L'esperto risponde / Psicologia

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Vita in comune

Omosessualità e sacerdozio

Ho letto i precedenti numeri di questa rubrica in merito all’orientamento omosessuale in seminario o nella vita comune. Il papa ha detto che “è meglio che non entrino” persone con questo orientamento. E mi sembra che da una parte dica qualcosa di importante, ma dall’altra lasci aperta la porta ad altre possibilità o riflessioni. Lei cosa ne pensa? Un Rettore

È chiaro che qui non si offre una risposta sul piano del “sì” o “no” al percorso vocazionale delle persone con orientamento omosessuale, dato il contesto di una rubrica di psicologia e la non gestibilità di una domanda di questa portata attraverso riflessioni individuali.

Non intendo sfuggire dal condividere la mia prospettiva, vorrei farlo, però, considerando ancora due aspetti: il primo riguarda l’associazione, esplicita o implicita, per cui le persone con orientamento omosessuale sarebbero meno capaci di gestire gli impulsi sessuali. Il secondo aspetto riguarda invece l’impegno pubblico delle vocazioni alla vita consacrata e sacerdotali.

Ritengo che le considerazioni di papa Francesco in merito all’ammissione di persone con orientamento omosessuale in seminario o nella vita consacrata, sottendano entrambi questi temi. Nel colloquio a porte chiuse con i vescovi italiani, che Lei richiama, Bergoglio su questo argomento ha utilizzato l’espressione: «Attento discernimento». Aggiungendo: «Se avete anche il minimo dubbio, è meglio non farli entrare».

E nel testo intervista con Fernando Prado La forza della vocazione (Edb, 2018), di fronte alla domanda sull’omosessualità Francesco si esprime con queste parole: «È qualcosa che mi preoccupa, perché forse a un certo punto non è stato affrontato bene […] nella formazione dobbiamo curare molto la maturità umana e affettiva. Dobbiamo discernere con serietà e ascoltare anche la voce dell’esperienza che ha la Chiesa. Quando non si cura il discernimento in tutto questo, i problemi crescono. Come dicevo prima, capita che forse al momento non siano evidenti, ma si manifestano in seguito. Quella dell’omosessualità è una questione molto seria, che occorre discernere adeguatamente fin dall’inizio con i candidati, se è il caso. Dobbiamo essere esigenti. Nelle nostre società sembra addirittura che l’omosessualità sia di moda e questa mentalità, in qualche modo, influisce anche sulla vita della Chiesa».

Cosa sta continuando a ripeterci il nostro Papa? Ciò che io comprendo è che il discernimento alle vocazioni sacerdotali (e di vita consacrata) finora non è stato affrontato con la necessaria competenza, trasparenza e fermezza. Si è affrontato, ad esempio, poco o nulla, considerandolo talvolta un tema vergognoso, l’orientamento sessuale del candidato, aspetto che invece è molto importante, perché connota la persona e il suo modo di amare. Questo aspetto non può essere in nessun modo accantonato, ma neppure essere utilizzato come caratteristica unica per liquidare immediatamente la persona come “non adatta”.

«Il che significa che la persona che afferma di avere un orientamento omosessuale andrà conosciuta in quella complessità inedita di cui quel tratto è una parte, ma non il tutto, e che pure con quel tratto esprime qualcosa della propria umanità. Trascurare questo stato di cose conduce ad alcune derive, psicologiche ma pure teologiche […] E si badi bene: esprime proprio perché quel tratto “c’è”; e non, invece, “nonostante” quel tratto» (Stefano Guarinelli, in: www.avvenire.it/chiesa/pagine/abusi-nella-chiesa-3).

Ritengo, quindi, che da parte di papa Francesco, il mettere a tema l’orientamento sessuale e nello stesso tempo non chiudere in modo drastico le porte a persone con orientamento omosessuale, siano indicativi che il centro di attenzione deve essere proprio quello della maturità psico-affettiva, che va indagata su molteplici livelli e attraverso diversi aspetti.

Il punto di valutazione sull’idoneità alla vita sacerdotale e religiosa non sta nell’orientamento omosessuale come se fosse, a-priori, più a rischio di atti sessuali (non mi risulta alcun fondamento scientifico in questa presunzione), e perciò meno adatto al percorso vocazionale. Ogni adulto maturo, uomo o donna, dovrebbe, anzi, saper interporre un tempo e una riflessione tra desiderio/impulso (sessuale o di rabbia) e azione concreta. L’irresponsabilità e l’impulsività sono considerate dal già citato Manuale diagnostico di ultima generazione (DSM-5) come tratti patologici nel funzionamento della personalità umana.

Credo, allora, che questa sia e dovrebbe essere la preoccupazione dei rettori, dei superiori/delle superiore, dei formatori/delle formatrici: valutare, indagare senza fretta, anche con persone competenti nel campo della salute mentale e non solo spirituale, come “funziona” quella persona, come si comporta nel rapporto col maschile, col femminile, in casa, fuori casa, come vive e gestisce il peso – perché senza dubbio è tale – della solitudine affettivo/sessuale, perché la frustrazione dell’astinenza può degenerare in forme pericolose per sé e per gli altri.

Infatti, sempre nel discorso a porte chiuse ai pastori Cei, Bergoglio esprime la sua preoccupazione per la pratica degli atti omosessuali. Sono questi, quindi, a costituire un venir meno alla propria vocazione, e un male agli altri, ma lo sono tanto quanto gli atti sessuali tra un uomo ed una donna quando vengono compiuti da sacerdoti e consacrati.

È doveroso, quindi, e sono senza indugi d’accordo, che dove ci sia un dubbio che la persona non sia e non sarà in grado di corrispondere alle esigenze vocazionali – perché ha ferite psicologiche troppo profonde per poter essere risanate nell’ambiente del seminario o della comunità, e anche aiuti esterni risulterebbero insufficienti o richiederebbero un tempo troppo lungo di lavoro –, è bene che la persona non sia ammessa!

«Quando vi siano candidati con nevrosi e squilibri forti, difficili da poter incanalare anche con l’aiuto terapeutico, non li si deve accettare né al sacerdozio né alla vita consacrata. Bisogna aiutarli perché facciano altri percorsi, senza abbandonarli. Occorre orientarli, ma non li dobbiamo ammettere. Ricordiamo sempre che sono persone che vivranno al servizio della Chiesa, della comunità cristiana, del popolo di Dio. Non dimentichiamo questa prospettiva. Dobbiamo fare attenzione a che siano psicologicamente e affettivamente sani» (La forza della vocazione, ib.).

In passato, il sottovalutare le carenze della struttura umana o il presumere che bastassero la fede e la buona volontà a compensarle – “ci pensa il Signore, se preghi” – ha “generato” vocazioni psicopatologiche con gravi danni per se stessi e per gli altri.

Il secondo aspetto che avevo anticipato nello scorso numero è ancora papa Francesco ad esplicitarlo come parte integrante del discernimento sulla persona che vuole iniziare un percorso vocazionale: «Ricordiamo sempre che sono persone che vivranno al servizio della Chiesa, della comunità cristiana, del popolo di Dio».

Le vocazioni sacerdotali e alla vita religiosa hanno una rilevanza e una ricaduta sociale enorme.

Non sono scelte private o intimistiche, altrimenti non si farebbero professioni pubbliche quando si riceve il ministero o si emettono i voti. Celebrare l’Eucarestia, confessare, accompagnare i bambini, i giovani, stare con i poveri, gli ammalati, insegnare, rendersi disponibili ai trasferimenti, o pregare in luoghi stabili e circoscritti per il mondo… sono impegni che richiedono un notevole equilibrio personale. Il sacerdote, infatti, assume delle precise responsabilità morali, spirituali ed educative verso le persone che si confidano e si rivolgono a lui, proprio per il ruolo che ha.

Ecco perché è necessario spostare il baricentro dell’attenzione, nel discernimento iniziale e nell’accompagnamento successivo, dalla questione dell’omosessualità presa isolatamente in se stessa – ma che, come abbiamo detto, non può essere neppure sottovalutata come se fosse un aspetto qualunque – all’equilibrio generale della persona. Il sacerdote omosessuale coerente e fedele alla sua vocazione è un sacerdote ben riuscito. Sappia, però, come già dicevamo la scorsa volta, che qualora decidesse di condividere con altri, o diventasse esplicito il suo orientamento, l’accoglienza da parte dell’altro/degli altri (confratelli o fedeli) potrebbe non essere così benevola.

Concludo: l’orientamento sessuale non è un indicatore rappresentativo di tutta la persona, neppure sul piano vocazionale. Allora la valutazione rispetto al candidato omosessuale deve essere necessariamente personale, caso per caso, come per ogni candidato. Questo non riduce il valore delle norme e dell’Ideale, ma mette al centro la persona, la sua storia, il suo essere unico dal punto di vista spirituale e psicologico.

«È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano […] È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari. Nello stesso tempo occorre dire che, proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato a livello di una norma» (Papa Francesco, Amoris Laetitia, n. 304).

Aggiungo, infine, che l’essere sacerdoti o consacrati non rappresenta l’unica chance di santità o di corrispondenza al vangelo. Per cui quando la persona (o chi la accompagna) si rende conto che in quel percorso non cresce, non matura, compie sforzi quotidiani superiori alle sue capacità, ha desideri sessuali che diventano una lotta continua, allora deve accettare altre strade di realizzazione di sé. E ciò non vuol dire mandare la persona all’inferno o rifiutarla, significa aiutare innanzitutto lei a star bene e poi tutelare gli altri, oggi e domani.

Nell’ultimo numero, infine, affronterò la connessione, stavolta frequente ed esplicita, che lega indebitamente omosessualità e abusi.

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Vita in comune

Vita in comune e celibato sono compatibili?

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Dopo gli scandali degli ultimi anni forse sarebbe meglio ripensare, e forse abolire, le comunità di persone “costrette” al celibato. O almeno stabilire dei requisiti psicologici minimi indispensabili. Un laico preoccupato   preti


Direi in modo sintetico: non si può fare un identikit di chi è “adatto”, però ci vuole senz’altro una maturità di base. Un pensiero diffuso è che sia la condizione di celibato a far fallire molte vocazioni, o addirittura a deviarle. Non è così. I due report voluti dalla Conferenza Episcopale Americana, in seguito allo scandalo degli abusi esploso negli Stati Uniti nel 2002, rilevano che in realtà l’antica pratica del celibato, risalente nella Chiesa Cattolica all’XI secolo, non ha nulla a che vedere con la corruzione sessuale che l’ha gravemente ferita, anche perché il picco degli abusi negli anni ’60-’70 e la decrescita a partire dalla fine degli anni ‘80 mostrano come essi siano indipendenti rispetto alla continuità della pratica celibataria. Tuttavia bisogna essere onesti e senza illusioni: vivere insieme non è facile, non basta la buona intenzione di vivere con altri perché questo funzioni e produca benefici. Quando manca una struttura psicologica minima o essa è molto fragile, lo stare insieme moltiplica i problemi, come una grande cassa di risonanza dove l’eco amplifica ogni suono… A riprova di quanto sto dicendo voglio condividere una delle ricerche riguardo all’efficacia dei gruppi di incontro (cf. Yalom, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo) sui cambiamenti personali: lo stare in gruppo è migliorativo sul comportamento e la personalità del singolo? 210 partecipanti a 16 gruppi esperienziali trimestrali, con leader provenienti da 10 Scuole diverse, furono confrontati a 69 soggetti non partecipanti ad alcun gruppo a cui vennero dati questionari da riempire. I risultati furono che, appena dopo il termine dell’esperienza, i primi espressero una valutazione molto positiva dei gruppi di incontro quanto a “piacevolezza”, “costruttività” e “istruttività”; già nel follow up dei 6 mesi seguenti l’entusiasmo era diminuito, ma comunque un terzo di essi (circa il 39%) continuava a percepire un cambiamento positivo moderato o addirittura considerevole, l’8% dei partecipanti invece aveva subito un disagio che si era addirittura protratto per i 6 mesi seguenti la conclusione del gruppo; infine i soggetti di controllo, valutati nelle stesse dimensioni degli altri, mostravano un cambiamento minore sia in positivo che in negativo. Dipendeva forse dalla bravura del leader? Sembrerebbe di no: sebbene il ruolo del leader ed il suo equilibrio – e non la sua scuola di provenienza – influenzino notevolmente l’andamento del gruppo (un leader troppo direttivo genera un gruppo che non riesce a sviluppare autonomia, aritmico, uno troppo liberale genera gruppi confusi), egli non aveva una efficacia diretta sull’individuo. Qual era dunque la nota distintiva rispetto al cambiamento personale e alla sua durata? Ecco il fulcro della risposta: chi aveva la capacità di attribuire significati, di integrare e trasferire in altre situazioni di vita l’esperienza vissuta. Con altro linguaggio: chi aveva capacità di “insight”. Utilizzando questa ricerca per il contesto della vita in comune potremmo dire quindi che affinché la vita insieme possa funzionare è importante il ruolo di chi funge da coach, se è previsto che ci sia, ma è soprattutto una adeguata base di maturità a fare la differenza sostanziale. Se questa manca, anche la migliore esperienza comunitaria avrà un forte impatto sul momento che però di lì a poco scolora…
Vita in comune

Vita in comune, social, famiglia: quali scenari in futuro?

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Mi rincuorano certi dati che rilevano più che una crisi, un cambiamento (meno religiosi ma più diaconi per esempio). Mi preoccupa la crisi dei religiosi in Europa, quindi in Italia. Quante scuole cattoliche stanno chiudendo l'una dopo l'altra per mancanza di vocazioni che portino avanti carismi meravigliosi? Alessandro Pernini

 

I social network non aiutano la comunità, ma incentivano l'individualismo e la propria autocelebrazione, però penso anche che possano essere usati in modo formativo ed edificante, come può essere il tuo articolo "twittato". Ho 28 anni, non sono sposata e non ho figli, ma sto vivendo il mio discernimento vocazionale, ho molti amici coetanei alcuni sposati, alcuni con figli, altri soli e dediti totalmente al lavoro o allo studio, e guardandoli con gli occhi dell'amicizia vedo tanto spaesamento, molta confusione, in pochi sanno ciò che conta veramente nella loro vita, pochi hanno una meta. Penso che oggi ci sia bisogno di puntare sulle famiglie, di sostenerle su tutti i fronti, di considerare tutti i figli come propri e di non lasciarle sole. Credo questa sia la strada per tornare ad apprezzare la vita comune, le comunità e farle essere un focolare di amore per tutti. Rosa   social  


Che siamo tutti protagonisti e non solo spettatori di un vero e proprio cambiamento antropologico è fuori di dubbio: sta mutando ad una velocità impressionante il nostro modo di costruire l’identità, di vivere la corporeità, e di stare in relazione. Pensiamo al maschile e al femminile, la diade più antica dell’umanità: dimensioni che fino a poco tempo fa nessuno avrebbe messo seriamente in discussione, oggi vengono frantumate in una varietà di sfumature e sul profilo Facebook – per ora solo su quello USA – si dispone di parole stravaganti, ben 58, per poter identificare il proprio genere di appartenenza (ma forse mentre scrivo sono già aumentate le opzioni). E se ci spostiamo sui rapporti interpersonali, chi di noi può dire che una conversazione in chat non sia spesso più appetibile di una dal vivo…? Alla domanda se tutto questo sia opera dei social network la risposta è no, peraltro i social ormai fanno parte della nostra vita, anzi si può dire che siano il pianeta del terzo millennio e non ha senso ragionare in termini di demonizzazione. Però siamo onesti: non esiste la “neutralità”, per cui l’uso dei social ha necessariamente un’incidenza nella nostra giornata, nella nostra mente. Ad esempio, più di una Responsabile di comunità mi raccontava sconfortata che al momento della ricreazione, quando cioè ci si dovrebbe incontrare volentieri per stare insieme senza impegni di lavoro, tutte scappano nella loro camera, per navigare, usare skype... Allora diciamo che:
  1. i social non hanno creato, piuttosto hanno colto uno scontento relazionale già in atto e hanno offerto delle risposte che in nessun caso vanno subite per il solo fatto che ormai così va il mondo;
  2. se c’è una domanda, vuol dire che dietro c’è un bisogno. Se si cercano nuove forme relazionali significa che quelle precedenti non funzionavano bene.
Come ne usciamo? Potremmo osare alcune considerazioni come risposte possibili:
  • aver voglia di un’identità chiara, solida e ben costruita non vuol dire tornare ad essere rigidi e fuori tempo. Il ritmo ordinato della vita consacrata o le norme che una famiglia si dà, non sono da disdegnare, anzi sono una bella sfida in questa direzione;
  • i nostri spazi familiari, proprio quelli che a volte dovrebbero essere profezia di comunione, sono segnati da rabbia e risentimenti. È più facile tagliare che ricucire: processi, come quello del perdono, sono anti-economici ma hanno una potenza straordinaria individuale e relazionale, vale la pena scoprirlo o riscoprirlo;
  • se il momento ricreativo di una realtà comunitaria non va a nessuno, forse non sono più attuali le forme proposte per stare insieme, perché magari erano state pensate in un contesto storico ben differente. Oppure: se i pasti diventano un fuggi-fuggi di genitori e figli (nessuno escluso) forse è perché a tavola non si riesce a condividere qualcosa di sé, e andando a monte, non si ha niente da dire perché in fondo non ci si sente veramente famiglia. La vita in comune reclama una umanizzazione che significa: ascolto, dialogo autentico, presenza, tenerezza…
Concludendo: le forme di vita insieme non possono auto-giustificarsi, come mi pare accadesse un tempo, quando si davano per assodate e giuste per il solo fatto di esserci; è urgente recuperare attrattiva perché, come osserva Francesco, la gente arrivi a dire: “vogliamo venire con voi!”.
Vita in comune

Le comunità religiose hanno ancora un futuro?

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Vocazioni in calo, problemi affettivi e un senso di "fatica". Nella nostra società individualistica le forme di vita comunitaria sembrano quasi anacronistiche. O no?   suore


Ricordo un giorno speciale di fine liceo: in uno di quei campi scuola organizzati per far conoscere a ragazzi e ragazze le diverse strade vocazionali, ci portarono in un monastero di clausura. Fu un’occasione folgorante per noi adolescenti qualunque: nonostante l’abito, le grate e l’ingresso buio mettessero un che di soggezione, l’incontro con delle giovani così particolari rese quel pomeriggio indimenticabile. I numerosi volti, allegri e accoglienti, tutti under trenta, provenienti da varie regioni d’Italia, facevano un forte contrasto con l’ambiente austero nel quale ci accoglievano. I miei 17-18 anni non mi permisero di fare le domande giuste per arrivare alle radici della loro scelta di vita, radicale e apparentemente sganciata dalla realtà circostante; quasi certamente ci attenemmo ad un copione banale di curiosità del tipo: «Ma tu puoi fare questo…, puoi fare quello…?». Sta di fatto che da allora mi hanno incuriosito e affascinato, per svariate ragioni, non solo quelle stra-ordinarie realtà divine-umane racchiuse spesso in case monumentali, con prati ben curati dal verde invidiabile, ritmate da campane e preghiere raffinate, ma tutte le forme di vita in comune, fatte di un'umanità eterogenea che condivide la quotidianità, con le innumerevoli fatiche che qualunque convivenza comporta, e sotto la spinta di un medesimo progetto di fede, il “carisma”. I numeri da allora sono scesi: 15/20 giovani che si trovano insieme in un percorso del genere sarebbero eccezionali oggi, almeno in Italia. Dando un’occhiata alle statistiche ufficiali dell’Annuario Pontificio 2016 che riferisce vari report numerici riguardanti la Chiesa cattolica nel mondo, ho trovato dati molto interessanti, che rappresentano uno spaccato significativo del nostro tempo. Uno sguardo generale: nel corso degli ultimi nove anni il numero dei cattolici battezzati nel mondo è cresciuto ad un ritmo superiore (14,1%) a quello della popolazione mondiale nello stesso periodo (10,8%). La presenza cattolica sale, pertanto, al 17,8% nel 2014, dal 17,3% del 2005. In termini assoluti si contano circa 1.272 milioni di cattolici nel 2014 a fronte dei 1.115 milioni del 2005. L’Europa è l’area meno dinamica in assoluto, al contrario dei due continenti emergenti di Asia e Africa. E fin qui forse niente di nuovo. Se proviamo a leggere nello specifico l’andamento delle vocazioni “particolari”, cioè quelle di impegno radicale, attivo ed esplicito nella Chiesa, inizia a delinearsi almeno il contorno di questo millennio, anche da un punto di vista geografico. Sono in aumento, a livello mondiale, (ma non in America del Nord ed in Europa dove invece sono in ribasso) i numeri del clero, cioè dei sacerdoti diocesani e religiosi, da 406.411 nel 2005 sono passati a 415.792 nel 2014, poi il numero grosso modo si stabilizza. Per essere più precisi però, i sacerdoti diocesani presentano un andamento nel complesso crescente rispetto ai sacerdoti del clero religioso che invece, a livello globale, sono piuttosto in calo. Un altro dato importante: meno sacerdoti abbandonano la loro strada; bene, si direbbe che l’attenzione formativa post-conciliare, nel discernimento e nell’accompagnamento, inizi a produrre i suoi frutti. Sono però in aumento i decessi per età avanzata, soprattutto in Europa dove l’indice di natalità è basso mentre quello di invecchiamento è elevato. Ancora un dato molto significativo: diminuiscono religiosi e suore nei tre continenti di America, Europa ed Oceania; in Africa ed in Asia, invece, l’incremento è decisamente sostenuto, intorno al 20% il primo e all’11% il secondo. In altre parole e a grandi linee, la vocazione sacerdotale diocesana ha ancora generalmente presa; sembra invece averne meno, almeno in America del Nord ed Europa, quella alla vita religiosa. Osserviamo allora che l’Europa chiaramente cessa di essere un modello di riferimento quanto a contributo demografico e vocazionale in senso stretto. Tuttavia proprio qui, e nelle regioni dove stanno venendo meno scelte di consacrazione, sta crescendo a ritmo sostenuto il numero dei diaconi permanenti, cioè di uomini sposati che coadiuvano i sacerdoti nell’azione pastorale sul territorio, e ciò «non è certamente riconducibile a motivazioni temporanee e contingenti, ma sembra esprimere nuove e differenti scelte nell’esplicazione dell’attività di diffusione della fede»; in Asia ed Africa questa vocazione invece è ancora poco conosciuta e forse meno “necessaria”. Qualche altra considerazione immediata: appare evidente che alcuni stili di vita hanno ancora appeal sull’uomo contemporaneo, altri invece ne hanno molto meno. Non sarà un caso se le vocazioni più “collettive”, cioè che richiedono il vivere insieme, non sono così numerose nei paesi del benessere materiale dove invece – scorriamo semplicemente i numeri – quelle di carattere più individuale attirano maggiormente. Mi pare inoltre, al di là delle statistiche ufficiali, che alcune forme di consacrazione laica che non richiedono necessariamente la vita comunitaria e forme più “moderne”, per quanto pur sempre di vita consacrata, di convivenza si stiano invece diversificando. Alla base di tutto, oltre alla vocazione personale che è la prima chiave di lettura, c’è probabilmente una fatica generalizzata a vivere insieme, complici i social che hanno potenziato modalità rapide e light di connessione più che di relazione, una moderna e magari giustificata intolleranza verso le strutture eccessivamente rigide, ma anche il bisogno lecito di rinnovare la vita comune che forse deve ritrovare forme più attuali e convincenti, rispetto a quelle del passato, che poi così perfette non erano. Per concludere: la condivisione di vita (religiosa e non) è una scelta controcorrente, ma ha ancora un futuro, secondo me, anzi proprio oggi rappresenta una scelta profetica.  
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