L'esperto risponde / Psicologia

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Vita in comune

Donna e consacrata

Ho letto con interesse le puntate della sua rubrica sui problemi dei seminari e della vita sacerdotale. Potrebbe spendere qualche parola anche sulla non sempre bella situazione femminile nei conventi? Faccio riferimento in particolare all’intervista al card. Joao uscita qualche mese fa nell’inserto Donne Chiesa Mondo dell’Osservatore Romano. Grazie. Una religiosa

(AP Photo/Gregorio Borgia)

In parte mi ritrovo nelle osservazioni sulla realtà comunitaria femminile, tuttavia credo che oggi siamo a una svolta epocale. Quando incontro consacrate italiane, africane, brasiliane, polacche, argentine, messicane… – e non parlo solo delle giovani – rimango sorpresa dalla libertà che hanno di individuare le vulnerabilità di un sistema che talvolta mostra segni di stanchezza eccessiva.

Sr. Fulvia Sieni, Abbadessa delle Monache Agostinane dei Santi Quattro Coronati a Roma, col suo sguardo lucido e onesto mi pare concordi su questo aspetto di franchezza.

Sr. Fulvia: «La vita religiosa femminile ha più consapevolezza delle proprie vulnerabilità di quanto si creda; non rimango mai sorpresa dalla lucidità che emerge sempre nelle conversazioni con donne consacrate (ma potrei dire lo stesso di dialoghi con donne sposate, madri o comunque con donne…) nel mettere a fuoco il problema o i nodi principali che, intrecciando diverse problematiche, rendono a volte complessa la realtà comunitaria (familiare o lavorativa). La vera e deludente sorpresa mi raggiunge quando, con la medesima lucidità, mi viene confidato il malessere di avere segnalato a chi di dovere (a volte fino al Vescovo) le difficoltà e di non aver trovato interesse, ascolto, sostegno, cura e solitamente è qui che sta la sorgente di ogni stanchezza nella vita religiosa».

Ha ragione, posso immaginare situazioni come quelle che lei descrive di non ascolto, tuttavia mi permetto di insistere che a chi inizia un percorso vocazionale è comunque importante offrire strumenti per stare in piedi, per acquisire una coscienza adulta di sé e delle proprie capacità di amare. Le parole faticano ad esprimere quanto vorrei sottolineare: se non si favorisce “l’adultità” dei consacrati, qui stiamo parlando del mondo femminile in particolare, la vita religiosa rischia di scendere di livello. La realtà comunitaria è per adulti, e questo richiede una serie di caratteristiche da acquisire e mantenere, perché, altrimenti, lo stadio dei membri rimane quello infantile/adolescenziale e sarebbe uno spreco. Inoltre, credo che la parte maschile abbia la sua porzione di responsabilità: non di rado, infatti, ho sentito accompagnatori spirituali chiedere a una comunità di consacrate di prendere quella giovane, che ha serie difficoltà, perché “altrimenti dove andrebbe?”.

Sr. Fulvia: «Infatti. È necessario avviare processi di conversione e di cambiamento, ma questi devono essere accompagnati e devono coinvolgere tutta la mentalità della Chiesa, in particolare riguardo alle suore. Le abbiamo volute per anni nelle lavanderie dei Seminari, nelle sacrestie dei santuari, nelle cucine dei monsignori e, purtroppo, molte sono ancora là. Quando papa Francesco parla di «tratta» a me vengono in mente anche questo tipo di servizi: le chiamiamo “suorine”, “sposine di Cristo”, “monachelle”… ora improvvisamente le vogliamo formatrici e psicologhe, superiore e canoniste, econome e commercialiste. Ciò che oggi viene denunciato, per anni è stato avallato. Non è questo l’aiuto di cui c’è bisogno. Conosco molte consacrate che dopo aver lavorato duramente e molto tutto il giorno, pregato con impegno e partecipato alle attività della comunità cui appartengono, trascorrono ore della notte a studiare per poi riprendere il lavoro il giorno dopo. Conosco molti sacerdoti, invece, che risiedono in collegi che sono quasi alberghi di lusso, la cui retta è pagata dalla diocesi di appartenenza, le cui stanze sono spesso tenute in ordine da quelle sorelle che poi studieranno la notte, che dedicano il loro tempo a studiare, allo sport, alle mostre o al cinema. Sacerdoti che, se invitati a celebrare l’Eucarestia in qualche comunità religiosa, sperano di non dover fare l’omelia. Non ho mai sentito nessuno chiamare uno di loro “pretino”, “sacerdotello”, “amichetto di Cristo”… ed è ben giusto, sarebbe un’aberrazione, come di fatto lo è per le consacrate».

Sono d’accordo. Riferirsi alle donne con espressioni puerili non rende ragione, né merito a un’identità, quella femminile, che ha un suo specifico anche in ambito vocazionale. Forse, allora, va ripensata la comprensione del vivere insieme in un ambiente femminile, sia perché rimane uno scarto innegabile rispetto agli spazi di libertà di cui godono quelle maschili, sia perché – almeno dal mio punto di osservazione – ho talvolta la percezione che manchi proprio una chiarezza in merito a cosa voglia dire essere comunità.

Con sguardo femminile esterno, direi che le comunità di donne a volte vivono ancora errori di comprensione per cui “insieme” vuol dire “tutti uguali”, un pensiero unico con scarsi spazi di autonomia e un’unica mente pensante. Mentre, invece, è sano e direi vitale quel margine per essere se stessi perché un ambiente non diventi un contesto regressivo, che rende simbiotici. È chiaro che in questi casi c’è un rischio altissimo di alimentare il narcisismo. Perciò la riflessione deve contemplare: crescita adulta e senso di fraternità, una diade inscindibile.

Sr. Fulvia: «Pur non volendo rinnegare secoli e secoli di tradizione nella vita religiosa, mi trovo semplicemente ad osservare che l’aver importato il modello gerarchico maschile nella vita religiosa femminile non ha fatto bene a quest’ultima. Perché le donne hanno in loro un’indole più collaborativa rispetto agli uomini che, mi permetto di dire, hanno bisogno di un leader, quanto meno dal punto di vista organizzativo, che assegni loro ruoli e compiti. Certamente anche nelle comunità religiose femminili serve un’organizzazione, delle responsabilità chiare e gestite, ma la famosa sinodalità, così proclamata nella Chiesa, la vedo già molto praticata tra le donne consacrate in modo concreto, semplice e senza troppo clamore. Sento di poter dire, vivendo con molte donne, che la corresponsabilità ci è con-naturale, va certamente educata ma nasce con l’appartenenza, il sentirsi a casa, il sapersi parte di un corpo del quale ci si vuole prendere cura proprio perché nostro. Mentre gli uomini mi sembrano, potrei sbagliare, più attenti a ruoli, compiti e posizioni. Comunque, l’inevitabile sta finalmente accadendo: l’uomo senza la donna non si comprende, né nel corpo nelle sue meravigliose caratteristiche creaturali, né nel modo di pensare e di agire, né nella sua vocazione».

Da parte mia, come psicologa che vuol molto bene alla vita consacrata, la stima, e da essa ha ricevuto e riceve tanto bene, rimane doloroso constatare che gli abusi in ambito femminile sono molto reali. Talvolta se ne parla in toni esasperati, ma non si può fare a meno di osservare che in alcuni contesti (maschili e femminili) il potere non sia un servizio, ma un privilegio. È umano.

Nulla di cui scandalizzarsi, però tra donne le dinamiche possono rimanere silenti e diverse sorelle possono soffrirne senza essere in grado di poterlo esprimere. Perciò senza drammatizzare o fare la parte delle vittime (anche perché qui la violenza è da donna a donna), ritengo che se ne debba parlare cercando di accostare con affetto, delicatezza, ma anche fermezza quelle situazioni che ad oggi rimangono inique, anche in ambito vocazionale.

Sr. Fulvia: «Il tema degli abusi è molto delicato e parlarne in modo sbagliato o approssimativo può amplificare il dolore. Generalizzare, si sa, non è mai un buon approccio per affrontare i problemi; mi amareggiano alcune considerazioni che vorrebbero essere di denuncia, ma che di fatto producono solo sospetto e discredito verso la vita religiosa femminile che è invece molto preziosa, ma purtroppo vittima di sciocchi pregiudizi soprattutto qui, nel mondo occidentale. Forse quell’attaccamento al ruolo e alla posizione di quelle superiore maggiori burbere che non cedono il passo, di quelle econome che diventano padrone e perdono il senso del servizio dovrebbe interpellarci tutti. È innaturale che una donna, una madre, si comporti da matrigna (nell’accezione negativa): una madre sempre preferisce la vita dei figli; se così non è bisogna aver cura di lei, sta soffrendo, c’è qualcosa che non va ed è qualcosa di profondo e doloroso. Qualunque sia la forma della sua vocazione, ogni donna porta in sé una chiamata originaria alla fecondità e alla cura della vita; quando questo non accade dobbiamo domandarci cosa abbia mortificato e mortifichi la sua maternità. Cosa le impedisce di far crescere le sue figlie amandole?».

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Vita in comune e celibato sono compatibili?

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Dopo gli scandali degli ultimi anni forse sarebbe meglio ripensare, e forse abolire, le comunità di persone “costrette” al celibato. O almeno stabilire dei requisiti psicologici minimi indispensabili. Un laico preoccupato   preti


Direi in modo sintetico: non si può fare un identikit di chi è “adatto”, però ci vuole senz’altro una maturità di base. Un pensiero diffuso è che sia la condizione di celibato a far fallire molte vocazioni, o addirittura a deviarle. Non è così. I due report voluti dalla Conferenza Episcopale Americana, in seguito allo scandalo degli abusi esploso negli Stati Uniti nel 2002, rilevano che in realtà l’antica pratica del celibato, risalente nella Chiesa Cattolica all’XI secolo, non ha nulla a che vedere con la corruzione sessuale che l’ha gravemente ferita, anche perché il picco degli abusi negli anni ’60-’70 e la decrescita a partire dalla fine degli anni ‘80 mostrano come essi siano indipendenti rispetto alla continuità della pratica celibataria. Tuttavia bisogna essere onesti e senza illusioni: vivere insieme non è facile, non basta la buona intenzione di vivere con altri perché questo funzioni e produca benefici. Quando manca una struttura psicologica minima o essa è molto fragile, lo stare insieme moltiplica i problemi, come una grande cassa di risonanza dove l’eco amplifica ogni suono… A riprova di quanto sto dicendo voglio condividere una delle ricerche riguardo all’efficacia dei gruppi di incontro (cf. Yalom, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo) sui cambiamenti personali: lo stare in gruppo è migliorativo sul comportamento e la personalità del singolo? 210 partecipanti a 16 gruppi esperienziali trimestrali, con leader provenienti da 10 Scuole diverse, furono confrontati a 69 soggetti non partecipanti ad alcun gruppo a cui vennero dati questionari da riempire. I risultati furono che, appena dopo il termine dell’esperienza, i primi espressero una valutazione molto positiva dei gruppi di incontro quanto a “piacevolezza”, “costruttività” e “istruttività”; già nel follow up dei 6 mesi seguenti l’entusiasmo era diminuito, ma comunque un terzo di essi (circa il 39%) continuava a percepire un cambiamento positivo moderato o addirittura considerevole, l’8% dei partecipanti invece aveva subito un disagio che si era addirittura protratto per i 6 mesi seguenti la conclusione del gruppo; infine i soggetti di controllo, valutati nelle stesse dimensioni degli altri, mostravano un cambiamento minore sia in positivo che in negativo. Dipendeva forse dalla bravura del leader? Sembrerebbe di no: sebbene il ruolo del leader ed il suo equilibrio – e non la sua scuola di provenienza – influenzino notevolmente l’andamento del gruppo (un leader troppo direttivo genera un gruppo che non riesce a sviluppare autonomia, aritmico, uno troppo liberale genera gruppi confusi), egli non aveva una efficacia diretta sull’individuo. Qual era dunque la nota distintiva rispetto al cambiamento personale e alla sua durata? Ecco il fulcro della risposta: chi aveva la capacità di attribuire significati, di integrare e trasferire in altre situazioni di vita l’esperienza vissuta. Con altro linguaggio: chi aveva capacità di “insight”. Utilizzando questa ricerca per il contesto della vita in comune potremmo dire quindi che affinché la vita insieme possa funzionare è importante il ruolo di chi funge da coach, se è previsto che ci sia, ma è soprattutto una adeguata base di maturità a fare la differenza sostanziale. Se questa manca, anche la migliore esperienza comunitaria avrà un forte impatto sul momento che però di lì a poco scolora…
Vita in comune

Vita in comune, social, famiglia: quali scenari in futuro?

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Mi rincuorano certi dati che rilevano più che una crisi, un cambiamento (meno religiosi ma più diaconi per esempio). Mi preoccupa la crisi dei religiosi in Europa, quindi in Italia. Quante scuole cattoliche stanno chiudendo l'una dopo l'altra per mancanza di vocazioni che portino avanti carismi meravigliosi? Alessandro Pernini

 

I social network non aiutano la comunità, ma incentivano l'individualismo e la propria autocelebrazione, però penso anche che possano essere usati in modo formativo ed edificante, come può essere il tuo articolo "twittato". Ho 28 anni, non sono sposata e non ho figli, ma sto vivendo il mio discernimento vocazionale, ho molti amici coetanei alcuni sposati, alcuni con figli, altri soli e dediti totalmente al lavoro o allo studio, e guardandoli con gli occhi dell'amicizia vedo tanto spaesamento, molta confusione, in pochi sanno ciò che conta veramente nella loro vita, pochi hanno una meta. Penso che oggi ci sia bisogno di puntare sulle famiglie, di sostenerle su tutti i fronti, di considerare tutti i figli come propri e di non lasciarle sole. Credo questa sia la strada per tornare ad apprezzare la vita comune, le comunità e farle essere un focolare di amore per tutti. Rosa   social  


Che siamo tutti protagonisti e non solo spettatori di un vero e proprio cambiamento antropologico è fuori di dubbio: sta mutando ad una velocità impressionante il nostro modo di costruire l’identità, di vivere la corporeità, e di stare in relazione. Pensiamo al maschile e al femminile, la diade più antica dell’umanità: dimensioni che fino a poco tempo fa nessuno avrebbe messo seriamente in discussione, oggi vengono frantumate in una varietà di sfumature e sul profilo Facebook – per ora solo su quello USA – si dispone di parole stravaganti, ben 58, per poter identificare il proprio genere di appartenenza (ma forse mentre scrivo sono già aumentate le opzioni). E se ci spostiamo sui rapporti interpersonali, chi di noi può dire che una conversazione in chat non sia spesso più appetibile di una dal vivo…? Alla domanda se tutto questo sia opera dei social network la risposta è no, peraltro i social ormai fanno parte della nostra vita, anzi si può dire che siano il pianeta del terzo millennio e non ha senso ragionare in termini di demonizzazione. Però siamo onesti: non esiste la “neutralità”, per cui l’uso dei social ha necessariamente un’incidenza nella nostra giornata, nella nostra mente. Ad esempio, più di una Responsabile di comunità mi raccontava sconfortata che al momento della ricreazione, quando cioè ci si dovrebbe incontrare volentieri per stare insieme senza impegni di lavoro, tutte scappano nella loro camera, per navigare, usare skype... Allora diciamo che:
  1. i social non hanno creato, piuttosto hanno colto uno scontento relazionale già in atto e hanno offerto delle risposte che in nessun caso vanno subite per il solo fatto che ormai così va il mondo;
  2. se c’è una domanda, vuol dire che dietro c’è un bisogno. Se si cercano nuove forme relazionali significa che quelle precedenti non funzionavano bene.
Come ne usciamo? Potremmo osare alcune considerazioni come risposte possibili:
  • aver voglia di un’identità chiara, solida e ben costruita non vuol dire tornare ad essere rigidi e fuori tempo. Il ritmo ordinato della vita consacrata o le norme che una famiglia si dà, non sono da disdegnare, anzi sono una bella sfida in questa direzione;
  • i nostri spazi familiari, proprio quelli che a volte dovrebbero essere profezia di comunione, sono segnati da rabbia e risentimenti. È più facile tagliare che ricucire: processi, come quello del perdono, sono anti-economici ma hanno una potenza straordinaria individuale e relazionale, vale la pena scoprirlo o riscoprirlo;
  • se il momento ricreativo di una realtà comunitaria non va a nessuno, forse non sono più attuali le forme proposte per stare insieme, perché magari erano state pensate in un contesto storico ben differente. Oppure: se i pasti diventano un fuggi-fuggi di genitori e figli (nessuno escluso) forse è perché a tavola non si riesce a condividere qualcosa di sé, e andando a monte, non si ha niente da dire perché in fondo non ci si sente veramente famiglia. La vita in comune reclama una umanizzazione che significa: ascolto, dialogo autentico, presenza, tenerezza…
Concludendo: le forme di vita insieme non possono auto-giustificarsi, come mi pare accadesse un tempo, quando si davano per assodate e giuste per il solo fatto di esserci; è urgente recuperare attrattiva perché, come osserva Francesco, la gente arrivi a dire: “vogliamo venire con voi!”.
Vita in comune

Le comunità religiose hanno ancora un futuro?

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Vocazioni in calo, problemi affettivi e un senso di "fatica". Nella nostra società individualistica le forme di vita comunitaria sembrano quasi anacronistiche. O no?   suore


Ricordo un giorno speciale di fine liceo: in uno di quei campi scuola organizzati per far conoscere a ragazzi e ragazze le diverse strade vocazionali, ci portarono in un monastero di clausura. Fu un’occasione folgorante per noi adolescenti qualunque: nonostante l’abito, le grate e l’ingresso buio mettessero un che di soggezione, l’incontro con delle giovani così particolari rese quel pomeriggio indimenticabile. I numerosi volti, allegri e accoglienti, tutti under trenta, provenienti da varie regioni d’Italia, facevano un forte contrasto con l’ambiente austero nel quale ci accoglievano. I miei 17-18 anni non mi permisero di fare le domande giuste per arrivare alle radici della loro scelta di vita, radicale e apparentemente sganciata dalla realtà circostante; quasi certamente ci attenemmo ad un copione banale di curiosità del tipo: «Ma tu puoi fare questo…, puoi fare quello…?». Sta di fatto che da allora mi hanno incuriosito e affascinato, per svariate ragioni, non solo quelle stra-ordinarie realtà divine-umane racchiuse spesso in case monumentali, con prati ben curati dal verde invidiabile, ritmate da campane e preghiere raffinate, ma tutte le forme di vita in comune, fatte di un'umanità eterogenea che condivide la quotidianità, con le innumerevoli fatiche che qualunque convivenza comporta, e sotto la spinta di un medesimo progetto di fede, il “carisma”. I numeri da allora sono scesi: 15/20 giovani che si trovano insieme in un percorso del genere sarebbero eccezionali oggi, almeno in Italia. Dando un’occhiata alle statistiche ufficiali dell’Annuario Pontificio 2016 che riferisce vari report numerici riguardanti la Chiesa cattolica nel mondo, ho trovato dati molto interessanti, che rappresentano uno spaccato significativo del nostro tempo. Uno sguardo generale: nel corso degli ultimi nove anni il numero dei cattolici battezzati nel mondo è cresciuto ad un ritmo superiore (14,1%) a quello della popolazione mondiale nello stesso periodo (10,8%). La presenza cattolica sale, pertanto, al 17,8% nel 2014, dal 17,3% del 2005. In termini assoluti si contano circa 1.272 milioni di cattolici nel 2014 a fronte dei 1.115 milioni del 2005. L’Europa è l’area meno dinamica in assoluto, al contrario dei due continenti emergenti di Asia e Africa. E fin qui forse niente di nuovo. Se proviamo a leggere nello specifico l’andamento delle vocazioni “particolari”, cioè quelle di impegno radicale, attivo ed esplicito nella Chiesa, inizia a delinearsi almeno il contorno di questo millennio, anche da un punto di vista geografico. Sono in aumento, a livello mondiale, (ma non in America del Nord ed in Europa dove invece sono in ribasso) i numeri del clero, cioè dei sacerdoti diocesani e religiosi, da 406.411 nel 2005 sono passati a 415.792 nel 2014, poi il numero grosso modo si stabilizza. Per essere più precisi però, i sacerdoti diocesani presentano un andamento nel complesso crescente rispetto ai sacerdoti del clero religioso che invece, a livello globale, sono piuttosto in calo. Un altro dato importante: meno sacerdoti abbandonano la loro strada; bene, si direbbe che l’attenzione formativa post-conciliare, nel discernimento e nell’accompagnamento, inizi a produrre i suoi frutti. Sono però in aumento i decessi per età avanzata, soprattutto in Europa dove l’indice di natalità è basso mentre quello di invecchiamento è elevato. Ancora un dato molto significativo: diminuiscono religiosi e suore nei tre continenti di America, Europa ed Oceania; in Africa ed in Asia, invece, l’incremento è decisamente sostenuto, intorno al 20% il primo e all’11% il secondo. In altre parole e a grandi linee, la vocazione sacerdotale diocesana ha ancora generalmente presa; sembra invece averne meno, almeno in America del Nord ed Europa, quella alla vita religiosa. Osserviamo allora che l’Europa chiaramente cessa di essere un modello di riferimento quanto a contributo demografico e vocazionale in senso stretto. Tuttavia proprio qui, e nelle regioni dove stanno venendo meno scelte di consacrazione, sta crescendo a ritmo sostenuto il numero dei diaconi permanenti, cioè di uomini sposati che coadiuvano i sacerdoti nell’azione pastorale sul territorio, e ciò «non è certamente riconducibile a motivazioni temporanee e contingenti, ma sembra esprimere nuove e differenti scelte nell’esplicazione dell’attività di diffusione della fede»; in Asia ed Africa questa vocazione invece è ancora poco conosciuta e forse meno “necessaria”. Qualche altra considerazione immediata: appare evidente che alcuni stili di vita hanno ancora appeal sull’uomo contemporaneo, altri invece ne hanno molto meno. Non sarà un caso se le vocazioni più “collettive”, cioè che richiedono il vivere insieme, non sono così numerose nei paesi del benessere materiale dove invece – scorriamo semplicemente i numeri – quelle di carattere più individuale attirano maggiormente. Mi pare inoltre, al di là delle statistiche ufficiali, che alcune forme di consacrazione laica che non richiedono necessariamente la vita comunitaria e forme più “moderne”, per quanto pur sempre di vita consacrata, di convivenza si stiano invece diversificando. Alla base di tutto, oltre alla vocazione personale che è la prima chiave di lettura, c’è probabilmente una fatica generalizzata a vivere insieme, complici i social che hanno potenziato modalità rapide e light di connessione più che di relazione, una moderna e magari giustificata intolleranza verso le strutture eccessivamente rigide, ma anche il bisogno lecito di rinnovare la vita comune che forse deve ritrovare forme più attuali e convincenti, rispetto a quelle del passato, che poi così perfette non erano. Per concludere: la condivisione di vita (religiosa e non) è una scelta controcorrente, ma ha ancora un futuro, secondo me, anzi proprio oggi rappresenta una scelta profetica.  
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