L'esperto risponde / storie

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Spiritualità

Chiesa, divisioni interne e costruzione di ponti

Sono un formatore di seminario. Seguo la vostra rubrica già da qualche anno. È uno spazio originale e molto utile perché è pratico, con domande e risposte. Qui, però, non pongo esattamente una domanda, direi piuttosto che propongo una riflessione alla vostra attenzione. Mi colpiscono tutte quelle vicende che nella Chiesa creano divisioni, anche all’interno della stessa famiglia religiosa. Non sono mai stato direttamente coinvolto in nessuna di queste, ma sono spaventato dai conflitti interni che mi fanno veramente paura, anche nei nostri ambienti. È così facile cadere nei “partiti”, creare alleati e nemici…proprio noi! Mi interroga anche lo spirito critico degli ultimi anni da parte di giovani e meno giovani verso il servizio dell’autorità, ma anche tra fratelli e sorelle. Qui, allora, porto la preoccupazione e insieme il desiderio di voler evitare il rumore di ambienti divisi.

(da Pixabay)

Arriva con molta forza, attraverso le sue parole, la preoccupazione che ha condiviso. Un testo molto accorato il suo. Grazie.

Ci sono alcuni termini da lei utilizzati che sono andati dritti a segno: partiti, nemici, rumore. Concordo che qualcosa sta accadendo nel tempo attuale.

Partirei, però, da uno sguardo positivo e non per dovere stilistico, ma perché il fermento critico del nostro tempo, anche in ambito vocazionale, è segno di passione, di maggiore opportunità di esprimere il proprio pensiero – anche se non sempre ciò avviene nei modi e nei luoghi opportuni – di un nuovo spazio dato alle diverse sensibilità generazionali, culturali e spirituali. Insomma, credo che oggi la possibilità di dar voce non solo ai responsabili/alle responsabili di comunità costringa gli ambienti formativi, e vocazionali in genere, a una rilettura delle proprie consuetudini, a ripensare i momenti di scambio sull’andamento del vivere insieme, a interrogarsi se quello che si propone a parole corrisponde effettivamente alla prassi, o lo scarto è significativo.

Un giovane seminarista mi racconta, ad esempio, di aver obiettato, con altri giovani, circa il modo di gestire gli incontri periodici di formazione, perché li trovavano noiosi, troppo formali, e condotti come delle innumerevoli “prediche”, per cui uno parla e tutti ascoltano (o fingono di farlo), a volte anche per delle ore. Sebbene inizialmente le loro osservazioni non siano state accolte al meglio, dopo vari scambi i formatori hanno deciso di cambiare l’assetto consueto di quei pomeriggi e di prendere sul serio le difficoltà esposte.

Ancora un esempio: sempre più spesso constato la franchezza con cui le donne consacrate si rivolgono alle figure di autorità perché non trovano più proponibile lo stile tipico dell’Istituto di portare avanti l’apostolato. Nel mondo femminile questo coraggio era sicuramente molto raro fino a qualche tempo fa. Non dico nulla di nuovo.

Quindi, bene. La comunità è formata da tutti adulti, seppure con ruoli diversi, e non è di proprietà di nessuno. Non ci si può più nascondere dietro il ruolo, perché facilmente qualcuno farà notare le incongruenze o l’ingiustizia se fuori dai turni di cucina rimangono sempre gli stessi…

C’è un però. Convengo con lei, infatti, che tutto questo ha anche un limite. Un “io” spropositato. Intendo dire che la libertà sacrosanta di esprimersi e quindi proporre il mio pensiero, porta talvolta a perdere di vista che questo io trova senso – ancora di più per mandato vocazionale – all’interno di un contesto, la Chiesa e la comunità particolare in cui la storia di ciascuno si inserisce per scelta.

Questo sì, è triste. È triste la convinzione diffusa che da soli si possa salvare una situazione, una realtà, o si possa avere la parola risolutrice. Quando ci si concentra unicamente o prevalentemente sul proprio orizzonte, pensando di cambiare la storia, è la fine della fraternità.

Mi permetto di dirlo da laica che affianca e che ammira profondamente le vocazioni, quelle di speciale appartenenza, tanto per intenderci. Perché credo che i vostri spazi di vita abbiano potenzialità enormi per essere laboratori di dialogo, di linguaggi che non uccidono ma cercano di imparare la lingua dell’altro. Concordo con lei che ci scrive, quindi, che va custodita o recuperata, se si fosse persa, la capacità di costruire ponti. Ripeto, non lo dico come chi immagina in modo angelico sacerdoti e religiosi, lo dico, invece, da amica ed estimatrice. Da psicologa e da credente.

Alcuni ambienti di vita, come possono essere un seminario o una comunità maschile o femminile hanno, per l’organizzazione stessa che le caratterizza, di preghiera e di vita comunitaria, di ascolto e di scambio, di apostolato e di silenzio, una marcia in più per creare dei microcosmi dove si imbastiscono ponti.

Ci sono i grandi ponti quando si cerca di dialogare con confessioni diverse, ma ci sono ponti altrettanto complessi, e non meno importanti, quando si cerca di dare una mano a fare famiglia in casa propria. Non è facile per niente. Giocano un ruolo importante la maturità individuale, ma anche l’ambiente stesso, se c’è un’apertura franca tra i membri, se non vige il pensiero unico, se non ci sono troppe diseguaglianze interne, se è favorito un clima onesto e trasparente.

Ci vuole un gran lavoro, perché l’attenzione è duplice, appunto: sia al cammino della persona e al suo processo di crescita, per non mandare avanti situazioni umanamente troppo fragili e conflittuali che alla lunga sono dannose per le persone stesse e per quelli intorno.

Sia all’ambiente vocazionale che non alimenti ruoli, gerarchie, abusi di potere – non esistono solo le questioni sessuali – che sempre aprono il varco a ciò che lei ha ben individuato: fazioni interne, maldicenze, invidie. Qui siamo responsabili tutti: chi ha incarichi formativi, che talvolta non ha mai fatto un vero cammino di conoscenza di sé e quindi non sa mettersi in discussione, per cui è cieco rispetto ai propri limiti e soprusi. E chi sta dentro la comunità che ha perso il senso del noi.

Ricordo, per concludere, un passaggio fondamentale dell’Amoris Laetitia, per dire che però non ogni tensione o divisione è distruttiva, ma può essere l’occasione di una svolta seria.

«La storia di una famiglia è solcata da crisi di ogni genere, che sono anche parte della sua drammatica bellezza. Bisogna aiutare a scoprire che una crisi superata non porta ad una relazione meno intensa, ma a migliorare, a sedimentare e a maturare il vino dell’unione. Non si vive insieme per essere sempre meno felici, ma per imparare ad essere felici in modo nuovo, a partire dalle possibilità aperte da una nuova tappa […] In nessun modo bisogna rassegnarsi a una curva discendente, a un deterioramento inevitabile, a una mediocrità da sopportare» (n. 232).

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Vocazioni di serie A e di serie B?

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Ho letto su questa rubrica le considerazioni della consacrata non-italiana, e sull’Osservatore Romano la denuncia coraggiosa sulle suore sfruttate, denuncia che ha fatto il giro del web. Allora le nostre proteste non sono poi così lontane dalla realtà! Una consacrata non-italiana In parrocchia cerco di coinvolgere le suore che sono nel quartiere per darmi una mano nelle catechesi o nella formazione dei laici, ma mi rispondono spesso che non si sentono all’altezza; sono loro stesse che si sentono più a loro agio in ruoli di retroguardia. Un sacerdote


Non credo che serva esattamente una “risposta” a queste riflessioni così significative. Preferisco condividere pensieri vari, allargando lo sguardo, ma cercando di non perdere di vista il tema. Qualche anno fa Francesco rivolgendosi all’Unione dei Superiori Maggiori in Italia, in un discorso poi riportato nell’articolo di Civiltà Cattolica «Svegliate il mondo», ha parlato della formazione come opera artigianale e non poliziesca, della necessità di formare i cuori altrimenti si formano «piccoli mostri» (diceva proprio così!), e di tenere aperti gli occhi sulla cosiddetta «tratta delle novizie», denunciata dai vescovi filippini. È la triste, ma reale situazione, del reclutare vocazioni straniere da inviare in Europa, continente che attraversa un periodo di grave crisi numerica. Nello stesso discorso il Papa si è pure lamentato della consapevolezza, oggi ancora inadeguata, della vocazione dei religiosi-non sacerdoti, alludendo, credo, al fatto che a volte si creano vocazioni di serie A, B, C... Faccio riferimento a quel discorso per dire innanzitutto che situazioni di squilibrio all’interno della Chiesa sono innegabili, e lo sono a più livelli, sia riguardo al rapporto maschile-femminile, sia riguardo al rapporto tra le diverse scelte vocazionali. E poi perché penso che alcune gravissime collusioni siano una responsabilità comune di vescovi, sacerdoti, ma anche delle Congregazioni stesse che non aiutano le proprie sorelle a crescere adeguatamente rendendosi donne libere, veramente adulte, condizioni essenziali per un cammino di fede e vocazionale autentico. Offrire un percorso di studi rischia di rendere le persone “fin troppo autonome”, dicono alcune superiore, ma più a monte la questione riguarda sempre un discernimento adeguato e la necessità imprescindibile di favorire la maturazione personale, aiutando chi non è nel posto giusto a scegliere altro. Non è certo una soluzione quella di lasciare nell’ignoranza i membri di una comunità, eventualità ancora oggi più frequente in ambito femminile che maschile, come del resto non è custodire una vocazione quella di lasciare il giovane/la giovane entro le 4 mura domestiche così non ha “tentazioni”. D’altro canto, riprendendo l’osservazione del sacerdote, spesso sono le consacrate stesse, pur avendo ricevuto strumenti adeguati, a non buttarsi nell’apostolato, a rimanere “come principesse”, diceva una formatrice, “sempre scontente”. Allora… la fraternità non ha “posti fissi” (chi pulisce e chi insegna), ed è possibile solo quando, uomo o donna, mi impegno a valorizzare la sensibilità e i talenti dell’altro, ad oppormi se la dignità del fratello o della sorella è sminuita in qualunque modo, ad incoraggiare e sostenere chi è più timoroso o insicuro nell’abbracciare un compito di cui si sente incapace, solo per stereotipi ormai interiorizzati. Insomma uomini e donne hanno ancora un bel daffare per potersi guardare negli occhi alla pari, perché, come diceva Etty Hillesum «Per umiliare qualcuno si deve essere in due: colui che umilia e colui che è umiliato, e soprattutto che si lascia umiliare» (Diario 1941-1943).
Vita in comune

Quanti problemi per le suore giovani straniere…

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Parliamo di congregazioni interculturali? Tante congregazioni, come nel mio caso, scarseggiano di vocazioni italiane, ma grazie a Dio arrivano dagli altri continenti. È difficile però parlare di interculturalità, è difficile parlare della preparazione di suore giovani che possano prendere delle responsabilità, come anche del passaggio di autorità. Le nostre idee, suggerimenti e proposte sono sempre sottovalutate. Quale futuro abbiamo noi, oltre alle strutture, se non abbiamo voce in capitolo come fossimo incapaci? Una consacrata non italiana        


La domanda è forte, nel senso che esprime tutta la passione con cui è scritta. Le racconto un’esperienza singolare, che faccio ultimamente nell’accompagnare alcuni consacrati non italiani: un tempo, mi pare, l’Italia era una meta ambita, per il tenore di vita che si supponeva migliore rispetto ad altre realtà, per la ricchezza culturale ed artistica del nostro paese e, in particolare, per l’unicità di un luogo come Roma che trasuda arte e storia. Oggi, invece, mi rendo conto che i giovani, dopo aver trascorso un tempo qui da noi, per studio o per apostolato, hanno una gran voglia di tornare nella propria terra, di servire il proprio popolo, anche se la missione è universale, e questo fa pensare a come siano cambiate le prospettive. Bisogna essere onesti, le nostre realtà comunitarie hanno una prevalenza di persone anziane ed è vero ciò che lei dice che le giovani di altri continenti sono vere e proprie missionarie rispetto ad ambienti per nulla facili, proprio per il gap di età talvolta enorme. È anche vero che alcuni anziani non si sono mai aperti all’interculturalità e continuano a guardare con sospetto lo “straniero”. Mentre oggi la vita comunitaria italiana dovrebbe esser grata dell’apporto prezioso e generoso di fratelli e sorelle che vengono spesso da molto lontano, portando un aiuto concreto e una ventata di freschezza davvero indispensabile. Quante liturgie prendono energia e vitalità dai canti e dalla bellezza di una ritualità diversa dalla nostra! Riguardo a quanto lei dice mi consenta, però, un tentativo di equa distribuzione (si fa per dire) delle “colpe” all’interno del gruppo: chi arriva da fuori-Italia soffre quando non si sente integrato, ma poi non sempre al desiderio di partecipare fa seguire un impegno effettivo di collaborazione e progettualità. I giovani e le giovani che chiedono di essere coinvolti nelle responsabilità istituzionali o negli incarichi apostolici, non sempre si buttano attivamente nell’avventura dell’unico carisma: talvolta alla critica non segue la disponibilità a rimboccarsi le maniche per risolvere il problema insieme. Dall’altro lato, però, discriminare le giovani suore per la loro provenienza è veramente grave. Anzi, le dirò di più, uno degli ultimi documenti della Congregazione per la Vita consacrata e le Società di vita apostolica, del 2017, Per vino nuovo otri nuovi, al n. 40 riconosce che la vita consacrata non deve rimanere “impermeabile” nell’incontro con le diverse culture, ma al contrario può diventare un laboratorio dove sensibilità e culture diverse acquistano «forza e significati non conosciuti altrove». La vita in comune è quindi lo spazio privilegiato per un incontro pienamente integrato e reciprocamente arricchente di varietà geografiche! Parole fortissime a cui il documento aggiunge, nello stesso numero, che «nessuna sorella deve essere relegata in uno stato di sudditanza, cosa che si riscontra purtroppo con frequenza». Lo dice a proposito del rapporto superiori/membri, ma è logico estendere questa chiara considerazione ai rapporti interculturali all’interno della comunità. Non ci sarebbe da aggiungere altro: il confronto aperto e costante è vitale, serve un continuo dialogo schietto, negli spazi e nei tempi opportuni, per affrontare le inevitabili criticità del vivere insieme. La comunità basata su un ideale è fatta di persone tutte adulte e tutte allo stesso livello. Ciò che cambiano sono i ruoli, ma questi non sono a vita. Chi è superiora oggi, domani torna a essere una sorella come le altre. Ci vuole tempo ma bisogna parlare, raccontarsi le soddisfazioni di ogni giorno (oltre ai problemi). Esprimere i disagi, farli venire fuori e confrontarli senza recriminazioni sterili, alla lunga paga e costruisce lo stare insieme. Le comunità che vivono separate al loro interno secondo delle caste finiscono per perdere qualunque efficacia missionaria e profetica.  
Vita in comune

Coppie, comunità e tradimenti

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Frequento un centro per anziani. Si passano ore serene, ma mi rendo conto che, nonostante l’età, ci sono molti “tradimenti” di coppia. Per non parlare di quello che succede sui social. È così difficile essere fedeli?


Un’accortezza che mi impegno a mantenere viva nel rispondere è quella di non slittare su toni moraleggianti, che non rientrano nelle mie intenzioni, neppure remote. Non ho delle statistiche in merito alla fedeltà delle coppie oggi rispetto a ieri, senza dubbio però, e credo che la convinzione sia condivisa da tutti noi, l’ambiente digitale ha moltiplicato in maniera esponenziale la possibilità di stabilire nuovi contatti relazionali senza troppa fatica, quindi anche di aprire degli spazi esterni rispetto alla coppia, e di coltivarli con la stessa leggerezza. Talvolta basta poco: un’emoticon inserita opportunamente all’interno di un messaggio – che molto probabilmente il partner “escluso” non approverebbe – può già rappresentare una remota, ma concreta possibilità di ferire l’intimità di coppia. E questa possibilità è trasversale ormai all’età cronologica. Siamo anche d’accordo tuttavia, perché è di immediata evidenza, che non può essere uno strumento esterno ad essere “colpevole” rispetto all’andamento delle coppie, come anche delle comunità. Condivido allora alcune considerazioni: la prima è che non è facile continuare a voler bene, amare e perdonare, cioè non chiudere il rapporto, quando si creano delle tensioni. Non è facile mettersi in discussione in prima persona anziché demandare all’altro la responsabilità di un litigio, trovare il tempo ogni giorno – non una volta al mese – di parlare, confrontarsi, raccontarsi le giornate vissute. Non è mai stato facile, ma oggi le strade alternative all’amore stabile sono molto più a portata di mano e assai poco dispendiose: se il mio partner non mi ascolta cosa ci vuole a raccontare in Rete le mie emozioni, magari ad una folla anonima, o a un nuovo contatto che invece si mostra più disponibile? Questione di un attimo, che poi diventa un secondo attimo e poi un terzo. Rifletto anche che le crisi non sono mai improvvise, ma “preparate” nel tempo con cura. Lo dico ironicamente ma anche realisticamente: si parla spesso di inconscio e ad esso si attribuiscono delle stranezze inspiegabili, mentre in realtà l’inconscio non è né muto né folle, siamo noi piuttosto che non riusciamo a prestargli credito e i segnali di disagio che manda li risolviamo, con aria sufficiente, con un “ma che male c’è!”. Quelle microfratture, inizialmente impercettibili, nella vita di coppia (giovane o anziana) o di comunità, invece, rappresentano una mano tesa verso l’esterno, anziché verso l’interno della famiglia. È un gran bell’impegno vivere insieme, sia in coppia, sia nelle esperienze di vita in comune, ma se siamo spaventati – e lo siamo! – dalla possibilità di disumanizzarci, cioè di perdere la capacità tutta umana di vivere relazioni d’amore in maniera profonda e continuativa, se osserviamo con dolore con quanta facilità “Tutto è scartabile, ciascuno usa e getta, spreca e rompe, sfrutta e spreme finché serve. E poi addio” (Amoris Laetitia, n. 39), se ormai la parola data dall’altro perde la sua potenza perché la fiducia si va sbiadendo… allora non dobbiamo rimanere inermi. Dall’uomo parte il suo smarrimento, dall’uomo parte la sua ripresa. Perciò al “movimento” oggi in corso, si può opporre – parola che normalmente non amo, ma che qui è necessaria – un cammino in direzione diversa, che sono convinta parta da un’attenzione meno anonima all’altro, il marito, la moglie, il fratello, la sorella; e dalla forza che può rappresentare la comunità circostante, che, se non è troppo distratta, può intercettare il malessere che uno dei propri membri vive e sostenerlo, offrendogli ascolto e un confronto solido, quando inizia a perdere l’orientamento.
Vita in comune

Io o noi?

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Abbiamo una sorella che vorrebbe aprire una nuova forma di apostolato. La comunità le ha detto che per ora non ci sono risorse adeguate per sostenere il suo progetto, ma lei ha deciso di andare avanti ulteriormente, convinta di essere così nella volontà di Dio. Una formatrice


Grazie per questa occasione di riflessione, mi dispiace aver dovuto sintetizzare le sue parole, comunque molto chiare e accorate. Mi pare che questo tema apra una sorta di voragine. L’esperienza più frequente delle comunità, almeno in un recente passato, è quello di chiarire subito con la persona che quando si intraprende un’esperienza di vita in comune, l’io diventa gradualmente e definitivamente un “noi”, per cui non ci sono più margini per i carismi personali, se non nella misura in cui rientrino nel progetto comunitario. Le stesse anziane ed anziani raccontano, oggi con simpatia, che una volta fin dall’inizio del percorso le formatrici/i formatori si premuravano di affidare loro compiti che andavano nella direzione opposta delle attitudini personali di gusto e di carattere, magari anche apertamente esplicitate, con l’intento, senza dubbio in buona fede, di non assecondare la natura, considerata quasi un limite anti-vocazionale e di aprire nuovi spazi a Dio. Per cui se c’era una predisposizione a lavorare la terra, la persona veniva mandata a studiare, con tutta la fatica ed il sacrificio immaginabili; e se viceversa ella aveva attitudini più intellettuali, queste venivano “santamente mortificate” in nome di una presunta maggior gloria di Dio. Ora, non credo che questo atteggiamento sia del tutto sbagliato, ma vorrei spiegarmi per non essere fraintesa. Che la comunità diventi il criterio per valutare le intuizioni personali credo sia un aspetto molto bello del vivere insieme, un po’ come in famiglia il marito o la moglie cercano di scegliere, accettare o meno un lavoro, intraprendere o meno un progetto, valutando le esigenze di tutti e confrontandosi l’uno con l’altro, almeno in coppia. Perché lo stesso non dovrebbe accadere nella comunità? Questo aspetto dell’essere “come una famiglia” mi pare che venga spesso messo da parte. Ciò non vuol dire assolutamente che allora l’individuo diventi un numero qualunque in una grande macchina produci-lavoro, ma neppure che perda del tutto il confronto con la sua realtà di appartenenza, e che la comunità debba adeguarsi a “quelle” specifiche esigenze, anche legittime, se per varie ragioni, non è ancora pronta per questo. La vita in comune è anti-economica dal punto di vista della -velocità! È una delle ragioni per cui penso che la comunità non sia per tutti. Non c’è dunque una soluzione o una ricetta esatta, che valga una volta per tutte. Credo con forza però che la vita in comune, se prevista da quella realtà carismatica, diventi parte integrante e non solo ornamentale della scelta individuale, e oggi questa prospettiva è la più a rischio. Ciò d’altra parte significa anche che la comunità, nell’accogliere un membro, si fa responsabilmente carico della sua storia e della sua sensibilità, continuandone a riconoscere sempre l’identità adulta ed autonoma, sforzandosi di essere attenta a ciò che la persona dice, alle idee e ai progetti che ella propone, avendo cura della sua unicità. Il dialogo continuo, paziente, fiducioso, e il coraggio di non chiudersi mai l’uno all’altro, anche quando ciò dovesse creare scontri e non solo confronti, penso siano la strada per trovare di volta in volta delle risposte, senza perdersi – la comunità isola la persona perché “strana” o troppo esigente, e la persona si distacca con rancore dal gruppo, perché non si sente capita – con i tempi sicuramente rallentati dal procedere… insieme e non da soli.
Vita in comune

Perdono e maturità umana

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Se dovesse individuare un aspetto essenziale per vivere meglio insieme quale indicherebbe? Si parla sempre di narcisismo ma in sostanza cosa vuol dire, perché a me sembra una parola senza prospettiva. Un consacrato


Condivido un pensiero sul quale ritorno spesso. Non c’è dubbio che l’umanità sia affamata di contatti e di relazioni. Le stesse chat, col bisogno di stare sempre connessi, esprimono il desiderio di non rimanere soli, di sentire costantemente la presenza di altri attorno. Però… c’è un però. Mi pare che siamo accecati da una sorta di occhio di bue, un grande faro illuminante che segue sempre e solo l’inquadratura di sé. Ecco il narcisismo. Una prospettiva ce l’avrei, una strada che sembra “scontata”, specie ai credenti, ma che non lo è affatto, un percorso anti-narcisista. Il perdono. Che non è una cosa da primi della classe buonisti. Come scriveva C.S. Lewis, «tutti dicono che è una cosa bella perdonare finché non tocca a loro perdonare qualcosa». C’è una grande e meravigliosa rivoluzione negli ultimi decenni: i professionisti della salute mentale, non necessariamente di orientamento religioso, hanno iniziato ad occuparsi di questa “cosa misteriosa” del perdonare come di un’abilità e un punto di forza dell’uomo, utile a migliorare la qualità della propria vita, a potenziare le capacità personali e naturalmente quelle relazionali. Dunque mettiamo da parte per un momento la dimensione religiosa, per non correre il rischio di far scivolare il perdono tra le questioni morali. Mi attengo al piano psicologico e condivido qualche spunto raccolto da vari studi che hanno un fascino enorme. Perdonare è un processo serissimo, adulto e soprattutto che sta ai vertici dell’amore, cioè dell’uscita da sé, espressione massima della maturità umana, prima ancora che di fede. Non è un atto puntuale, come spesso ce lo figuriamo, ma un cammino che devo volere con tutta me stessa, perché non avviene spontaneamente. Lo si potrebbe rappresentare così, anche se mi dispiace per la riduzione: è riuscire a restituire all’altro l’interezza della sua vita, a non vederlo più solo in quel frammento nel quale ci ha procurato una ferita, come se la persona fosse tutta lì, sgravandolo così del peso di essere un “offensore”. E poi perdonare significa anche a dare a noi stessi la possibilità di uscire da quel francobollo di sofferenza nel quale ci siamo fissati come se fosse l’intero della nostra esistenza. Se guardiamo un film non ci fermiamo su un unico fotogramma per un paio d’ore pensando così di aver visto tutta la storia. Mi sembra straordinaria la possibilità di alzarsi la mattina e guardare l’altro senza dover aprire l’archivio dei file delle memorie storiche. Perdonare non equivale a far cadere nell’oblio i ricordi, cosa peraltro impossibile alla mente umana, non vuol dire scansare la giustizia, non è una semplice riappacificazione, né un’accettazione passiva, e neanche un processo semplicemente empatico… è assai di più perché richiede uno sforzo interiore profondo di vera benevolenza, ed è espressione di assoluta gratuità. Non c’è un obbligo a perdonare, non è un dovere e la domanda spontanea “perché io?” aiuta a capire quanto sia un processo che prescinde da colpe e responsabilità. Lo ripeto: è un riappropriarsi della pienezza di vita e delle proprie emozioni, fino a quel momento delegate ad altri (quando si soffre, lo star bene dipende da qualcun altro!), e restituirla nella sua completezza. Negli ambienti di vita comune, comprese le famiglie, c’è tanta gente arrabbiata e appesantita dal rancore. Inutilmente. Gli studi ci dicono che chi è incline al perdono, come attitudine quotidiana e non straordinaria, riferisce minori livelli di stanchezza e depressione, è più ottimista, ha più speranza, e contemporaneamente è più libero da quei vissuti psichici negativi che spesso monopolizzano la mente di chi soffre. Chi non vorrebbe un ambiente di vita comune dove ciascuno è “leggero” e dona leggerezza all’altro?
Vita in comune

I religiosi e i soldi

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Una delle nostre discussioni più frequenti in comunità riguarda la gestione economica individuale e la proposta di alcune di noi di creare degli spazi dentro casa a cui si possa accedere senza dover attendere il momento dei pasti comuni. Una religiosa


La domanda entra in un campo che non è direttamente di mia competenza, però mi pare interessante perciò provo a condividere qualche riflessione pratica. Nell’ultimo convegno promosso dalla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica dedicato al tema “Pastorale vocazionale e vita consacrata. Orizzonti e speranze”, il card. Stella ha parlato di Gesù come di un uomo che “curava i dettagli”. Veramente originale come considerazione! Degli esempi riportati, io ne ricordo solo alcuni: la ricerca della pecora smarrita non accontentandosi che il resto del gregge fosse comunque integro, il recupero dei pezzi avanzati dopo la moltiplicazione dei pani, per non farli sprecare, la cura degli invitati alle nozze di Cana a cui mancava il vino, cosa che potrebbe essere considerata un lusso superfluo… Mi sono tornate in mente queste considerazioni a proposito della questione a cui la religiosa ha accennato e che, a dire il vero, è condivisa in diversi ambienti di vita maschile e femminile, e cioè che rispettare il valore evangelico, come quello della povertà, non significhi necessariamente trascurare aspetti che possano permettere il benessere delle persone, anche quando sono, appunto, dettagli e non cose essenziali. Racconto l’esempio concreto di un religioso economo, il quale mi diceva che ha sempre voluto garantire tutti i comfort possibili alla propria comunità, per evitare che i frati cercassero altrove i piccoli piaceri, quelli semplici, come uno snack, una birra, un po’ di vino ai pasti… e aggiungeva, sorridendo, che la sua comunità è sempre piena, i religiosi non escono volentieri perché trovano tutto dentro le mura domestiche. Insomma la comunità è davvero “ casa”. Laddove le comunità, pur nel rispetto della povertà abbracciata, hanno cura dei membri, facendo in modo che i propri ambienti siano curati, luminosi, belli (quanto è formativa la bellezza!) e possano essere soddisfatti i piccoli desideri ordinari, non rischiano di costringere le persone ad uscire fuori per star bene. La formazione si rivolge al cuore delle persone per far crescere in loro motivazioni profonde alla scelta di vita che stanno compiendo, nelle sue varie espressioni, tuttavia questo non significa che poi debbano essere precisati tutti gli aspetti della vita comunitaria – non sono questi i dettagli curati da Gesù, mi pare – perché, come sappiamo, la vita consacrata/sacerdotale accoglie persone adulte o che comunque vengono aiutate a diventare tali. Privare una persona adulta di un ambiente il più possibile “naturale” credo sia davvero rischioso. Viceversa quando la persona ha a disposizione – senza ansia da “carestia” con conseguente accaparramento dei beni (osservazione che lo stesso economo mi condivideva) – un minimo di autonomia economica e di confort domestico, è più basso il rischio di squilibri. Del resto, credo che ciascuno debba sviluppare una personale sensibilità vocazionale – riguardo a castità, povertà, obbedienza, vita comunitaria – disegnando un proprio quadro all’interno di un’unica cornice carismatica, non troppo ingombrante.
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