  • Anche la comunità ha una parte fondamentale: – e questo aspetto mi sta molto a cuore – come si ristruttura all’arrivo di una persona nuova, o quando si accorge di un cambiamento di un suo membro (malattia, anzianità, difficoltà…)? È in grado di ripensare se stessa per favorire al meglio quel fratello o sorella? La plasticità dell’ambiente comunitario – che non vuol dire liquidità o mettere in discussione i valori portanti, e neppure rincorrere le fantasie di ciascuno – è fondamentale. Il cammino iniziale e successivo è di entrambe le parti, la persona e il gruppo di appartenenza, e rimarrà sempre un cammino con almeno questi due interlocutori (con Dio). Si aprono, allora, scenari sempre nuovi. Se un fratello o sorella manifesta, ad esempio, un disagio psichico – e la pandemia ha amplificato effettivamente molte vulnerabilità individuali e di gruppo – la comunità circostante dovrà fermarsi a capire come far sì che lui o lei non diventi uno scarto, in quanto scomodo e disturbante. Nello stesso tempo dovrà attivare dei nuovi canali di autocomprensione e di un nuovo equilibrio da trovare per il bene di tutti. Purtroppo la situazione si complica quando la persona non riesce a prendere adeguato contatto con se stessa, e questo in genere ha radici non certo negli ultimi anni. Si invecchia come si cresce. E perfino si affronta una malattia secondo alcune coordinate in linea con la personalità: più o meno collaborativa e autoriflessiva tanto per indicarne una.
  • La comunità è una realtà innanzitutto di fede, ma anche umana. Come Lei dice molto bene: al centro non c’è la produzione di servizi, ma un’esperienza di incontro con Dio e con l’altro, attraverso la preghiera, la vita comune, l’apostolato, il lavoro.

Pertanto – e concludo – nella coppia e nel vivere comunitario il partner, il fratello, la sorella, non ci lascia mai “tranquilli”. Viviamo ogni giorno la sfida dell’accogliere e del riadattarci all’altro non sempre sano e performante, che come noi cambia nel tempo.

Non è questo lo spazio per prospettare eventuali soluzioni concrete, ma qualche minimo suggerimento è la semplicità di parlare in casa del disagio che sopraggiunge più o meno inaspettato nel fratello o nella sorella. Può essere utile cambiare qualche abitudine comunitaria per contenere meglio il malessere, o forse un altro tipo di ambiente, magari meno grande e meno sfidante; magari può essere utile affidare un piccolo servizio a quel fratello/sorella.

Fondamentali sono la creatività di poter inventare spazi e modalità nuovi per vivere insieme al meglio, e chiedere aiuto, anche all’esterno, quando da soli, in coppia o in comunità, non ce la facciamo.

Solo insieme si possono affrontare stati di vita problematici, che comprendo anche per esperienza professionale, sono una grande palestra di pazienza, sofferenza e di crescita personale e interrelazionale.

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Vita in comune

Vita in comune e celibato sono compatibili?

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Dopo gli scandali degli ultimi anni forse sarebbe meglio ripensare, e forse abolire, le comunità di persone “costrette” al celibato. O almeno stabilire dei requisiti psicologici minimi indispensabili. Un laico preoccupato   preti


Direi in modo sintetico: non si può fare un identikit di chi è “adatto”, però ci vuole senz’altro una maturità di base. Un pensiero diffuso è che sia la condizione di celibato a far fallire molte vocazioni, o addirittura a deviarle. Non è così. I due report voluti dalla Conferenza Episcopale Americana, in seguito allo scandalo degli abusi esploso negli Stati Uniti nel 2002, rilevano che in realtà l’antica pratica del celibato, risalente nella Chiesa Cattolica all’XI secolo, non ha nulla a che vedere con la corruzione sessuale che l’ha gravemente ferita, anche perché il picco degli abusi negli anni ’60-’70 e la decrescita a partire dalla fine degli anni ‘80 mostrano come essi siano indipendenti rispetto alla continuità della pratica celibataria. Tuttavia bisogna essere onesti e senza illusioni: vivere insieme non è facile, non basta la buona intenzione di vivere con altri perché questo funzioni e produca benefici. Quando manca una struttura psicologica minima o essa è molto fragile, lo stare insieme moltiplica i problemi, come una grande cassa di risonanza dove l’eco amplifica ogni suono… A riprova di quanto sto dicendo voglio condividere una delle ricerche riguardo all’efficacia dei gruppi di incontro (cf. Yalom, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo) sui cambiamenti personali: lo stare in gruppo è migliorativo sul comportamento e la personalità del singolo? 210 partecipanti a 16 gruppi esperienziali trimestrali, con leader provenienti da 10 Scuole diverse, furono confrontati a 69 soggetti non partecipanti ad alcun gruppo a cui vennero dati questionari da riempire. I risultati furono che, appena dopo il termine dell’esperienza, i primi espressero una valutazione molto positiva dei gruppi di incontro quanto a “piacevolezza”, “costruttività” e “istruttività”; già nel follow up dei 6 mesi seguenti l’entusiasmo era diminuito, ma comunque un terzo di essi (circa il 39%) continuava a percepire un cambiamento positivo moderato o addirittura considerevole, l’8% dei partecipanti invece aveva subito un disagio che si era addirittura protratto per i 6 mesi seguenti la conclusione del gruppo; infine i soggetti di controllo, valutati nelle stesse dimensioni degli altri, mostravano un cambiamento minore sia in positivo che in negativo. Dipendeva forse dalla bravura del leader? Sembrerebbe di no: sebbene il ruolo del leader ed il suo equilibrio – e non la sua scuola di provenienza – influenzino notevolmente l’andamento del gruppo (un leader troppo direttivo genera un gruppo che non riesce a sviluppare autonomia, aritmico, uno troppo liberale genera gruppi confusi), egli non aveva una efficacia diretta sull’individuo. Qual era dunque la nota distintiva rispetto al cambiamento personale e alla sua durata? Ecco il fulcro della risposta: chi aveva la capacità di attribuire significati, di integrare e trasferire in altre situazioni di vita l’esperienza vissuta. Con altro linguaggio: chi aveva capacità di “insight”. Utilizzando questa ricerca per il contesto della vita in comune potremmo dire quindi che affinché la vita insieme possa funzionare è importante il ruolo di chi funge da coach, se è previsto che ci sia, ma è soprattutto una adeguata base di maturità a fare la differenza sostanziale. Se questa manca, anche la migliore esperienza comunitaria avrà un forte impatto sul momento che però di lì a poco scolora…
Vita in comune

Vita in comune, social, famiglia: quali scenari in futuro?

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Mi rincuorano certi dati che rilevano più che una crisi, un cambiamento (meno religiosi ma più diaconi per esempio). Mi preoccupa la crisi dei religiosi in Europa, quindi in Italia. Quante scuole cattoliche stanno chiudendo l'una dopo l'altra per mancanza di vocazioni che portino avanti carismi meravigliosi? Alessandro Pernini

 

I social network non aiutano la comunità, ma incentivano l'individualismo e la propria autocelebrazione, però penso anche che possano essere usati in modo formativo ed edificante, come può essere il tuo articolo "twittato". Ho 28 anni, non sono sposata e non ho figli, ma sto vivendo il mio discernimento vocazionale, ho molti amici coetanei alcuni sposati, alcuni con figli, altri soli e dediti totalmente al lavoro o allo studio, e guardandoli con gli occhi dell'amicizia vedo tanto spaesamento, molta confusione, in pochi sanno ciò che conta veramente nella loro vita, pochi hanno una meta. Penso che oggi ci sia bisogno di puntare sulle famiglie, di sostenerle su tutti i fronti, di considerare tutti i figli come propri e di non lasciarle sole. Credo questa sia la strada per tornare ad apprezzare la vita comune, le comunità e farle essere un focolare di amore per tutti. Rosa   social  


Che siamo tutti protagonisti e non solo spettatori di un vero e proprio cambiamento antropologico è fuori di dubbio: sta mutando ad una velocità impressionante il nostro modo di costruire l’identità, di vivere la corporeità, e di stare in relazione. Pensiamo al maschile e al femminile, la diade più antica dell’umanità: dimensioni che fino a poco tempo fa nessuno avrebbe messo seriamente in discussione, oggi vengono frantumate in una varietà di sfumature e sul profilo Facebook – per ora solo su quello USA – si dispone di parole stravaganti, ben 58, per poter identificare il proprio genere di appartenenza (ma forse mentre scrivo sono già aumentate le opzioni). E se ci spostiamo sui rapporti interpersonali, chi di noi può dire che una conversazione in chat non sia spesso più appetibile di una dal vivo…? Alla domanda se tutto questo sia opera dei social network la risposta è no, peraltro i social ormai fanno parte della nostra vita, anzi si può dire che siano il pianeta del terzo millennio e non ha senso ragionare in termini di demonizzazione. Però siamo onesti: non esiste la “neutralità”, per cui l’uso dei social ha necessariamente un’incidenza nella nostra giornata, nella nostra mente. Ad esempio, più di una Responsabile di comunità mi raccontava sconfortata che al momento della ricreazione, quando cioè ci si dovrebbe incontrare volentieri per stare insieme senza impegni di lavoro, tutte scappano nella loro camera, per navigare, usare skype... Allora diciamo che:
  1. i social non hanno creato, piuttosto hanno colto uno scontento relazionale già in atto e hanno offerto delle risposte che in nessun caso vanno subite per il solo fatto che ormai così va il mondo;
  2. se c’è una domanda, vuol dire che dietro c’è un bisogno. Se si cercano nuove forme relazionali significa che quelle precedenti non funzionavano bene.
Come ne usciamo? Potremmo osare alcune considerazioni come risposte possibili:
  • aver voglia di un’identità chiara, solida e ben costruita non vuol dire tornare ad essere rigidi e fuori tempo. Il ritmo ordinato della vita consacrata o le norme che una famiglia si dà, non sono da disdegnare, anzi sono una bella sfida in questa direzione;
  • i nostri spazi familiari, proprio quelli che a volte dovrebbero essere profezia di comunione, sono segnati da rabbia e risentimenti. È più facile tagliare che ricucire: processi, come quello del perdono, sono anti-economici ma hanno una potenza straordinaria individuale e relazionale, vale la pena scoprirlo o riscoprirlo;
  • se il momento ricreativo di una realtà comunitaria non va a nessuno, forse non sono più attuali le forme proposte per stare insieme, perché magari erano state pensate in un contesto storico ben differente. Oppure: se i pasti diventano un fuggi-fuggi di genitori e figli (nessuno escluso) forse è perché a tavola non si riesce a condividere qualcosa di sé, e andando a monte, non si ha niente da dire perché in fondo non ci si sente veramente famiglia. La vita in comune reclama una umanizzazione che significa: ascolto, dialogo autentico, presenza, tenerezza…
Concludendo: le forme di vita insieme non possono auto-giustificarsi, come mi pare accadesse un tempo, quando si davano per assodate e giuste per il solo fatto di esserci; è urgente recuperare attrattiva perché, come osserva Francesco, la gente arrivi a dire: “vogliamo venire con voi!”.
Vita in comune

Le comunità religiose hanno ancora un futuro?

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Vocazioni in calo, problemi affettivi e un senso di "fatica". Nella nostra società individualistica le forme di vita comunitaria sembrano quasi anacronistiche. O no?   suore


Ricordo un giorno speciale di fine liceo: in uno di quei campi scuola organizzati per far conoscere a ragazzi e ragazze le diverse strade vocazionali, ci portarono in un monastero di clausura. Fu un’occasione folgorante per noi adolescenti qualunque: nonostante l’abito, le grate e l’ingresso buio mettessero un che di soggezione, l’incontro con delle giovani così particolari rese quel pomeriggio indimenticabile. I numerosi volti, allegri e accoglienti, tutti under trenta, provenienti da varie regioni d’Italia, facevano un forte contrasto con l’ambiente austero nel quale ci accoglievano. I miei 17-18 anni non mi permisero di fare le domande giuste per arrivare alle radici della loro scelta di vita, radicale e apparentemente sganciata dalla realtà circostante; quasi certamente ci attenemmo ad un copione banale di curiosità del tipo: «Ma tu puoi fare questo…, puoi fare quello…?». Sta di fatto che da allora mi hanno incuriosito e affascinato, per svariate ragioni, non solo quelle stra-ordinarie realtà divine-umane racchiuse spesso in case monumentali, con prati ben curati dal verde invidiabile, ritmate da campane e preghiere raffinate, ma tutte le forme di vita in comune, fatte di un'umanità eterogenea che condivide la quotidianità, con le innumerevoli fatiche che qualunque convivenza comporta, e sotto la spinta di un medesimo progetto di fede, il “carisma”. I numeri da allora sono scesi: 15/20 giovani che si trovano insieme in un percorso del genere sarebbero eccezionali oggi, almeno in Italia. Dando un’occhiata alle statistiche ufficiali dell’Annuario Pontificio 2016 che riferisce vari report numerici riguardanti la Chiesa cattolica nel mondo, ho trovato dati molto interessanti, che rappresentano uno spaccato significativo del nostro tempo. Uno sguardo generale: nel corso degli ultimi nove anni il numero dei cattolici battezzati nel mondo è cresciuto ad un ritmo superiore (14,1%) a quello della popolazione mondiale nello stesso periodo (10,8%). La presenza cattolica sale, pertanto, al 17,8% nel 2014, dal 17,3% del 2005. In termini assoluti si contano circa 1.272 milioni di cattolici nel 2014 a fronte dei 1.115 milioni del 2005. L’Europa è l’area meno dinamica in assoluto, al contrario dei due continenti emergenti di Asia e Africa. E fin qui forse niente di nuovo. Se proviamo a leggere nello specifico l’andamento delle vocazioni “particolari”, cioè quelle di impegno radicale, attivo ed esplicito nella Chiesa, inizia a delinearsi almeno il contorno di questo millennio, anche da un punto di vista geografico. Sono in aumento, a livello mondiale, (ma non in America del Nord ed in Europa dove invece sono in ribasso) i numeri del clero, cioè dei sacerdoti diocesani e religiosi, da 406.411 nel 2005 sono passati a 415.792 nel 2014, poi il numero grosso modo si stabilizza. Per essere più precisi però, i sacerdoti diocesani presentano un andamento nel complesso crescente rispetto ai sacerdoti del clero religioso che invece, a livello globale, sono piuttosto in calo. Un altro dato importante: meno sacerdoti abbandonano la loro strada; bene, si direbbe che l’attenzione formativa post-conciliare, nel discernimento e nell’accompagnamento, inizi a produrre i suoi frutti. Sono però in aumento i decessi per età avanzata, soprattutto in Europa dove l’indice di natalità è basso mentre quello di invecchiamento è elevato. Ancora un dato molto significativo: diminuiscono religiosi e suore nei tre continenti di America, Europa ed Oceania; in Africa ed in Asia, invece, l’incremento è decisamente sostenuto, intorno al 20% il primo e all’11% il secondo. In altre parole e a grandi linee, la vocazione sacerdotale diocesana ha ancora generalmente presa; sembra invece averne meno, almeno in America del Nord ed Europa, quella alla vita religiosa. Osserviamo allora che l’Europa chiaramente cessa di essere un modello di riferimento quanto a contributo demografico e vocazionale in senso stretto. Tuttavia proprio qui, e nelle regioni dove stanno venendo meno scelte di consacrazione, sta crescendo a ritmo sostenuto il numero dei diaconi permanenti, cioè di uomini sposati che coadiuvano i sacerdoti nell’azione pastorale sul territorio, e ciò «non è certamente riconducibile a motivazioni temporanee e contingenti, ma sembra esprimere nuove e differenti scelte nell’esplicazione dell’attività di diffusione della fede»; in Asia ed Africa questa vocazione invece è ancora poco conosciuta e forse meno “necessaria”. Qualche altra considerazione immediata: appare evidente che alcuni stili di vita hanno ancora appeal sull’uomo contemporaneo, altri invece ne hanno molto meno. Non sarà un caso se le vocazioni più “collettive”, cioè che richiedono il vivere insieme, non sono così numerose nei paesi del benessere materiale dove invece – scorriamo semplicemente i numeri – quelle di carattere più individuale attirano maggiormente. Mi pare inoltre, al di là delle statistiche ufficiali, che alcune forme di consacrazione laica che non richiedono necessariamente la vita comunitaria e forme più “moderne”, per quanto pur sempre di vita consacrata, di convivenza si stiano invece diversificando. Alla base di tutto, oltre alla vocazione personale che è la prima chiave di lettura, c’è probabilmente una fatica generalizzata a vivere insieme, complici i social che hanno potenziato modalità rapide e light di connessione più che di relazione, una moderna e magari giustificata intolleranza verso le strutture eccessivamente rigide, ma anche il bisogno lecito di rinnovare la vita comune che forse deve ritrovare forme più attuali e convincenti, rispetto a quelle del passato, che poi così perfette non erano. Per concludere: la condivisione di vita (religiosa e non) è una scelta controcorrente, ma ha ancora un futuro, secondo me, anzi proprio oggi rappresenta una scelta profetica.  
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