L'esperto risponde / Società

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Vita in comune

Le ferite del passato

Nell’accompagnare i giovani faccio un’esperienza che non sempre riesco a gestire al meglio: mi rendo conto che il ragazzo si porta dietro tutta la sua storia familiare che poi fa “pagare” a quelli che gli stanno intorno, a me in particolare perché rappresento l’autorità. Un formatore

Non posso farci nulla: quando vedo la responsabile di comunità, mi assale letteralmente l’immagine imperiosa e invadente di mia madre che voleva imporre la propria autorità e non c’era verso di farle cambiare idea. Rimango così mal disposta che non so cosa farci. Questa sensazione poi compromette la mia relazione con lei. Una consacrata

Avete ragione, e quello che dite è normale. Pensate che le ricerche di padre Luigi Rulla, gesuita fondatore dell’Istituto di Psicologia in Gregoriana nel 1971, insieme ai suoi collaboratori, hanno riscontrato che circa il 70% dei giovani consacrati o seminaristi durante i primi 4 anni di formazione, quando entra in rapporto con le figure di autorità o con i compagni, rivive inconsapevolmente le relazioni significative avute nell’infanzia, soprattutto con i genitori.

Questo vuol dire che la persona adulta tende a riproporre ciò che ha vissuto nell’ambiente di origine, come se quel “clima” fosse ancora presente, o come se si stesse ancora confrontando con la madre o con il padre. Razionalmente sa che non è così, ma emotivamente mette in campo le stesse dinamiche relazionali.

 

Nulla di strano quindi, e, credo, nulla di nuovo. Le esperienze dei primi anni di vita, positive e rassicuranti, mi rendono tendenzialmente fiducioso verso gli altri, ma quelle meno accoglienti tendono a rendermi diffidente e meno disponibile nei rapporti. Le cose poi si complicano ulteriormente, perché le relazioni successive possono aiutarmi a riscrivere la mia storia in meglio o in peggio: ad esempio, inizio a fare sport e l’allenatore riesce a valorizzare i miei talenti. Da lì si mette in moto una nuova riflessione: «Forse non sono così male, e anche io posso farcela». Possono, però, anche rafforzare le mie insicurezze: incontro un’insegnante che, come mio padre o come mia madre, non mi fa sentire compresa e mi rimprovera quando penso di non meritarlo.

 

Parlando con una consacrata peruviana che ha vissuto in diverse comunità fuori dalla sua terra, mi racconta quanto dirompente sia stato l’inizio vocazionale: non solo ha dovuto imparare a “riconoscere” la propria storia familiare, ma ha dovuto prestare attenzione a ciò che si portava dietro della sua cultura di origine.

Le chiedo, allora, di spiegarmi meglio: «Tutte abbiamo creduto ad una chiamata e abbiamo lasciato la nostra terra, la famiglia, e i genitori per Dio, eppure star bene tra noi non è per niente scontato, né così “naturale” come avrei pensato… c’è chi è abituato, secondo la propria cultura o come faceva in casa, ad esprimersi apertamente a parole, e chi, invece, è abituato a comunicare in altri modi. Una parla e pensa di essere stata capita dall’altra, e poi scopre che invece non è così. L’appartenere a culture diverse incide molto nella comunicazione. Questo si vede perfino quando si sta a tavola insieme. Ciascuna, perciò, in qualche modo, deve confrontarsi con la storia e la cultura da cui proviene, e non solo negli anni iniziali».

E aggiunge: «Anche le prime esperienze fatte con quella determinata responsabile di comunità segnano il nostro andare avanti nel percorso vocazionale, se l’esperienza è stata bella, c’è stato dialogo e ci siamo comprese, si va avanti con fiducia. Ma se c’è stata fatica, allora si procede con la paura che si possano vivere ancora esperienze simili e l’autorità inizia ad essere guardata con diffidenza. Bisognerà poi riuscire ad aprirsi nuovamente con la responsabile successiva, ma la cosa non è facile».

 

Come affrontare tutto questo perché il vivere insieme non diventi caos o continuo conflitto? Approfondiremo in altri numeri l’aspetto dell’interculturalità, anche perché è particolarmente attuale.

Riprendendo, qui, le due riflessioni iniziali e volendo cercare dei percorsi possibili, credo che si debba partire proprio dai dati di realtà: imparare a riconoscere emozioni, reazioni e fantasie che ciascuno di noi vive nel confronto con l’altro e con l’autorità (è soprattutto questa che fa venir fuori le nostre dinamiche “storiche”, e spesso ferite genitore-figlio).

Mi rendo conto che faccio fatica con la mia responsabile, o col mio rettore. Allora mi devo chiedere:

  • Dal mio punto di vista, cosa c’è che non va? Cosa mi irrita o mi mette ansia dell’altro? Ciò che ha detto, ciò che ha fatto, il suo timbro di voce?
  • Quale è la mia parte di responsabilità nella difficoltà che vivo?
  • È lei/lui che si rivolge a me in modo giudicante, oppure è anche la mia sensibilità che amplifica quello che mi viene detto, facendomi sentire spesso in colpa?
  • Ho già vissuto esperienze simili? Quando, e con chi?
  • Mi è capitato di sentirmi così solamente con i superiori, o anche con consorelle/confratelli?
  • Trovo difficoltà quando mi confronto con culture diverse dalla mia, o le mie fatiche sono trasversali perché è soprattutto il ruolo, oppure alcuni contesti specifici, a creare in me tensione?

Sono domande che possono accompagnare e stimolare il processo di conoscenza personale e del proprio passato, per chiarirlo e affrontarlo in modo diverso.

Il vivere insieme ad altri favorisce senza dubbio il venir fuori di tutto un mondo che ci portiamo dentro senza che lo conosciamo. Lo stesso avviene all’interno della coppia: la propria storia torna a galla nel condividere il tempo a-due.

 

Perciò in comunità, tra due fidanzati, o tra due sposi, è fondamentale dialogare, dialogare e ancora dialogare. Quando ci sono dubbi, chiarire cosa volevo dire e cosa mi pare che l’altro abbia capito può sbloccare situazioni di tensione esplicita o latente. Cosa mi suscita il modo di parlare e di rivolgersi a me del mio formatore, della mia consorella, o del mio partner, evita il rischio che alcune relazioni rimangano congelate da paure e sospetti.

A volte un terzo può favorire questo chiarimento. Il confronto con una persona di fiducia (formatore o direttore spirituale o terapeuta) può aprire prospettive nuove, che magari in due rimangono schiacciate sulle convinzioni di ciascuno.

Non è questo, comunque, il punto finale. I valori di riferimento e, in particolare, la scelta di vivere secondo un Ideale rappresentano la motivazione principale per questo sforzo continuo, perché, sono convinta, non si tratta solo di un impegno iniziale nei processi vocazionali.

Infatti – e sento di volerlo dire anche se la mia è una prospettiva psicologica –, ciò che può dare senso all’uscita dai propri schemi familiari e culturali è proprio l’incontro con l’altro, che per me non è né casuale né semplicemente “aggiuntivo”. Se stiamo guardando nella stessa direzione, io e l’altro, in coppia o in comunità, non mi interessa capire chi ha ragione e chi ha torto, se la mia storia è più sana o più ferita della tua. Questi sono solo punti di partenza. Mi sta a cuore, invece, costruire qualcosa insieme ed è questo che mi motiva a conoscere da dove vengo, ma anche ad andare oltre.

È una possibilità che abbiamo sempre, qualunque sia stata la nostra storia e per quanto profonde possano essere state le nostre ferite.

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Vita in comune

Vita in comune e celibato sono compatibili?

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Dopo gli scandali degli ultimi anni forse sarebbe meglio ripensare, e forse abolire, le comunità di persone “costrette” al celibato. O almeno stabilire dei requisiti psicologici minimi indispensabili. Un laico preoccupato   preti


Direi in modo sintetico: non si può fare un identikit di chi è “adatto”, però ci vuole senz’altro una maturità di base. Un pensiero diffuso è che sia la condizione di celibato a far fallire molte vocazioni, o addirittura a deviarle. Non è così. I due report voluti dalla Conferenza Episcopale Americana, in seguito allo scandalo degli abusi esploso negli Stati Uniti nel 2002, rilevano che in realtà l’antica pratica del celibato, risalente nella Chiesa Cattolica all’XI secolo, non ha nulla a che vedere con la corruzione sessuale che l’ha gravemente ferita, anche perché il picco degli abusi negli anni ’60-’70 e la decrescita a partire dalla fine degli anni ‘80 mostrano come essi siano indipendenti rispetto alla continuità della pratica celibataria. Tuttavia bisogna essere onesti e senza illusioni: vivere insieme non è facile, non basta la buona intenzione di vivere con altri perché questo funzioni e produca benefici. Quando manca una struttura psicologica minima o essa è molto fragile, lo stare insieme moltiplica i problemi, come una grande cassa di risonanza dove l’eco amplifica ogni suono… A riprova di quanto sto dicendo voglio condividere una delle ricerche riguardo all’efficacia dei gruppi di incontro (cf. Yalom, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo) sui cambiamenti personali: lo stare in gruppo è migliorativo sul comportamento e la personalità del singolo? 210 partecipanti a 16 gruppi esperienziali trimestrali, con leader provenienti da 10 Scuole diverse, furono confrontati a 69 soggetti non partecipanti ad alcun gruppo a cui vennero dati questionari da riempire. I risultati furono che, appena dopo il termine dell’esperienza, i primi espressero una valutazione molto positiva dei gruppi di incontro quanto a “piacevolezza”, “costruttività” e “istruttività”; già nel follow up dei 6 mesi seguenti l’entusiasmo era diminuito, ma comunque un terzo di essi (circa il 39%) continuava a percepire un cambiamento positivo moderato o addirittura considerevole, l’8% dei partecipanti invece aveva subito un disagio che si era addirittura protratto per i 6 mesi seguenti la conclusione del gruppo; infine i soggetti di controllo, valutati nelle stesse dimensioni degli altri, mostravano un cambiamento minore sia in positivo che in negativo. Dipendeva forse dalla bravura del leader? Sembrerebbe di no: sebbene il ruolo del leader ed il suo equilibrio – e non la sua scuola di provenienza – influenzino notevolmente l’andamento del gruppo (un leader troppo direttivo genera un gruppo che non riesce a sviluppare autonomia, aritmico, uno troppo liberale genera gruppi confusi), egli non aveva una efficacia diretta sull’individuo. Qual era dunque la nota distintiva rispetto al cambiamento personale e alla sua durata? Ecco il fulcro della risposta: chi aveva la capacità di attribuire significati, di integrare e trasferire in altre situazioni di vita l’esperienza vissuta. Con altro linguaggio: chi aveva capacità di “insight”. Utilizzando questa ricerca per il contesto della vita in comune potremmo dire quindi che affinché la vita insieme possa funzionare è importante il ruolo di chi funge da coach, se è previsto che ci sia, ma è soprattutto una adeguata base di maturità a fare la differenza sostanziale. Se questa manca, anche la migliore esperienza comunitaria avrà un forte impatto sul momento che però di lì a poco scolora…
Vita in comune

Vita in comune, social, famiglia: quali scenari in futuro?

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Mi rincuorano certi dati che rilevano più che una crisi, un cambiamento (meno religiosi ma più diaconi per esempio). Mi preoccupa la crisi dei religiosi in Europa, quindi in Italia. Quante scuole cattoliche stanno chiudendo l'una dopo l'altra per mancanza di vocazioni che portino avanti carismi meravigliosi? Alessandro Pernini

 

I social network non aiutano la comunità, ma incentivano l'individualismo e la propria autocelebrazione, però penso anche che possano essere usati in modo formativo ed edificante, come può essere il tuo articolo "twittato". Ho 28 anni, non sono sposata e non ho figli, ma sto vivendo il mio discernimento vocazionale, ho molti amici coetanei alcuni sposati, alcuni con figli, altri soli e dediti totalmente al lavoro o allo studio, e guardandoli con gli occhi dell'amicizia vedo tanto spaesamento, molta confusione, in pochi sanno ciò che conta veramente nella loro vita, pochi hanno una meta. Penso che oggi ci sia bisogno di puntare sulle famiglie, di sostenerle su tutti i fronti, di considerare tutti i figli come propri e di non lasciarle sole. Credo questa sia la strada per tornare ad apprezzare la vita comune, le comunità e farle essere un focolare di amore per tutti. Rosa   social  


Che siamo tutti protagonisti e non solo spettatori di un vero e proprio cambiamento antropologico è fuori di dubbio: sta mutando ad una velocità impressionante il nostro modo di costruire l’identità, di vivere la corporeità, e di stare in relazione. Pensiamo al maschile e al femminile, la diade più antica dell’umanità: dimensioni che fino a poco tempo fa nessuno avrebbe messo seriamente in discussione, oggi vengono frantumate in una varietà di sfumature e sul profilo Facebook – per ora solo su quello USA – si dispone di parole stravaganti, ben 58, per poter identificare il proprio genere di appartenenza (ma forse mentre scrivo sono già aumentate le opzioni). E se ci spostiamo sui rapporti interpersonali, chi di noi può dire che una conversazione in chat non sia spesso più appetibile di una dal vivo…? Alla domanda se tutto questo sia opera dei social network la risposta è no, peraltro i social ormai fanno parte della nostra vita, anzi si può dire che siano il pianeta del terzo millennio e non ha senso ragionare in termini di demonizzazione. Però siamo onesti: non esiste la “neutralità”, per cui l’uso dei social ha necessariamente un’incidenza nella nostra giornata, nella nostra mente. Ad esempio, più di una Responsabile di comunità mi raccontava sconfortata che al momento della ricreazione, quando cioè ci si dovrebbe incontrare volentieri per stare insieme senza impegni di lavoro, tutte scappano nella loro camera, per navigare, usare skype... Allora diciamo che:
  1. i social non hanno creato, piuttosto hanno colto uno scontento relazionale già in atto e hanno offerto delle risposte che in nessun caso vanno subite per il solo fatto che ormai così va il mondo;
  2. se c’è una domanda, vuol dire che dietro c’è un bisogno. Se si cercano nuove forme relazionali significa che quelle precedenti non funzionavano bene.
Come ne usciamo? Potremmo osare alcune considerazioni come risposte possibili:
  • aver voglia di un’identità chiara, solida e ben costruita non vuol dire tornare ad essere rigidi e fuori tempo. Il ritmo ordinato della vita consacrata o le norme che una famiglia si dà, non sono da disdegnare, anzi sono una bella sfida in questa direzione;
  • i nostri spazi familiari, proprio quelli che a volte dovrebbero essere profezia di comunione, sono segnati da rabbia e risentimenti. È più facile tagliare che ricucire: processi, come quello del perdono, sono anti-economici ma hanno una potenza straordinaria individuale e relazionale, vale la pena scoprirlo o riscoprirlo;
  • se il momento ricreativo di una realtà comunitaria non va a nessuno, forse non sono più attuali le forme proposte per stare insieme, perché magari erano state pensate in un contesto storico ben differente. Oppure: se i pasti diventano un fuggi-fuggi di genitori e figli (nessuno escluso) forse è perché a tavola non si riesce a condividere qualcosa di sé, e andando a monte, non si ha niente da dire perché in fondo non ci si sente veramente famiglia. La vita in comune reclama una umanizzazione che significa: ascolto, dialogo autentico, presenza, tenerezza…
Concludendo: le forme di vita insieme non possono auto-giustificarsi, come mi pare accadesse un tempo, quando si davano per assodate e giuste per il solo fatto di esserci; è urgente recuperare attrattiva perché, come osserva Francesco, la gente arrivi a dire: “vogliamo venire con voi!”.
Vita in comune

Le comunità religiose hanno ancora un futuro?

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Vocazioni in calo, problemi affettivi e un senso di "fatica". Nella nostra società individualistica le forme di vita comunitaria sembrano quasi anacronistiche. O no?   suore


Ricordo un giorno speciale di fine liceo: in uno di quei campi scuola organizzati per far conoscere a ragazzi e ragazze le diverse strade vocazionali, ci portarono in un monastero di clausura. Fu un’occasione folgorante per noi adolescenti qualunque: nonostante l’abito, le grate e l’ingresso buio mettessero un che di soggezione, l’incontro con delle giovani così particolari rese quel pomeriggio indimenticabile. I numerosi volti, allegri e accoglienti, tutti under trenta, provenienti da varie regioni d’Italia, facevano un forte contrasto con l’ambiente austero nel quale ci accoglievano. I miei 17-18 anni non mi permisero di fare le domande giuste per arrivare alle radici della loro scelta di vita, radicale e apparentemente sganciata dalla realtà circostante; quasi certamente ci attenemmo ad un copione banale di curiosità del tipo: «Ma tu puoi fare questo…, puoi fare quello…?». Sta di fatto che da allora mi hanno incuriosito e affascinato, per svariate ragioni, non solo quelle stra-ordinarie realtà divine-umane racchiuse spesso in case monumentali, con prati ben curati dal verde invidiabile, ritmate da campane e preghiere raffinate, ma tutte le forme di vita in comune, fatte di un'umanità eterogenea che condivide la quotidianità, con le innumerevoli fatiche che qualunque convivenza comporta, e sotto la spinta di un medesimo progetto di fede, il “carisma”. I numeri da allora sono scesi: 15/20 giovani che si trovano insieme in un percorso del genere sarebbero eccezionali oggi, almeno in Italia. Dando un’occhiata alle statistiche ufficiali dell’Annuario Pontificio 2016 che riferisce vari report numerici riguardanti la Chiesa cattolica nel mondo, ho trovato dati molto interessanti, che rappresentano uno spaccato significativo del nostro tempo. Uno sguardo generale: nel corso degli ultimi nove anni il numero dei cattolici battezzati nel mondo è cresciuto ad un ritmo superiore (14,1%) a quello della popolazione mondiale nello stesso periodo (10,8%). La presenza cattolica sale, pertanto, al 17,8% nel 2014, dal 17,3% del 2005. In termini assoluti si contano circa 1.272 milioni di cattolici nel 2014 a fronte dei 1.115 milioni del 2005. L’Europa è l’area meno dinamica in assoluto, al contrario dei due continenti emergenti di Asia e Africa. E fin qui forse niente di nuovo. Se proviamo a leggere nello specifico l’andamento delle vocazioni “particolari”, cioè quelle di impegno radicale, attivo ed esplicito nella Chiesa, inizia a delinearsi almeno il contorno di questo millennio, anche da un punto di vista geografico. Sono in aumento, a livello mondiale, (ma non in America del Nord ed in Europa dove invece sono in ribasso) i numeri del clero, cioè dei sacerdoti diocesani e religiosi, da 406.411 nel 2005 sono passati a 415.792 nel 2014, poi il numero grosso modo si stabilizza. Per essere più precisi però, i sacerdoti diocesani presentano un andamento nel complesso crescente rispetto ai sacerdoti del clero religioso che invece, a livello globale, sono piuttosto in calo. Un altro dato importante: meno sacerdoti abbandonano la loro strada; bene, si direbbe che l’attenzione formativa post-conciliare, nel discernimento e nell’accompagnamento, inizi a produrre i suoi frutti. Sono però in aumento i decessi per età avanzata, soprattutto in Europa dove l’indice di natalità è basso mentre quello di invecchiamento è elevato. Ancora un dato molto significativo: diminuiscono religiosi e suore nei tre continenti di America, Europa ed Oceania; in Africa ed in Asia, invece, l’incremento è decisamente sostenuto, intorno al 20% il primo e all’11% il secondo. In altre parole e a grandi linee, la vocazione sacerdotale diocesana ha ancora generalmente presa; sembra invece averne meno, almeno in America del Nord ed Europa, quella alla vita religiosa. Osserviamo allora che l’Europa chiaramente cessa di essere un modello di riferimento quanto a contributo demografico e vocazionale in senso stretto. Tuttavia proprio qui, e nelle regioni dove stanno venendo meno scelte di consacrazione, sta crescendo a ritmo sostenuto il numero dei diaconi permanenti, cioè di uomini sposati che coadiuvano i sacerdoti nell’azione pastorale sul territorio, e ciò «non è certamente riconducibile a motivazioni temporanee e contingenti, ma sembra esprimere nuove e differenti scelte nell’esplicazione dell’attività di diffusione della fede»; in Asia ed Africa questa vocazione invece è ancora poco conosciuta e forse meno “necessaria”. Qualche altra considerazione immediata: appare evidente che alcuni stili di vita hanno ancora appeal sull’uomo contemporaneo, altri invece ne hanno molto meno. Non sarà un caso se le vocazioni più “collettive”, cioè che richiedono il vivere insieme, non sono così numerose nei paesi del benessere materiale dove invece – scorriamo semplicemente i numeri – quelle di carattere più individuale attirano maggiormente. Mi pare inoltre, al di là delle statistiche ufficiali, che alcune forme di consacrazione laica che non richiedono necessariamente la vita comunitaria e forme più “moderne”, per quanto pur sempre di vita consacrata, di convivenza si stiano invece diversificando. Alla base di tutto, oltre alla vocazione personale che è la prima chiave di lettura, c’è probabilmente una fatica generalizzata a vivere insieme, complici i social che hanno potenziato modalità rapide e light di connessione più che di relazione, una moderna e magari giustificata intolleranza verso le strutture eccessivamente rigide, ma anche il bisogno lecito di rinnovare la vita comune che forse deve ritrovare forme più attuali e convincenti, rispetto a quelle del passato, che poi così perfette non erano. Per concludere: la condivisione di vita (religiosa e non) è una scelta controcorrente, ma ha ancora un futuro, secondo me, anzi proprio oggi rappresenta una scelta profetica.  
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