L'esperto risponde / Chiesa cattolica

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Vita in comune

Autentici in Seminario

Ho letto la sua ultima rubrica. Può spiegare come si fa concretamente a creare questi spazi di fraternità, dove far nascere il senso comunitario tra sacerdoti?

 

Seminaristi (AP Photo/Wong Maye-E)

Don Marco Vitale, la riflessione del numero scorso ha sollecitato da parte di diversi lettori alcuni approfondimenti, che cerchiamo di rendere ancora più concreti. Partiamo dal dato positivo e incoraggiante che diversi vescovi sono aperti e desiderosi di rendere sempre più efficace l’ambiente formativo del seminario, e si avvalgono di figure interne ed esterne per rendere dinamica e responsabilizzante la formazione. Sulla stessa linea oggi molti formatori e rettori hanno acquisito competenze raffinate rispetto alla dimensione umana della persona, per cui sanno cogliere eventuali fragilità, e quando occorra proporre al giovane un accompagnamento più personalizzato. Insomma non siamo all’anno zero.

Tuttavia credo che ci sia da considerare “il clima” che il giovane respira in seminario, o meglio cosa il seminario “abbia in mente” riguardo a chi è in cammino.

Torniamo alla dimensione fraterna: come Lei ha detto il seminario è una grande opportunità di gruppo, ma di fatto viene spesso vissuto come un albergo.

Tento con occhio femminile di immaginare se non potrebbero essere ripensati alcuni spazi che sono anche luoghi di crescita, ad esempio tornare alle camere condivise. So che questo oggi attiva delle paure enormi, ma un ventenne che si allena a fare i conti con un altro rispetto alle proprie abitudini e comodità, può essere conosciuto anche attraverso queste dimensioni micro-comunitarie. Altrimenti in seminario i giovani trovano più comodità di quelle che lasciano a casa, e meno fratelli di quelli che avevano in famiglia.

«Per semplificare il ragionamento, accolgo come verificata l’ipotesi che oggi i seminari offrano una proposta ecclesiale e formativa di eccellenza. Mi sembra estremamente interessante la duplice questione: quale aria respira un giovane in seminario? Cosa ha in mente il seminario sul seminarista?

Il giovane, in seminario, nella stragrande maggioranza dei casi non può che respirare l’aria che vi trova! E a volte l’aria non è oggettivamente salubre. Cosa il seminario abbia in mente sul seminarista è ancora più complesso perché è un mix tra le idee del vescovo (o dei vescovi nei casi dei seminari regionali), del rettore, del vicerettore, dei formatori, dei padri spirituali…

Sarebbero utili idee chiare ma di certo questo tempo è per la Chiesa un tempo di fragilità, di trasformazione, ma anche di potenziali risorse e tutto questo non può che rispecchiarsi nella formazione remota e permanente del clero. A solo modo di esempio, credo sia sufficiente ricordare che a distanza di quattro anni dalla pubblicazione della Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis la Chiesa italiana non ha ancora pubblicato una recezione ufficiale a livello di Chiesa nazionale, mostrando tutta la fatica dell’episcopato italiano ad indicare delle direzioni chiare e condivise.

Sull’ipotesi delle camere condivise, personalmente non sono d’accordo per diversi motivi. Innanzitutto, perché sarebbe una situazione totalmente artificiale rispetto alla prospettiva di vita del futuro prete e, a volte, anche alle abitudini di vita del giovane in famiglia. Inoltre, è essenziale aiutare il giovane che entra in seminario a comprendere che non diventa né orfano né figlio unico: quando in casa si condivide la camera da letto lo si fa con il fratello o con la sorella mentre i compagni di seminario sono altro! È importante che il seminarista venga aiutato ad avere un cuore aperto ma anche con dei confini e, lo spazio della propria camera, credo sia un buono “spazio” di esercizio quotidiano.

Sarebbe però importante che in alcune occasioni particolari, per esempio un tempo di vacanza, si proponesse ai seminaristi la possibilità di dormire in camere comuni. Questo aiuterebbe a lavorare sulla capacità di adattamento dei futuri sacerdoti.

Credo che in seminario esistano servizi concreti estremamente validi per sondare un giovane: la cucina, la pulizia degli spazi comuni, la portineria: in questi ambiti è difficile nascondersi e non suscitare reazioni davanti a comportamenti irresponsabili».

 

Mi viene in mente un altro aspetto che potrebbe allenare il giovane a costruire relazioni con altri giovani e futuri sacerdoti: attivare dei tempi per le verifiche di gruppo, e non solo per quelle a tu-per-tu col formatore. Non si tratta di un capitolo delle colpe, ma di offrire strumenti che saranno utili anche nella vita pastorale: sapersi confrontare con altri preti e non viaggiare per conto proprio come se questo bastasse alla vita di un presbitero. Non mi pare siano diffusi confronti tra sacerdoti diocesani.  

«Generalmente, in seminario esistono tre livelli di vita quotidiana: il seminarista, il gruppo (per esempio, la classe) e la comunità intera. Credo che sia estremamente utile, in una prospettiva formativa, creare legami a più livelli e a diverse sfumature.

Il seminario non deve essere il luogo e il tempo in cui fare solo mille cose, ma anche dove avere tempo per riflettere con calma e rileggere e condividere le esperienze vissute.

È importante potersi raccontare in un ambiente non giudicante, ascoltarsi reciprocamente, giungere a scelte comuni (e non sempre necessariamente condivise). I seminaristi vanno aiutati e accompagnati a vivere il passaggio dallo scegliere la cosa migliore per sé a quella migliore in sé stessa, non solo con una scelta logica ma anche con un discernimento spirituale che dovrà essere sia individuale che comunitario.

Questa attenzione dovrà poi essere coltivata ed approfondita, grazie alla formazione permanente del clero, negli anni successivi all’ordinazione presbiterale».

 

Infine, mi pare che un altro rischio grande che lei introduce possa essere «il bravo seminarista», che sa cosa può dire e cosa non dire, e così la verità di chi sia e cosa provi interiormente rimane celata fin dopo l’ordinazione (e infatti dopo, nei primi anni di sacerdozio, a volte emergono «soprese»). Complice, talvolta, è la mancata riservatezza interna all’ambiente formativo e quindi la scarsa fiducia che il giovane costruisce verso chi lo accompagna, «e sei poi lo racconta al Rettore?». È vitale, penso, favorire l’autenticità del dono di sé, senza omologarlo secondo un modello che il seminarista apprende e al quale si adegua. Come in famiglia, una delle qualità più belle di un gruppo di crescita è lo spazio per essere se stessi, per poter esprimere ciò che si vive: paure, gioie, fatiche, debolezze, cadute, senza sconti («questo è meglio che non lo dico») né timori, per poi poterci lavorare. Senza questa opportunità preziosa tutto il processo vocazionale rimane falsato e non aiuta certo a formare un prete vero e autentico, ma solo una specie di figura artificiale.

«Concordo. Personalmente ritengo che i giovani in formazione tendano ad essere estremamente compiacenti nei confronti dei loro superiori/formatori. Per limitare questa tendenza è necessario che ci siano dei formatori che siano uomini innanzitutto «risolti» sotto questo aspetto e particolarmente attenti a non sponsorizzare un modello di bravo seminarista.

Non possiamo negare che esistano due questioni di fondo:

  • Rapporto tra foro esterno ed interno in seminario. In questo percorso formativo, a differenza, della formazione nella vita religiosa, sono due ambiti nettamente separati. Questa scelta offre delle garanzie indiscutibili al candidato ma a, volte, ampi margini di rischio all’Istituzione, la quale non può accedere (giustamente) al «privato del giovane» che rimane del tutto riservato e lì il seminarista magari condivide aspetti di sé cruciali o comunque molto significativi, che invece il formatore non conosce. È dunque estremamente importante il discernimento del seminario. Forse, formatori che sappiano accogliere e non giudicare troppo rapidamente facilitano l’apertura sincera dei giovani.
  • Il ruolo del prete. Fino a qualche decennio fa si tendeva a formare un leader capace di gestire parrocchie con una moltitudine di bambini, giovani e adulti e un’infinita di attività. Con tutti i limiti di questa impostazione è innegabile che questo schema funzionava. Ora chi vogliamo che sia il prete? E chi possiamo permetterci che sia? Le due domande, da porsi contemporaneamente, mettono in crisi e dunque rischiamo di creare futuri preti completamente “estranei” a ciò che andranno a vivere».

 

Alla fine di questa intervista in due puntate con don Marco Vitale (che nella diocesi di Roma collabora nell’equipe della formazione permanente del clero, in particolare nell’accompagnamento umano e spirituale dei sacerdoti), raccolgo ciò su cui abbiamo riflettuto, a rapidi cenni:

  • La fraternità, anzi il fare fraternità, non arriva spontaneamente: gli anni di seminario possono preparare i preti ad acquisire questa attitudine al confronto, alla «intervisione», altrimenti non è pensabile che la improvvisino una volta fuori dalla struttura. Ad oggi ci sono ancora margini di miglioramento nelle realtà formative.
  • I formatori devono avere predisposizioni naturali di ascolto ed empatia, ma anche un’adeguata preparazione. È altissimo il rischio che formatori «irrisolti» o che non abbiano lavorato abbastanza su se stessi colludano con le dinamiche personali dei giovani, ad esempio quella della compiacenza per cui il seminarista coglie molto bene ciò che fa piacere al formatore e ci si adegua! Attenzione, da parte di chi accompagna, anche ad un ascolto non giudicante senza il quale il giovane falsa o abbellisce la narrazione di sé, e dice (o non dice) quello che l’adulto (non) vuol sentirsi dire.
  • La dimensione spirituale che don Marco richiama ci rimanda ad una scelta che è dentro una logica di fede prima che umana (semmai le due dimensioni si potessero separare), per cui, per quanto sembri scontato, è fondamentale non perdere di vista che la dimensione vocazionale, di chiamata di Dio, ha un primato su tutta la riflessione possibile e doverosa sui processi umani attraverso cui la vocazione si incarna.
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Vita in comune

Quando la comunità delude

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«[…] non può essere l’incompetenza umana (cioè i difficili rapporti con i responsabili o con alcuni fratelli e sorelle) a svuotare di significato una realtà carismatica. Mi dispiace liquidare in poche parole un tema interessante, che magari può essere l’inizio di un successivo approfondimento». Mi riferisco a questa sua interessantissima risposta, che avrei desiderato continuare a leggere in un suo “successivo approfondimento”. La mia domanda è questa: se le motivazioni di fede ci sono tuttora, insieme alla certezza che Dio mi voglia lì... ma questo non corrisponde alla mia felicità perché la situazione esterna a me (comunitaria) si è spezzata in qualcosa, certamente prendendo delle strade che “Dio non vuole” e che non cambieranno almeno nel breve periodo... la soluzione quale è? Resistere fino alla morte? E gli anni passano inesorabilmente? E che dire se io posso provare a resistere, ma mi si spezza il cuore vedendo chi è più giovane di me che non ce la fa, soccombe, e viene “accompagnato all’uscita” senza discernimento, ma per motivi di infima natura? Grazie di cuore! Una consacrata


Intanto grazie per aver ripreso l’argomento, provo ad offrirle qualche riflessione, ovviamente non conoscendo nello specifico ciò di cui lei parla. L’autenticità vocazionale, lo dico dal punto di vista psicologico che attiene alla mia competenza, credo sia data da una corrispondenza tra: - l’intuizione di fede, che mi fa vedere “quello specifico luogo” come lo spazio in cui i miei desideri umani e spirituali possano trovare compimento, - la bellezza del carisma scelto, - la modalità di vivere la vita comunitaria. Intendo dire che, come anche avviene nella coppia, all’emozione iniziale che l’altro possa essere la persona giusta deve poi seguire la scoperta che abbiamo gusti simili o che si completano serenamente. Sarebbe contraddittorio credere che quell’uomo/quella donna sia il partner giusto per me, ma non troviamo nessun piacere comune. In fondo è anche la concretezza del quotidiano a fare di due persone una coppia armoniosa. Credo che lo stesso valga per la scelta vocazionale e l’andamento di vita comunitaria: ci deve essere una corrispondenza spontanea, su cui poi si costruisce la storia insieme. Non può essere tutta una lotta. È chiaro, però, che nel corso della vita noi stessi e gli altri intorno a noi cambiamo, come cambia ed evolve ogni gruppo comunitario. Stare bene insieme richiede di saper stare al passo altrui, come l’altro starà al mio, perché non c’è nulla di fisso ed inamovibile nell’essere umano, e questo è parte della sua unicità. Certo i cambiamenti non vanno passivamente subiti, il confronto quotidiano aiuta a dialogare per decidere cosa fare, se sia necessario riorganizzare la giornata, cambiare gli incarichi… questo può riguardare, ad esempio, in famiglia l’arrivo di un figlio, la perdita del lavoro di uno dei due, il sopraggiungere di una malattia e, in comunità, la riduzione numerica, l’arrivo di giovani che portano nuove sfide, nuove espressioni culturali, la nomina di un superiore/una superiore che non mi piace, l’inizio di un apostolato diverso da quelli vissuti fino a quel momento. L’amore è scegliersi all’inizio e poi cercare di trovare il passo per rimanere insieme “rinegoziando” e rimodulando continuamente come procedere. Può succedere che non sempre condividiamo le decisioni o le evoluzioni dell’altro, degli altri, magari preferiremmo talvolta “com’era all’inizio”, eppure la maturità e la solidità personale e vocazionale stanno proprio qui: nella flessibilità rispetto a una vita imprevedibile e dalle molteplici sfaccettature. E nella fiducia che Dio parli proprio nelle dinamiche giornaliere del vivere in comune, con tutte le sue fragilità e i possibili errori. Voglio precisare che per capire quale è la volontà di Dio su una persona o su una comunità, la garanzia assoluta non è il numero di quanti (alcuni o tutta la comunità) la pensano in un certo modo, e per decisioni così delicate non basta neanche l’opinione del superiore da solo (al quale comunque si deve obbedienza fino al limite della propria coscienza), mentre invece lo è lo scambio, il discutere, il cercare insieme, con fatica, nuovi percorsi, e tutto ciò che è necessario per continuare a procedere senza spaccature. Penso che in ciò si misuri la tenuta di una coppia, di una famiglia, di un gruppo comunitario. Per risponderle nel concreto: senza dubbio la coscienza individuale rimane lo spazio insondabile e insindacabile dove ciascuno vive il proprio rapporto esclusivo con Dio e da cui poi prendono origine le decisioni personali. Questo vuol dire che la scelta sul rimanere o meno deve trovare fondamento qui. Non può essere motivata solo dalla delusione per le scelte del gruppo. Un ultimo accenno (ne parleremo meglio un’altra volta) vorrei farlo alla possibilità, che c’è sempre, di consigliarsi con un sacerdote o una persona competente esterna alla comunità. Coraggio, non molli.
Vita in comune

Le ragioni dell’io e la spiritualità del noi

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«La sua ultima rubrica mi ha fatto venire in mente una costatazione maturata nei miei anni di formatore: l’ambiente culturale che si respira oggi, anche all’interno della Chiesa è di una grande valutazione della persona umana, del rispetto della sua libertà, della necessità di essere accolti, ascoltati, in un sincero rapporto umano e cristiano. Il tutto è buono ed anche evangelico, tuttavia nel vivere all’interno della vita consacrata, questa preminenza della persona umana può prendere il posto alla preminenza della persona di Gesù che è il centro, il criterio, il modello, la causa, e la meta di ogni consacrazione. E così non di rado si trovano religiosi che perdono di mira il fatto che i loro voti sono un forma concreta di vivere la vita di Gesù, con le sue motivazioni, con il suo modo di vedere il mondo, i fratelli, i rapporti umani. […] I voti allora si possono vivere all’interno di un orizzonte immanente in continuo confronto con le esigenze e le ragioni dell’io che afferma i suoi diritti. Mentre si dovrebbe vivere la consacrazione nell’infinito spazio di un orizzonte trascendente che si riceve come dono dello Spirito e si può spiegare come una partecipazione-esistenziale nel rapporto d’amore filiale di Cristo con suo Padre! […]. Credo che chi riceve questo dono, non si fermerà tanto a valutare la capacità umana del proprio superiore, la bellezza o meno delle persone che vivono la stessa vita comune, la “logica” delle indicazioni del superiore. […] I piccoli saranno grandi... beati i perseguitati... perdersi per ritrovarsi... morire per avere vita» (p. Hernán)   «Seguo sempre con interesse la vostra rivista. Di questo servizio ringrazio molto. Mi permetto di unirmi al coro di chi chiede, per ricevere luce. Come educarsi al “noi”? Ben sapendo che nella Vita - e nella Vita Consacrata - spesso si pensa che ciò avvenga in automatico, perché si cresce... e si matura. A me così non pare. Quale il cammino interiore che rende capaci di autentico amore oblativo, di autentico ascolto dei veri bisogni dell’altro/a?» (una claustrale)


Rispondo a padre Hernán: grazie per aver voluto condividere le sue riflessioni. Sono profondamente d’accordo: oggi c’è un clima transumanista, che mette al centro la persona umana, cercando di potenziarne la bellezza, le prestazioni, la stessa durata della vita, ed eliminare qualunque aspetto indesiderabile, ma si ferma lì, senza riuscire ad aprirsi ad orizzonti di senso che vadano oltre. Senza apertura al Trascendente, nell’illusione che l’uomo possa fare di tutto senza limiti. La vita consacrata, il vivere insieme secondo un Ideale, potrebbe essere la testimonianza più autentica e credibile che invece la vita può avere altre prospettive. Che non è tutta questione di successo, di efficienza, di marketing. Credo, tuttavia, che per molto tempo le realtà carismatiche abbiano dimenticato “pezzi di umanità”, nel senso che la persona che iniziava un percorso vocazionale veniva considerata automaticamente immune da difficoltà, fragilità, desideri, bisogni anche sani. Oggi c’è quindi una sorta di “rivendicazione” di quello che è stato trascurato in passato, lecita, ma che rischia quello che Lei ha ben espresso: ridurre le scelte di fede a logiche aziendali. Aggiungo un’altra considerazione: superare la logica umana significa anche non trascurarla, perciò negli ultimi tempi la Chiesa sta prestando particolare attenzione nell’accogliere e far proseguire i giovani e meno giovani che entrano in seminario o nella vita in comune, come anche nell’affidare compiti di responsabilità e di formazione. La maturità umana è imprescindibile, soprattutto per scelte di vita che non avvengono solo nell’intimità personale ma che hanno significativi risvolti relazionali. È un delicatissimo equilibrio, mai completamente raggiunto, di umanità e trascendenza, capacità e fede. Non si può eliminare per nessuna ragione uno dei due termini.   Rispondo alla claustrale: ringrazio anche Lei dell’interesse e della domanda che fa eco alla precedente riflessione. Le rispondo purtroppo brevemente, ma stimolata dalle sue parole. Non c’è nulla di automatico nei processi umani, che necessariamente devono essere sostenuti e accompagnati, a partire dalle motivazioni iniziali. Non è mai troppo l’impegno che la vita consacrata impiega e impiegherà nel valutare se le motivazioni per scegliere e rimanere nel vivere insieme siano sufficientemente solide, e se veramente corrispondono alla felicità della persona. Uno dei grandi ostacoli al benessere delle comunità è la frustrazione presente in alcuni dei suoi membri. Bastano pochi, anzi solo uno, a complicare la pace di tutti. Il “noi”, oggi in particolare, non è per nulla semplice, sia perché in passato se ne è abusato a discapito del singolo, sia perché la nostra cultura esalta il narcisismo individuale. Proprio recentemente il papa andando a Loppiano ha parlato della «spiritualità del noi», non solo in senso strettamente spirituale, ma come «realtà concreta con formidabili conseguenze» anti-egoistiche. Dal punto di vista psicologico può aiutare molto, perciò, favorire la scelta di membri che siano veramente felici di essere dove sono, e poi impegnarsi – sforzo richiesto anche alle famiglie – per riscaldare la vita comunitaria, non solo trascorrendo del tempo insieme (dimensione affettiva che da sola è insufficiente), ma anche per trovare obiettivi carismatici condivisi, cioè per alimentare quello che è il fondamento di una scelta carismatica.
Vita in comune

Ho messo la mia vita nelle mani di incapaci

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Ho letto la sua rubrica dove si parla giustamente di discernimento comunitario. Ma se uno, dopo anni che ci prova, ha ormai deciso che ha messo la propria vita nelle mani di incapaci, forse è meglio che se ne vada. Che altro potrebbe fare?


Anche ai tempi di Gesù si è posta una questione simile: il vangelo di Giovanni ci racconta che ad un certo momento «molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui» (Gv 6, 66), forse delusi da aspettative tradite e da parole che suonavano per nulla piacevoli. Al punto che Gesù si mette a provocare anche i più vicini a lui: «Forse anche voi volete andarvene?» (6, 67). Insomma, nei contesti di fede ci sono sempre situazioni umane che possono sembrare un ostacolo alla crescita, perché non si comprendono o appaiono (e magari talvolta lo sono) stupide, e questo per un’intelligenza viva e sana è inaccettabile.   C’è un però. Il grande salto di scelte che non si fermano sul piano orizzontale. Cerco di spiegarmi: non sto dicendo che vadano assecondate, in nome di una presunta e mal compresa “obbedienza”, pratiche o consuetudini che oggi hanno perso di significato, né che debbano essere accettate, senza spirito critico, scelte comunitarie o dei responsabili. Tra l’altro ormai non mi pare che nella vita religiosa ci sia più nulla di inamovibile e assolutamente insindacabile, neppure negli ambienti femminili, storicamente più portati a sopprimere il conflitto e cercare soluzioni pacifiche, anche quando scomode o non condivise. Invece ho modo di constatare molta reattività nei giovani e meno giovani, nuovi spazi di dialogo che forse non sono ancora sufficienti, ma che danno modo ai membri di un’organizzazione a movente ideale di avere scambi e fare proposte, che non di rado si traducono poco per volta in cambiamenti concreti. Si stanno facendo, insomma, grandi sforzi per superare mentalità fuori tempo, riflettere sui cambiamenti antropologici in corso e aprirsi a una nuova comprensione della missione. Dunque c’è un fermento nuovo e la disponibilità ad un ripensamento, i cui segni sono già visibili.   Credo, tuttavia, che una comunità o un movimento carismatico non siano “un’azienda” con un sindacato che protegge i diritti dei lavoratori, e che procede con assunzioni, licenziamenti e dimissioni. La logica è umana, ma anche meta-umana. La vocazione a far parte di quel gruppo è individuale, la vocazione è personalissima, ma ci si mette insieme perché si crede che da soli quella intuizione non riuscirebbe a realizzarsi. Inoltre non ci si chiama da soli. La chiamata si riceve, si accoglie, si compie. Senza miracolismi o “divinismi”, ma il punto di partenza è senza dubbio oltre la persona umana. Non è un dettaglio. Se le dinamiche fossero le stesse di qualunque altro consesso umano, si perderebbe l’originalità e l’unicità della vocazione religiosa, che infatti non può essere ridotta dentro le leggi “del gruppo” dove il più capace e il più efficiente svolge il ruolo del leader, né in quelle della famiglia naturale, con padri/madri e figli. Questa è una delle ragioni, infatti, per cui la “terapia di gruppo” nella comunità è distruttiva, come possono testimoniare diverse (ed ingenue) realtà di vita in comune che negli anni passati, in totale buona fede, ne hanno fatto esperienza. Le motivazioni per entrare e rimanere in una realtà carismatica, come quelle per uscirne, hanno una forza, un alimento, più profondo e più ampio di quelle che animano una selezione del personale o il perseguimento di un obiettivo aziendale. Tutto ha un senso diverso, umano e trascendente insieme: la leadership, i rapporti fraterni, la presenza di un anziano. Perfino il conflitto e la sua risoluzione seguono una “politica” speciale. Altrimenti la comunità sarebbe una tra le molteplici forme di associazionismo. La sua vitalità trascendente si perderebbe. Il mondo, noi, ne abbiamo invece un grande bisogno.   Per concludere: se non si trovano più motivazioni di fede per andare avantila convinzione profonda che Dio mi voglia lì e che questo corrisponde alla mia felicità –, allora vengono a mancare gli unici veri presupposti che danno senso ad una scelta vocazionale. Meglio andarsene in questo caso. Mentre invece non può essere l’incompetenza umana (cioè i difficili rapporti con i responsabili o con alcuni fratelli e sorelle) a svuotare di significato una realtà carismatica. Mi dispiace liquidare in poche parole un tema interessante, che magari può essere l’inizio di un successivo approfondimento.
Vita in comune

Posso decidere da solo, anche se vivo in comunità?

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Ci viene detto spesso che è importante “formare il cuore” e la coscienza per diventare sempre più responsabili della nostra vocazione, ma di fatto mi sembra che la persona che fa parte di una comunità religiosa non abbia poi molta autonomia di decisione. Un consacrato


Quanto è delicato l’argomento! Poco tempo fa leggevo una riflessione molto intensa di Luigino Bruni sulla chiamata di Samuele e sulla presenza di Eli che lo aiuta a riconoscere la provenienza di quella voce. È uno scenario psicologico, non solo di fede, che, come un quadro ricco di dettagli, richiede di sostare ad osservarlo con un po’ di calma, senza fretta. Eli non ha poteri speciali, è un essere umano che ha bisogno «di tre “chiamate” per riconoscere la natura della voce. Forse, conoscendo molto bene Samuele, aveva riconosciuto i sintomi della sua chiamata profetica già nel primo risveglio, ma ha voluto attendere» (da: Meraviglioso mestiere è vivere). Sulla scena tra Dio e la persona chiamata c’è dunque un terzo indispensabile, perché da solo il giovane Samuele non ce l’avrebbe fatta. Questo è l’aspetto più immediato che salta all’occhio. Vorrei provare, ora, ad allargare lo scenario con alcune questioni concrete: se sia proprio necessario il confronto tra la persona e il/la formatore/formatrice o responsabile, e fino a quando. Quale sia il peso del parere o della decisione di un formatore, di un superiore, o della stessa comunità, rispetto all’autonomia personale. Se poi la persona e chi l’accompagna hanno pareri diversi, tutto diventa ancora più difficile. Questo vale sia per le questioni ordinarie, sia per la grande domanda che riguarda la scelta esistenziale. Ho incontrato giovani determinati a proseguire nel percorso vocazionale, convinti di essere sulla strada giusta mentre invece la comunità, attraverso i formatori, aveva valutato diversamente quel percorso. Può accadere dunque che il giovane o la giovane insiste di sentirsi bene e di essere contento/a, ma chi accompagna da fuori non è dello stesso parere. Succede anche il contrario: la persona ha molti dubbi sulla propria vita, ma riceve invece conferme di essere nella giusta direzione. «Pochissime manipolazioni, più o meno in buona fede, sono più devastanti di quelle vocazionali» (ib.). Non credo esista una soluzione univoca, tuttavia, riprendendo l’osservazione iniziale sull’«autonomia di decisione», condivido alcune convinzioni maturate attraverso l’esperienza. Innanzitutto è vero che le realtà comunitarie, soprattutto quelle femminili, non sempre hanno sostenuto il divenire adulti dei consacrati e l’assunzione di responsabilità personali. La famiglia sana, invece, favorisce e incoraggia la crescita dei propri membri. Tuttavia è vero anche un altro aspetto: la scelta di una vita insieme significa che parte integrante della vocazione diventa la comunità. Non che “io” scompaio nel “noi”, ma senza dubbio quel noi ha un valore molto significativo, entra nell’esistenza della persona, come sua parte, e diventa per lei un criterio fondamentale di valutazione. In qualunque momento della vita, quindi non solo nelle prime tappe formative, la comunità di appartenenza rimane un interlocutore fondamentale, pur con i suoi tempi ed i suoi limiti. Procedere da soli significa in qualche modo tradire la scelta di vivere in comunità. C’è da considerare anche un altro aspetto, che riguarda chi accompagna i percorsi di formazione o chi è responsabile di una realtà di vita in comune. Non sono compiti che può sostenere chiunque, nel senso che occorre una formazione personale che non si può improvvisare, né lasciare semplicemente al buon senso. Diversi consacrati, ormai anziani, raccontano di aver fatto i formatori o i superiori grazie al loro “buon carattere”, ma senza alcuna competenza specifica. Dunque, per concludere: il pericolo di fanatismi e totalitarismi per cui il gruppo lascia ad un stadio infantile chi ne fa parte, o lo assorbe completamente, è reale. Sarebbe un peccato, però, anche voler decidere da soli, rendendo solo formale una vocazione comunitaria che, come ho già detto spesso, è la grande profezia del nostro millennio, così solitario.
Vita in comune

Il posto del dolore

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Vorrei capire come distinguere la sofferenza legata al sacrificio, che qualunque vocazione richiede, da quella che invece può segnalare di non essere nel contesto giusto. Oggi si sfugge a qualunque impegno, ma “fin dove” Dio può chiedere la rinuncia a se stessi? Un consacrato


È profondo e delicato l’interrogativo. Lei ha ragione, sia dal punto di vista psicologico che della fede: il limite e la fatica fanno parte del cammino di crescita dell’essere umano. Un bellissimo studio di André Godin rilegge la vicenda di Saulo di Tarso, mettendo in evidenza come l’autenticità della sua vocazione sta nel totale stravolgimento di vita. Era un uomo colto, già profondamente credente e retto, che seguiva Dio, difendendolo però con violenza. A un certo punto succede qualcosa: Saulo scopre che quel Dio non era come lo aveva immaginato, non era forte e vendicatore, bensì si identificava totalmente con i poveri, gli ultimi, i perseguitati. Deve essere stato sconvolgente! La caduta da cavallo, tramandata dalla tradizione, è l’immagine metaforica di un processo stra-ordinario di cambiamento dei propri orizzonti, verso altri fino a quel momento del tutto sconosciuti. Saulo diventa perfino cieco, come a dire che perde la capacità di controllo e gestione della sua vita. Non si potevano trovare immagini più vivide per rappresentare la fatica di Saulo, ora Paolo, il quale non solo scopre che l’Altro ha un volto diverso da quello che finora si era figurato, ma dovrà anche ingegnarsi a trovare nuove strade per corrispondergli. Si può dire, allora, che la vocazione religiosa da una parte è in linea col desiderio profondo del cuore umano, dall’altra però apre spazi nuovi e questo non avviene in modo “indolore”. Come potrebbe, del resto, un aggressore diventare “spontaneamente” apostolo dell’unità, senza alcuna resistenza interiore? Qui mi sembra il punto nodale della domanda posta all’inizio. Immagino, infatti, che Paolo ogni giorno avrà dovuto rinnovare la propria adesione a Colui che da poco aveva ri-conosciuto, ma immagino pure che questa lotta non abbia significato per lui la fatica immane di ricominciare ogni giorno e ogni momento da zero, perché una vita del genere sarebbe insopportabile. Dunque una vocazione autentica non è una continua salita. Paolo sente che quel Dio-uno-con i piccoli è degno di credibilità e questo gli dà energia, volontà, senso totale di vita. Paolo è più felice del vecchio Saulo di Tarso e si spende senza misura per essere come Colui che ha messo al centro della propria esistenza, vivendo secondo l’intuizione ricevuta. Credo che questi siano i segni di una vocazione autentica: espande l’umanità, non la rattrappisce, non rende la persona più cupa e meno generosa. Ciò non ha nulla a che vedere con il carattere, più aperto o più riservato, né con le difficoltà, maggiori o minori, che ciascuno affronta a causa dei propri tratti personali e della propria storia. Ha piuttosto a che vedere con il senso di appartenenza: fare mia quella realtà scelta, e darmi tutta ad essa. Come è stato per Paolo. Quali sono i segni concreti per capire che l’appartenenza non si è sviluppata? Chi è sempre molto critico rispetto al proprio ambiente di vita, o ha un umore fuori partitura, perché raramente riesce a sintonizzarsi con l’atmosfera emotiva del gruppo, o chi conteggia il dare e il ricevere. Queste persone forse non sono ancora “cadute da cavallo”, e ciò non ha nulla di moralistico, né di patologico. Non si tratta di diventare esaltati rispetto alla propria vocazione, né degli iperattivi (anche Saulo lo era), ma di sentire una corrispondenza – “attiva” la chiama Godin – tra i desideri personali e quelli della realtà scelta. Perciò il soffrire non è necessariamente indice di vocazione realizzata – vedo tante persone che stanno male, convintissime (sbagliando) che il dolore sia proprio il segno della volontà di Dio. Allo stesso tempo, la fatica che si impiega quotidianamente non è indice di una vocazione imperfetta. C’è un altro segno, a mio parere significativo, per leggere una vocazione e il suo essere autentica: il discernimento comunitario. Ma ne parleremo un’altra volta.
Vita in comune

Soli insieme?

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Sono preoccupato per l’isolamento che viviamo nella mia comunità: ciascuno si occupa delle proprie cose, con relazioni minime con i fratelli, mentre verso l’esterno c’è un’attività frenetica. È come una specie di doppia personalità: estremamente sociale, simpatica e disponibile ad extra, ma alquanto ermetica ad intra, forse perché le persone non si sentono valorizzate. Un formatore


Fino a qualche anno fa queste parole potevano riferirsi, con certezza, soprattutto alle realtà maschili. Oggi invece non si può dire la stessa cosa: anche molte realtà femminili soffrono nel vedere le loro giovani e meno giovani chiudersi nelle proprie stanze, non appena possono. Qui, davanti a cellulare e computer si apre un mondo, anche bello: si naviga tra notizie di attualità, scambio di chat, Skype con la propria famiglia o con gli amici. Insomma, dentro la propria stanza c’è un intero mondo relazionale, invisibile a chi sta intorno, ma reale. Oppure ci si dedica appassionatamente ad attività apostoliche, solo che mentre fuori la persona è una sorta di eroe multitasking, dentro il proprio ambiente si spegne. Pare ci sia una forza centrifuga che allontana i membri delle comunità dai propri focolari domestici. Che succede? A domanda rilancio un’altra domanda: la vita comunitaria è ancora attraente per i suoi membri? Talvolta ho l’impressione che il modo di pregare, il modo di stare insieme, perfino il modo di svagarsi non corrisponda ai desideri e alle esigenze dei suoi membri. Consacrati e consacrate possono vivere secondo uno stile che non piace proprio a loro stessi, il che è piuttosto paradossale. Alessandro d’Avenia, ricordando l’esperienza di Ulisse, mosso dal desiderio e dalla passione di tornare ad Itaca, per sé e per i suoi compagni, aggiunge che però «prima bisogna aver reso la pietrosa Itaca il luogo più bello per cui lottare […] Ma dov’è finita Itaca?». Per accendere la passione per la propria “terra” occorre ripensare a come renderla ospitale per chi vi abita. Penso soprattutto al rapporto (spesso indefinibile) che lega i membri tra loro: relazioni a volte adolescenziali, cioè fatte di affetti appiccicosi e limitanti, relazioni altre volte formali, più che fraterne, che non sanno di molto e non possono certo animare la vita di comunità, né rappresentare una forza di attrazione reciproca. Non è raro che un seminarista o una consacrata dicano di sentirsi più valorizzati in parrocchia che in comunità. Eppure Itaca è tale «proprio grazie ai legami che la rendano Itaca». Allora c’è qualcosa che non torna: ci si conosce poco, tempo ed energie scarseggiano, forse si dà per scontato che una stessa vocazione renda automaticamente il vivere insieme una fraternità, invece non è così. C’è però un altro aspetto che mi sembra di cogliere oggi: le comunità spesso sono vissute come luoghi di passaggio, o trampolino di lancio per i percorsi individuali, come se la vita in comune non avesse un senso in se stessa. Molti “soffrono” la vita comunitaria perché non è abbastanza attenta alla persona, a “me”, e per questo cercano spazi esterni di realizzazione di sé. Allora c’è da riflettere su cosa ci si attenda dalla vita comunitaria, cosa la vita comunitaria voglia dare ai suoi membri, e viceversa. È come se l’aspetto del vivere insieme non fosse parte integrante della vocazione, ma un dettaglio eventuale, che deve comunque sottomettersi alle esigenze di ciascuno. I gruppi a movente ideale soffrono molto oggi un indebolimento del loro aspetto comunitario, forse proprio come reazione ad un passato dove invece il gruppo era una sorta di “mito”, a discapito dell’individuo. Mi pare sia questa la grande sfida della vita in comune nel nostro tempo, lo dico da laica che la osserva ammirata: tornare a credere di più in se stessa grazie ai suoi testimoni appassionati ed autentici, che insieme ad altri fratelli e sorelle – non amici, né sposi/e, né commilitoni – desiderano vivere il carisma scelto e, perché no?, che hanno anche il coraggio di ripensare se la propria terra si possa migliorare, rendendo Itaca meno pietrosa.
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