L'esperto risponde / Psicologia

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Vita in comune

Interessa ancora la vita consacrata?

Una provocazione. Perché la vita consacrata non esercita più il suo appeal alle nostre latitudini? Colpa del benessere, della maggiore istruzione e di migliori condizioni di vita? Sr. Enza

 

Suore
Suore

Interessante la provocazione di sr. Enza. La raccolgo e provo a rispondere.

La diminuzione dell’appeal della vita in comune, specie quella religiosa, credo sia dovuta innanzitutto al grosso cambiamento avvenuto col Vaticano II. La Lumen Gentium infatti ha aperto una prospettiva nuovissima: la santità alla portata di tutti, e non solo di quelle vocazioni di speciale appartenenza al Signore. È come dire che la vita consacrata non è più l’unica o almeno la “migliore” strada per vivere il vangelo, religiosi e sposi acquistano la stessa dignità.

Colpo di scena quindi. Le vie si diversificano e se vivo quella che ho scelto dando tutta me stessa, l’Amore diventa possibile anche per me.

Non basta. C’è poi la questione ancora aperta dell’urgenza di un rinnovamento di forme di vita nate in altri contesti storici e sociali, e quella femminile più di quella maschile risente di antichi retaggi culturali. Alcune esperienze di vita religiosa non sembrano attraenti, perché hanno un serio bisogno di aggiornamento, con tutta la fatica che questo richiede, tenendo conto che ci sono generazioni nostalgiche dei “tempi che furono”, a fianco delle nuove che invece scalpitano (e per nuove intendo anche la fascia dei/delle 40enni), e che il processo comunque è articolato.

Prendiamo il carisma: diversi religiosi si sentono allo stretto nel dover leggere la vita e le regole date dal Fondatore/dalla Fondatrice vissuti in un altro secolo e che hanno quindi un “linguaggio” ormai superato, non solo perché la lingua si è evoluta, ma anche perché lo stile che propongono non è più attuabile. Il modo di pregare ad esempio: le pratiche devozionali, che molte Congregazioni mantengono in vita in modo massiccio, e che pure in origine avevano il loro senso, risultano oggi poco sopportabili, alla luce di tutto il rinnovamento liturgico iniziato col Concilio.

E così per altri aspetti della vita in comune, come l’obbedienza. Come incarnarla in questo terzo millennio in cui i ragazzi iniziano a respirare autonomia praticamente da quando vengono al mondo? Come formare persone adulte e responsabili della propria vocazione?

Non è più abbastanza attraente neppure per i suoi membri un’esperienza di cui non si comprendano pienamente il significato ed il valore, perché sganciata dalla realtà locale e dai bisogni dell’umanità circostante. Difficile dunque che possa contagiare altri.

Infine, e qui vado un po’ fuori dal mio campo di competenza, da credente penso che si sia pure infiacchito il senso profondo delle nostre scelte di fede, che riguardino il matrimonio, come la vita religiosa. In fondo: cosa stiamo cercando?

Sr. Enza ha ragione: il benessere e il mito della libertà hanno indebolito la nostra capacità di dono, per cui la coppia può scivolare verso forme di individualismo a due, e la vita consacrata verso forme di agio e comodità, depotenziando così la sua forza profetica.

Ferma restando quindi la necessità innegabile che le forme di vita in comune ripensino ciò che di vero e valido possa rimanere in piedi delle proprie consuetudini, e quello che invece urge cambiare, dovremmo rianimarci tutti a mettere fuoco nelle nostre strade. L’ideale deve rimanere forte, “la profezia del Regno non è negoziabile”, tuonerebbe il nostro Papa! Le scelte ibride non sanno di un bel niente.

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Spiritualità

La vocazione: una caccia al tesoro?

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Sono un “giovane adulto” in cammino all’interno di una comunità religiosa; alcuni di noi scelgono anche il sacerdozio, altri rimangono fratelli laici. Sono già da diversi anni inserito in questo percorso, ed eccomi a mettere in discussione l’orientamento della mia vocazione. Sto valutando, cioè, con chi mi accompagna, la solidità del mio desiderio missionario che significherebbe cambiare espressione carismatica. Come può immaginare, non è facile. Non è facile neppure trovare chi possa prendere in considerazione questi dubbi quando ormai la formazione iniziale sta terminando e quindi si dà per scontato che quella persona porterà a termine la decisione in linea col cammino intrapreso. Scegliere una figura esterna all’ambiente non è ben visto. Sceglierla interna all’ambiente non mi dà sicurezza di essere seguito con cuore libero, per una sorta di “conflitto di interessi”. Sto banalizzando, ma spero di avere qualche indicazione in merito. Grazie per questo originale spazio-amico. Dopo anni di insegnamento, come religiosa, vivo un desiderio fortissimo di dedicarmi alla missione. Mi è stato detto che i poveri sono intorno a me, che non occorre andare lontano…sì certo questo lo so, non sono fresca di vocazione. Quando scelsi la Congregazione dove sono ora, sinceramente non mi sono posta la domanda sul carisma specifico, erano le religiose conosciute ad ispirarmi, e non l’apostolato, solo conseguenza dell’ambiente a me caro. Sono stata molto bene fino ad oggi, non rinnego nulla e rifarei tutto, ma ora non sono più in pace. Sono ben seguita, per cui mi sento fortunata, e immagino con dolore il momento in cui dovrò prendere distanza dalle mie sorelle perché noi non abbiamo esperienze missionarie. In fondo però non è ancora camminare con Dio, come scriveva Etty Hillesum?


Molto delicato e complesso il tema sollecitato dal “giovane adulto” e dalla religiosa. Riflessioni provvidenzialmente molto simili, che sollevano il medesimo interrogativo. La mia prospettiva, lo ricordo, è da psicologa credente per cui mi muovo nello spazio delle scienze umane che mi competono, non entrando, invece, nel merito del “discernimento”. In altre parole, provo a condividere qualche pensiero che riguarda l’individuazione della propria strada di vita, tema a me caro, soprattutto quando questa venga ripensata rispetto alla decisione iniziale. Fascino e insieme consapevolezza di quanta pacatezza e libertà interiore occorrano per accompagnare la valutazione ai primi passi e quella successiva di una scelta di vita. In un interessante e gustoso articolo pubblicato di recente si esprime con chiarezza e garbo la “mitologia” che è proliferata attorno all’argomento del riconoscere la propria vocazione, quasi fosse un oggetto da riuscire a trovare decifrando le indicazioni poste e i rebus, come nella “caccia al tesoro”. Di tappa in tappa, di risoluzione in risoluzione, ecco la vocazione. Oppure, la vocazione rappresentata come una condizione sintomatologica da individuare (ce l’ho/non ce l’ho) con dei test specifici. La vocazione, in quanto processo spirituale e umano-psicologico, ha una matrice relazionale ed è una dimensione in divenire. C’è un’intuizione vaga, più o meno intensa emotivamente, e c’è un percorso fatto di scoperte, comprensioni, nuove comprensioni, soste, pause, scatti di corsa in avanti, battute d’arresto. Tutto questo viene confrontato all’interno di un rapporto, Dio-persona-Chiesa. Talvolta i formatori e le formatrici vivono come un fallimento o, peggio ancora, un cattivo investimento gli anni di studio e accompagnamento offerti, quando poi la persona si orienta altrove. È comprensibile, ma non possiamo sottovalutare la complessità e la scommessa vocazionale, che non è sotto l’assoluto controllo dell’individuo, e neppure quello dei formatori/formatrici e ancor meno dello psicologo. Il processo per comprendere la propria strada è lungo, e i tempi canonici che la Chiesa offre, sebbene orientino a non rendere infiniti gli itinerari formativi, in realtà non possono comprimere, né appiattire le storie individuali. Di fatto, lo dico da una prospettiva esperienziale e clinica, è solo nel corso del tempo, quando la persona si trova concretamente in gioco, che ella può confermare la scelta intuita o decidere di indirizzarla secondo altre dimensioni carismatiche o vocazionali. Non è raro, infatti, che lui o lei entri in “crisi” quando si immerge nel contatto col reale fraterno o di apostolato, allora Marco conosce nuovi aspetti di sé che prima non erano venuti fuori e Francesca scopre risorse di se stessa che non aveva immaginato fino a quel momento. L’età in cui questo accade è variabile. Magari succedesse solo quando i tempi formativi lo consentono! Gli anni, le energie che cambiano, motivazioni che dopo il primo decennio scricchiolano, esperienze positive o fallimenti, portano la persona in un punto di se stessa che non aveva preventivato a tavolino, nonostante tutta la buona volontà e la buona formazione. È del tutto naturale. Ma che fare quando l’incontro con la realtà profonda di sé avviene dopo il tempo della formazione iniziale? Rischiare di non arrivare mai a prendere una decisione stabile? Mettere in conto che anche dopo una scelta definitiva ci possa essere un margine di dubbio? Non credo si debba porre così la questione. Ogni scelta esistenziale, che sia onestamente tale, è desiderata in modo stabile e duraturo, non certo col beneficio del dubbio. Direi, però, che non si può pensare a una linearità di tappe, consequenziali e progressive, nell’accompagnamento personale. La storia della salvezza ci dice che c’è un itinerario, ma che le svolte sono all’ordine del giorno. La storia rimane la stessa, sebbene con mille eventi che la rimodulano. Dunque ci si impegna a dare il massimo di sé nell’oggi e con lo sguardo al domani, in modo fedele e coerente. Tuttavia non si possono scartare con leggerezza le nuove comprensioni che sopraggiungono. Queste devono pur trovare una collocazione nella vita della persona, e tale collocazione può condurla altrove rispetto al luogo di partenza. Voglio precisare: non sto supportando una prospettiva che rende precari i “sì” detti per la vita. Cerco, piuttosto, accogliendo le domande da cui siamo partiti, di allargare lo sguardo oltre risposte binarie. Se accompagnato e non lasciato all’emozione del momento – certo il tema è qui appena accennato – un riorientamento della rotta non credo che debba portare a cercare i colpevoli del cattivo discernimento. Almeno per quanto io riesca a comprendere. In questo processo risulta fondamentale l’incontro con persone libere interiormente, di preghiera, e preparate nell’accompagnamento, dentro o fuori la propria realtà di vita. Sono, però, altrettanto fondamentali:
  • l’apertura personale – ricordo che nella vocazione sono coinvolte persone adulte, fosse anche per l’età cronologica –;
  • il tempo che la persona impiega per vagliare le criticità che vive;
  • gli strumenti di cui si avvale in questo tratto della sua esistenza. Il confronto deve essere autentico e non di facciata, quando magari la decisione è già presa.
Concludo con uno spaccato reale. Un giovane inizia un itinerario in seminario. Dopo qualche anno si rende conto che c’è qualcosa che non lo fa stare bene, ma non riesce a comprendere chiaramente dove sia l’origine del malessere, nebuloso e indefinito. È proprio il suo vescovo ad aiutarlo a riorientare la strada verso un’esperienza monastica. Questo pastore non teme di perdere forza lavoro, cosa che peraltro sarebbe un cruccio condivisibile di questi tempi. Non tronca le perplessità del giovane, prende sul serio quel malessere ancora indecifrabile e gli offre un’alternativa. Non è detto che Fabio (nome di fantasia ndr) procederà nella nuova via, però l’esempio mi sembra renda bene la processualità vocazionale e che nella Chiesa ci sono figure di autorità dallo sguardo ampio e lungimirante, libere dalle smanie di possesso. Star bene nella propria vita e nella propria vocazione è davvero importante. Facilitarlo per noi e per chi affianchiamo è rendere un servizio all’essere umano, alla comunità, e alla Chiesa perché significa volere il bene del fratello e della sorella, e magari ridurre il numero degli scontenti che spesso appesantiscono l’aria delle nostre comunità di fede.
Vita in comunità

Solo sani e performanti

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La pandemia ha reso più manifeste alcune fragilità in diversi di noi, fragilità che forse già esistevano ma che ora si rendono più evidenti. Come fare per imparare ad integrare nella nostra vita personale e nella vita comunitaria le debolezze proprie e altrui? Alle volte mi sembra che come comunità ci vediamo più nel dover essere, che nel guardare la realtà della persona, tenendo conto del suo percorso e dei processi che vive in un contesto in continuo cambiamento. Ci può dire come fare a contenere situazioni di malattia psichiatrica in una comunità? E badare anche alla salute delle persone che convivono con lei? Una consacrata, responsabile di comunità


Immagino che le sue considerazioni troveranno accoglienza ed eco in moltissime situazioni comunitarie e in moltissime situazioni di vita, anche familiari. Perciò grazie. La domanda provocatoria che si potrebbe porre è se il vivere insieme, secondo le coordinate di un carisma, favorisca l’insorgere di disagi relazionali, affettivi, psichici. Ovviamente detta così, la risposta è “no”, non c’è un rapporto causa-effetto, ci mancherebbe. Tuttavia credo che l’argomento che lei introduce meriti delle riflessioni approfondite e meno spicciole di connessioni semplicistiche. Vivere insieme tra sconosciuti non è roba facile, ce lo siamo detti tante volte. Dobbiamo partire, però, da remoto. A differenza di un passato non troppo lontano, oggi c’è una grande sensibilità nell’accompagnare chi chiede di entrare in comunità, maschile o femminile. I formatori vengono sempre più preparati al loro compito, i giovani sono sostenuti attraverso colloqui all’interno, studi, talvolta percorsi specialistici in collaborazione con professionisti di fiducia. In poche parole: è meno frequente che il percorso vocazionale vada avanti in automatico, e questo è davvero significativo. Rettori e formatori/formatrici sempre più spesso sanno cogliere segni di disagio nell’uomo o nella donna che è in formazione, ad esempio cambi frequenti di umore, scarsa collaborazione, elevata conflittualità o senso critico eccessivo, relazioni non aperte. Vedono che qualcosa non va e chiedono un confronto con la propria equipe, oppure con chi collabora con la comunità. Benissimo. Tuttavia nel corso degli anni le sfide del vivere insieme e dell’apostolato possono incidere sull’equilibrio personale. Anche chi “sembrava” solido e con tante risorse può trovarsi per diverse circostanze di vita a consumare più energie di quante ne avesse a disposizione. Talvolta ha poco senso accusare uno scarso discernimento. Pensiamo, ad esempio, ad una missione che affronta Marco in cui riceve delle delusioni, ad un ambiente comunitario in cui Francesca viene inserita ma nel quale non riesce ad integrarsi, ad un incarico che Andrea assume, ma che non è adatto alle sue potenzialità. Le ragioni di un malessere non preventivato sono le più diverse, come lo sono le combinazioni degli eventi in un dato momento di vita. Può subentrare anche un lutto, una malattia fisica o psicologica che cambia profondamente l’assetto mentale di Carlo o di Marta. Ognuno di noi sfugge a delle previsioni perfette e lineari di come andrà la propria storia. E meno male. Però non possiamo terminare qui. Credo che nelle situazioni prospettate dalle considerazioni iniziali l’integrazione psico-spirituale, di cui tanto si parla, sia davvero necessaria e le domande ne fanno cenno. La delineo molto sinteticamente per punti:
  • Che la vita sia imprevedibile non vuol dire non impegnarsi il più possibile per rendere autentica la valutazione iniziale, accompagnando la persona nel suo processo di fede e risposta spirituale. E accompagnandola nel comprendere – con lei – se la strada intrapresa è quella in cui il meglio di sé verrà fuori, il cuore si espanderà al massimo e la generatività potrà attivarsi.
  • Gli anni formativi dovrebbero seguire e valutare l’apertura progressiva della persona, quanto a consapevolezza di sé, al dialogo col formatore, al servizio fraterno.
  • Anche la comunità ha una parte fondamentale: – e questo aspetto mi sta molto a cuore – come si ristruttura all’arrivo di una persona nuova, o quando si accorge di un cambiamento di un suo membro (malattia, anzianità, difficoltà…)? È in grado di ripensare se stessa per favorire al meglio quel fratello o sorella? La plasticità dell’ambiente comunitario – che non vuol dire liquidità o mettere in discussione i valori portanti, e neppure rincorrere le fantasie di ciascuno – è fondamentale. Il cammino iniziale e successivo è di entrambe le parti, la persona e il gruppo di appartenenza, e rimarrà sempre un cammino con almeno questi due interlocutori (con Dio). Si aprono, allora, scenari sempre nuovi. Se un fratello o sorella manifesta, ad esempio, un disagio psichico – e la pandemia ha amplificato effettivamente molte vulnerabilità individuali e di gruppo – la comunità circostante dovrà fermarsi a capire come far sì che lui o lei non diventi uno scarto, in quanto scomodo e disturbante. Nello stesso tempo dovrà attivare dei nuovi canali di autocomprensione e di un nuovo equilibrio da trovare per il bene di tutti. Purtroppo la situazione si complica quando la persona non riesce a prendere adeguato contatto con se stessa, e questo in genere ha radici non certo negli ultimi anni. Si invecchia come si cresce. E perfino si affronta una malattia secondo alcune coordinate in linea con la personalità: più o meno collaborativa e autoriflessiva tanto per indicarne una.
  • La comunità è una realtà innanzitutto di fede, ma anche umana. Come Lei dice molto bene: al centro non c’è la produzione di servizi, ma un’esperienza di incontro con Dio e con l’altro, attraverso la preghiera, la vita comune, l’apostolato, il lavoro.
Pertanto – e concludo – nella coppia e nel vivere comunitario il partner, il fratello, la sorella, non ci lascia mai “tranquilli”. Viviamo ogni giorno la sfida dell’accogliere e del riadattarci all’altro non sempre sano e performante, che come noi cambia nel tempo. Non è questo lo spazio per prospettare eventuali soluzioni concrete, ma qualche minimo suggerimento è la semplicità di parlare in casa del disagio che sopraggiunge più o meno inaspettato nel fratello o nella sorella. Può essere utile cambiare qualche abitudine comunitaria per contenere meglio il malessere, o forse un altro tipo di ambiente, magari meno grande e meno sfidante; magari può essere utile affidare un piccolo servizio a quel fratello/sorella. Fondamentali sono la creatività di poter inventare spazi e modalità nuovi per vivere insieme al meglio, e chiedere aiuto, anche all’esterno, quando da soli, in coppia o in comunità, non ce la facciamo. Solo insieme si possono affrontare stati di vita problematici, che comprendo anche per esperienza professionale, sono una grande palestra di pazienza, sofferenza e di crescita personale e interrelazionale.
Vita in comunità

I miei segreti

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Sono un seminarista religioso, e mi piacerebbe se nella vostra rubrica dedicata alla vocazione potesse trovare risposta il mio interrogativo sul grado di condivisione a cui noi in formazione siamo tenuti gli uni con gli altri. Se faccio un percorso esterno di psicoterapia, se esco col permesso del mio formatore per incontrare un amico, o per andare qualche giorno fuori, a volte, mi infastidisce la curiosità invadente di altri che mi chiedono dove vado, cosa faccio e come mai non ero in casa. È doveroso che io sia aperto tout court con gli altri? E un domani che termino la formazione finisce questo “obbligo” di dire proprio tutto? Non credo che sia questo il fare comunità, anche perché non con tutti ho la stessa confidenza.


In questa rubrica avevamo già toccato il tema della condivisione personale negli ambienti comunitari, ma volentieri riprendo la riflessione dalla prospettiva che lei ci offre, di cui la ringrazio. Mi sembra interessante che sotto l’interrogativo che lei pone si possa intravedere la domanda di fondo: lo spazio di vita in comune che “natura” ha? Per dire che siamo comunità cosa ci vuole? Le confesso subito che prenderò alla larga l’argomento, appunto perché mette in movimento una serie di considerazioni. Ce lo siamo detti più volte, non essendo una comitiva di persone scelte reciprocamente, la fraternità vocazionale ha dei connotati tutti suoi, che la rende qualcosa di unico, per certi versi più di una famiglia di sangue, ma “meno” legata internamente da vincoli naturali o spontanei. Dovunque peschiamo delle somiglianze, ci rendiamo conto che non sono sufficienti a rappresentare esattamente l’ambiente comunitario di un seminario, di una fraternità sacerdotale o di vita religiosa, perché c’è sempre qualcosa che sta oltre, non facilmente afferrabile. L’aprirsi agli altri mi sembra una delle questioni più delicate, che intercetta proprio l’essenza della vocazione nella sua espressione comunitaria. Come al solito ci tocca distinguere l’ideale dalla concretezza reale del vivere insieme, mantenendo viva la tensione sana e stimolante che le due dimensioni si avvicinino il più possibile. Dobbiamo essere onesti, però: investire su questa sfida del reale comunitario verso l’ideale, comporta dare del tempo, parecchio tempo alla costruzione e alla cura della comunità, perché non c’è nessun processo di qualità che sia spontaneo e rapido. Neppure se immaginassimo di selezionare un gruppo di persone, ad esempio, di grande generosità, di grande spessore spirituale, di grande intelligenza, la somma dello stare insieme funzionerebbe bene, con certezza. Sono tanti i fattori che fanno di un contesto umano e di fede un “bell’ambiente comunitario”. E sono tanti i fattori che interagiscono in modo complesso: le età diversificate dei membri, la famiglia e la cultura di provenienza, le esperienze vissute fino a quel momento (positive, deludenti, difficili, appaganti…), le attese che si nutrono rispetto alla fraternità, il diverso coinvolgimento personale, i differenti stadi di maturità individuale. Perciò, osservato da fuori, il gruppo comunitario appare davvero variegato, tanto che verrebbe da dire: ma come si sono trovati insieme tutti questi? C’è poi l’aspetto della leadership che non è affatto trascurabile: è vero che oggi sempre più spesso i responsabili di comunità, i rettori, i formatori, le formatrici sono scelti anche per la preparazione che hanno nell’accompagnamento, ma questa non è la norma. In ogni caso, di fatto può succedere che chi ha studiato per acquisire competenze, poi non funzioni bene come leader con il gruppo che gli è affidato. Anche la variabile di chi è “a capo”, quindi, ha il suo bel peso su un insieme di persone: se è troppo rigido/a e interventista o, al contrario, troppo assente e poco autorevole, se è equo/a o fa preferenze evidenti di fratelli o sorelle, se è ansioso/a o pacifico/a, se collabora o meno alla vita quotidiana… l’aria comunitaria ne risente inevitabilmente, nonostante parliamo di relazioni tra adulti e non di dinamiche genitori-figli. Tornando alla domanda iniziale, con queste premesse, l’apertura di sé, il self-disclosure per usare un’espressione più tecnica, non può essere imposta, né essere una regola preconfezionata e rigida, che vale sempre e comunque. Direi piuttosto che è un orizzonte che rimanda ad un clima accogliente, di fiducia reciproca, di stima e di rispetto, e quindi auspicabile. Ma questo clima va creato, come si diceva prima, con grande energia e pazienza. Perciò la mia apertura all’altro, fratello o sorella nella fede, che io sia in formazione o meno – dove l’altro non è necessariamente un amico, in senso stretto (che mi sono scelto e con cui ho una buona sintonia) – avverrà se le condizioni reciproche lo consentono, se abbiamo costruito un dialogo, se siamo stati capaci di incoraggiarci a vicenda, se non mi sento giudicato da lui/lei. Vale nei rapporti interpersonali e vale per la comunità in senso più ampio. Non è per nulla scontato che ci sia un’atmosfera emotiva cordiale, benevola e supportiva. Dunque, penso che non possa essere una regola che io consegni parti di me, se non ci sono le condizioni per farlo, o io non le sento tali. Talvolta qualche religioso si lamenta di essere “l’ultimo a sapere le cose delicate”, oppure una consacrata è rammaricata perché nessuno si apre con lei… È chiaro che qui stiamo riflettendo sulle relazioni tra pari, perché con i formatori/formatrici la dinamica è in parte diversa, anche perché ci sono spazi e tempi per una conoscenza più approfondita della singola persona, custodita da riservatezza. Nei rapporti fraterni, invece, l’apertura autentica di sé è una “conquista”, il segno che quei fratelli e sorelle hanno fatto un cammino insieme di conoscenza, di scambio, magari di conflitto, che li/le ha fatte crescere non nell’uniformità di pensiero o di comportamento, ma nell’accoglienza rispettosa e discreta, anche di limiti e difetti. Concludo: sarebbe bello se ciascuno in comunità avesse il desiderio e la possibilità di condividere con tutti/e ciò che appartiene alla propria intimità o alla propria sfera privata, ma questa opportunità non è un dono del cielo, né un numero del regolamento, ma il frutto di una volontà precisa di rendere “casa” lo spazio di vita fraterna. Dipende da me, ma dipende molto anche da “noi”. Tuttavia non vedrei un dramma né nella gradualità della condivisione (ci vuole tempo, per qualcuno anni), e neppure in una differenziazione di condivisione: con Marco è naturale e spontanea, mentre con Francesco o Lucia, nonostante l’impegno, forse non mi sento di dire tutto, per le più diverse ragioni. Questo non è essere “meno comunità”, ma essere una comunità carismatica sì, però umana, tollerante e comprensiva.
Chiesa

Comunità femminili e omosessualità

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Sono un religioso, e svolgo il servizio di assistente spirituale e animatore nella mia comunità. Noto che generalmente, un po’ in tutti i libri o articoli e testimonianze si parla molto della problematica relativa ai candidati alla chiamata sacerdotale o religiosa o di preti gay, ma quasi mai del versante femminile. Molte ragazze/donne vivono questa realtà ma sembra molto più difficile trovare materiale-testimonianze che aiutino a comprendere, che delineino dei percorsi anche in ambito vocazionale. La tendenza omosessuale può esistere anche nei monasteri o case religiose, ma a parte scandali di abusi sembra davvero poco considerata. Anche sul versante di pubblicazioni di psicologia/spiritualità vedo un interesse quasi esclusivo sul maschile. Fr. M.


Mi piace pensare, gentile fr. M., che il pudore che caratterizza noi donne possa essere alla base del riserbo sul tema dell’omosessualità declinata al femminile. Perciò, grazie per aver sottolineato la scarsità (direi quasi l’assenza) di letteratura sul tema. Naturalmente il pudore non è l’unica ragione. Lei ne ha individuata già un’altra, anch’essa però non esauriente: purtroppo ciò che fa rumore o danni eclatanti, e quindi crea scandalo pubblico, finisce per favorire e accelerare l’attenzione a determinati argomenti. Ad esempio, la piaga degli abusi sessuali nella Chiesa, relativi al mondo del clero e dei religiosi uomini, ha effettivamente catturato l’interesse e quindi sollecitato gli studi sul possibile collegamento dell’abuso con l’orientamento omosessuale maschile. A scanso di equivoci, anche se non c’entra con l’oggetto di oggi, questo rapporto causa-effetto non c’è. Tuttavia, nonostante la drammaticità del fenomeno che ha devastato la Chiesa cattolica (e non solo), nel riflettere sull’omosessualità femminile, vorrei allargare lo sguardo oltre la dimensione strettamente sessuale e quindi anche oltre l’unica possibile deriva delle situazioni vocazionali come “l’adulterio” fisico, e costruire gradualmente qualche considerazione più che delle risposte. Le comunità religiose sono delle realtà singolari e stravaganti per tutte le anomalie da cui sono caratterizzate, affascinanti e complesse, divine e umane, tali da attivare altrettante complessità e anomalie. Guardiamo da fuori e poi da dentro un nucleo comunitario. Persone adulte quanto ad età – qualcuna forse si conosce da anni, qualcuna si sta appena conoscendo – si trovano a coabitare in un medesimo ambiente, accomunate dalla forza di un ideale. Come scrive l’economista Luigino Bruni, «sono gli ideali, più degli interessi, a spingere avanti il mondo […] e iniziamo le avventure più sublimi e generative» (Elogio dell’autosovversione, Città Nuova 2017). Queste avventure si fanno carne, passano da un ideale solo spirituale, e legato ad un fondatore o fondatrice, a progetti comunitari, servizi di apostolato e soprattutto vita fraterna. Vivere insieme è una scommessa enorme. Non c’è niente di proprio, dalle mura domestiche ai rapporti umani, nulla di stabile o che possa essere rivendicato come possesso. Neanche la coppia, in realtà, si “possiede”, ma in famiglia la dinamica è diversa. In comunità cuore e corpo entrano in un processo di dono sempre più grande, non solo a Dio, ma anche ai fratelli e alle sorelle di casa, nonché a quelli esterni, senza che tale uscita da sé, però, passi attraverso una gestualità genitale, e senza potersi “aggrappare” ad una esclusività interpersonale che, invece, caratterizza una coppia di fidanzati o di sposi. Questo non vuol dire che ci sia meno intensità o meno intimità di scambi e di rapporti nella vita comunitaria, vuol dire, piuttosto, che c’è una prossimità speciale, un contatto profondo, ma non fisico-sessuale, fatto di fede, di condivisione di valori spesso dimenticati che invece nutrono l’affetto più vero: la stima, il rispetto, la benevolenza, la voglia di dialogare e costruire qualcosa di bello insieme, l’avere cura delle ferite e della vita dell’altro, volerne il suo bene, aiutarsi verso l’ideale. Ci si tocca, ma è un toccarsi interiore, l’abbraccio è limpido, non è bisogno di appropriarsi dell’altro. In tutto questo la donna ha una capacità tutta sua di esprimere la carica affettiva ed erotica secondo dimensioni di tenerezza, di soccorrevolezza, di ascolto, di vicinanza. È avvantaggiata rispetto all’uomo, se così si può dire, nel vivere la dimensione casta, perché «l’impulso sessuale (libido) è qualitativamente diverso nei due sessi […] le donne, infatti, di base, pensano meno al sesso e sono meno interessate al rapporto sessuale […] per quanto riguarda gli stimoli erotici, gli uomini sembrano avere una soglia più bassa delle donne […] nelle donne la libido si scatena più frequentemente se c’è un coinvolgimento emotivo, se il partner è affettuoso…» (D. Marazziti, La natura dell’amore). Cosa voglio dire? Che all’interno della vita fraterna quando l’orientamento omosessuale riguarda una donna potrebbe passare “inosservato” perché l’espressione di un’eventuale attrazione emotiva, affettiva, erotica per un altro membro di comunità o per una persona esterna generalmente passa attraverso canali vocazionalmente accettabili: cura, tenerezza, collaborazione…e raramente attraverso degli agiti sessuali-genitali. C’è un però… Il vivere insieme richiede un’armonia spirituale e psicologica da formare, allenare, continuamente sostenere. L’astensione rispetto ad una vita di coppia, infatti, necessita che emozioni, affetti, pulsioni trovino un’integrazione serena e conforme al tipo di vita scelto. L’orientamento omosessuale in un ambiente femminile, perciò, quando non è ben integrato nell’insieme della personalità, può causare interferenze enormi nell’andamento della comunità. Alleanze a due, chiuse e quindi non inclusive rispetto al resto della comunità, cambi di umore frequenti quando ci sono tensioni con quella specifica sorella verso la quale ci si sente legati, bisogno di stare sempre insieme, sono fortemente disturbanti il benessere del gruppo. Le motivazioni sottostanti possono essere diverse, certamente, ma non è da escludere che una o entrambe le donne sperimentino un’attrazione reciproca, a discapito, però, della serenità di casa su cui pesa una relazione solo apparentemente innocente, ma che alla lunga è divisiva e conflittuale per tutte. Ad oggi, tuttavia, difficilmente le donne consacrate riescono ad esplicitare l’argomento omosessualità, non se ne parla nella formazione, non se ne parla in comunità e ancor meno se ne parla riguardo a se stessi. Sembra essere meno impellente l’argomento, appunto in quanto quello che si rende visibile sembrano essere normali tensioni comunitarie. Ma guarda caso non si sciolgono, non se ne viene a capo, non si comprende cosa succeda in comunità eppure l’aria è pesante. Due donne possono innamorarsi e riuscire a gestire il sentimento senza che questo emerga in modo aperto. Non è un dramma, non è un assurdo, non è antievangelico innamorarsi, ma parlando di scelte vocazionali è richiesta una specifica capacità di gestione e integrazione delle naturali pulsioni umane. L’attenzione, allora, dovrebbe spostarsi su diversi piani:
  • favorire seriamente nella formazione femminile il poter parlare di sessualità, mettendo a tema anche l’argomento omosessualità (che ovviamente non è l’unico). Quando ci si prepara a consacrarsi a Dio si può e si dovrebbe poter parlare di tutto, senza vergogna (il pudore è un’altra cosa);
  • preparare formatrici e responsabili sui temi delicati e nucleari legati alla sessualità, motore importante della vita umana, perché si rendano capaci di conoscere se stesse prima di tutto, e poi di ascoltare e accompagnare altre con sguardo integrale e libero, non giudicante e non scandalizzato;
  • riflettere seriamente e concretamente sulle coordinate della fraternità: quale è il modello di riferimento, come sono pensati modi, spazi e tempi del vivere insieme, cosa vuol dire essere sorelle.
Concludo richiamando nei processi vocazionali la centralità della maturità spirituale e umana: non è l’omosessualità presa in se stessa, e a prescindere dal funzionamento globale della persona, a costituire “pericolo” per la vita religiosa, ma la non integrazione della dimensione affettiva, emotiva, sessuale nel processo vocazionale del dono di sé. L’omosessualità, come ho detto chiaramente in altri numeri di questa rubrica, non è irrilevante e quindi nessuna ingenuità. Tuttavia è necessaria una valutazione integrale della persona, di ogni persona, senza sganciare l’orientamento sessuale dal resto. Infine: il sacrificio della propria vita – di un partner nella coppia, di una madre verso i figli, di un consacrato nelle sfide che incontra – non significa che la persona si debba spezzare sotto il peso della fatica. Quando questo diventi eccessivo è decisamente più sano e conforme alla volontà di Dio orientarsi verso un percorso di vita diverso, dove le dimensioni profonde di sé possano trovare espressione serena e compatibile con la decisione esistenziale presa.
Spiritualità

Chiesa, divisioni interne e costruzione di ponti

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Sono un formatore di seminario. Seguo la vostra rubrica già da qualche anno. È uno spazio originale e molto utile perché è pratico, con domande e risposte. Qui, però, non pongo esattamente una domanda, direi piuttosto che propongo una riflessione alla vostra attenzione. Mi colpiscono tutte quelle vicende che nella Chiesa creano divisioni, anche all’interno della stessa famiglia religiosa. Non sono mai stato direttamente coinvolto in nessuna di queste, ma sono spaventato dai conflitti interni che mi fanno veramente paura, anche nei nostri ambienti. È così facile cadere nei “partiti”, creare alleati e nemici…proprio noi! Mi interroga anche lo spirito critico degli ultimi anni da parte di giovani e meno giovani verso il servizio dell’autorità, ma anche tra fratelli e sorelle. Qui, allora, porto la preoccupazione e insieme il desiderio di voler evitare il rumore di ambienti divisi.


Arriva con molta forza, attraverso le sue parole, la preoccupazione che ha condiviso. Un testo molto accorato il suo. Grazie. Ci sono alcuni termini da lei utilizzati che sono andati dritti a segno: partiti, nemici, rumore. Concordo che qualcosa sta accadendo nel tempo attuale. Partirei, però, da uno sguardo positivo e non per dovere stilistico, ma perché il fermento critico del nostro tempo, anche in ambito vocazionale, è segno di passione, di maggiore opportunità di esprimere il proprio pensiero – anche se non sempre ciò avviene nei modi e nei luoghi opportuni – di un nuovo spazio dato alle diverse sensibilità generazionali, culturali e spirituali. Insomma, credo che oggi la possibilità di dar voce non solo ai responsabili/alle responsabili di comunità costringa gli ambienti formativi, e vocazionali in genere, a una rilettura delle proprie consuetudini, a ripensare i momenti di scambio sull’andamento del vivere insieme, a interrogarsi se quello che si propone a parole corrisponde effettivamente alla prassi, o lo scarto è significativo. Un giovane seminarista mi racconta, ad esempio, di aver obiettato, con altri giovani, circa il modo di gestire gli incontri periodici di formazione, perché li trovavano noiosi, troppo formali, e condotti come delle innumerevoli “prediche”, per cui uno parla e tutti ascoltano (o fingono di farlo), a volte anche per delle ore. Sebbene inizialmente le loro osservazioni non siano state accolte al meglio, dopo vari scambi i formatori hanno deciso di cambiare l’assetto consueto di quei pomeriggi e di prendere sul serio le difficoltà esposte. Ancora un esempio: sempre più spesso constato la franchezza con cui le donne consacrate si rivolgono alle figure di autorità perché non trovano più proponibile lo stile tipico dell’Istituto di portare avanti l’apostolato. Nel mondo femminile questo coraggio era sicuramente molto raro fino a qualche tempo fa. Non dico nulla di nuovo. Quindi, bene. La comunità è formata da tutti adulti, seppure con ruoli diversi, e non è di proprietà di nessuno. Non ci si può più nascondere dietro il ruolo, perché facilmente qualcuno farà notare le incongruenze o l’ingiustizia se fuori dai turni di cucina rimangono sempre gli stessi… C’è un però. Convengo con lei, infatti, che tutto questo ha anche un limite. Un “io” spropositato. Intendo dire che la libertà sacrosanta di esprimersi e quindi proporre il mio pensiero, porta talvolta a perdere di vista che questo io trova senso – ancora di più per mandato vocazionale – all’interno di un contesto, la Chiesa e la comunità particolare in cui la storia di ciascuno si inserisce per scelta. Questo sì, è triste. È triste la convinzione diffusa che da soli si possa salvare una situazione, una realtà, o si possa avere la parola risolutrice. Quando ci si concentra unicamente o prevalentemente sul proprio orizzonte, pensando di cambiare la storia, è la fine della fraternità. Mi permetto di dirlo da laica che affianca e che ammira profondamente le vocazioni, quelle di speciale appartenenza, tanto per intenderci. Perché credo che i vostri spazi di vita abbiano potenzialità enormi per essere laboratori di dialogo, di linguaggi che non uccidono ma cercano di imparare la lingua dell’altro. Concordo con lei che ci scrive, quindi, che va custodita o recuperata, se si fosse persa, la capacità di costruire ponti. Ripeto, non lo dico come chi immagina in modo angelico sacerdoti e religiosi, lo dico, invece, da amica ed estimatrice. Da psicologa e da credente. Alcuni ambienti di vita, come possono essere un seminario o una comunità maschile o femminile hanno, per l’organizzazione stessa che le caratterizza, di preghiera e di vita comunitaria, di ascolto e di scambio, di apostolato e di silenzio, una marcia in più per creare dei microcosmi dove si imbastiscono ponti. Ci sono i grandi ponti quando si cerca di dialogare con confessioni diverse, ma ci sono ponti altrettanto complessi, e non meno importanti, quando si cerca di dare una mano a fare famiglia in casa propria. Non è facile per niente. Giocano un ruolo importante la maturità individuale, ma anche l’ambiente stesso, se c’è un’apertura franca tra i membri, se non vige il pensiero unico, se non ci sono troppe diseguaglianze interne, se è favorito un clima onesto e trasparente. Ci vuole un gran lavoro, perché l’attenzione è duplice, appunto: sia al cammino della persona e al suo processo di crescita, per non mandare avanti situazioni umanamente troppo fragili e conflittuali che alla lunga sono dannose per le persone stesse e per quelli intorno. Sia all’ambiente vocazionale che non alimenti ruoli, gerarchie, abusi di potere – non esistono solo le questioni sessuali – che sempre aprono il varco a ciò che lei ha ben individuato: fazioni interne, maldicenze, invidie. Qui siamo responsabili tutti: chi ha incarichi formativi, che talvolta non ha mai fatto un vero cammino di conoscenza di sé e quindi non sa mettersi in discussione, per cui è cieco rispetto ai propri limiti e soprusi. E chi sta dentro la comunità che ha perso il senso del noi. Ricordo, per concludere, un passaggio fondamentale dell’Amoris Laetitia, per dire che però non ogni tensione o divisione è distruttiva, ma può essere l’occasione di una svolta seria. «La storia di una famiglia è solcata da crisi di ogni genere, che sono anche parte della sua drammatica bellezza. Bisogna aiutare a scoprire che una crisi superata non porta ad una relazione meno intensa, ma a migliorare, a sedimentare e a maturare il vino dell’unione. Non si vive insieme per essere sempre meno felici, ma per imparare ad essere felici in modo nuovo, a partire dalle possibilità aperte da una nuova tappa […] In nessun modo bisogna rassegnarsi a una curva discendente, a un deterioramento inevitabile, a una mediocrità da sopportare» (n. 232).
Formazione

Qual è la mia strada?

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Sono un formatore e mi confronto spesso con altri che hanno un ruolo di accompagnamento, sia uomini che donne. Ci scambiamo esperienze, parliamo di alcuni giovani (non necessariamente per età) che arrivano nelle nostre realtà vocazionali e l’interrogativo forte riguarda l’aiuto che possiamo dare loro. La responsabilità è grande: siamo chiamati a camminare e capire insieme se si trovano nel posto giusto. E chi può dirlo? A volte non ci troviamo neppure d’accordo come equipe formativa, per cui rimane il grosso dilemma di mandare avanti o meno una persona su cui non concordiamo. Ma la domanda si pone anche di fronte a fratelli e sorelle già da anni nel ministero o in comunità che mettono in discussione la loro vocazione… come aiutarli, e semmai come rendere più certa possibile una valutazione? Quali indicatori ci possono segnalare che ci sono buone possibilità di riuscita vocazionale e quali invece il contrario? La domanda è molteplice e complicata, ma la pongo in accordo con altri formatori e formatrici che stanno insieme a me che scrivo.


Infatti, più che una domanda… è una domandona, ma è talmente interessante e coinvolgente che provo a esprimere qualche riflessione, assolutamente incompleta, lo dico subito. Lo stesso interrogativo mi viene posto da parte di chi è in formazione e affronta un oceano di stimoli, paure, desideri. Perciò grazie di questa opportunità. Nel mio lavoro clinico incontro storie incredibili: coppie che vivono un’esperienza talmente fallimentare da far loro credere che non si riprenderanno più. Uomini e donne che, dopo anni di sofferenza, incontrano finalmente la persona “giusta” e tornano a farmi conoscere chi ha cambiato le loro vite e restituito speranza. Affianco vocazioni che attraversano momenti durissimi, sacerdoti e consacrati felici, giovani e meno giovani che ad un certo momento del loro percorso chiedono una pausa per ripensarlo, perché sperimentano angoscia e intuiscono che qualcosa non va… Tutto ciò è straordinario, mai nulla di banale e mai due storie identiche. Straordinaria è la complessità dell’esistenza umana, e straordinaria è la fantasia di Dio che non smette di sorprendere chi pensa che le cose siano già tutte disegnate con precisione geometrica. Confesso che all’inizio della mia professione ero tra quanti dividevano il mondo e le situazioni in bianco e nero, senza sfumature intermedie. Poi la vita. Ho incontrato volti e nomi (compresa me stessa), e la teoria si è inginocchiata alla pratica, alla realtà di vissuti che escono dai libri e narrano situazioni molto più colorate di ciò che si legge come «il caso X». Mi perdoni questa ampia premessa, ma è lo sfondo su cui pongo i pensieri successivi. Sono profondamente convinta, e lo ripeto spesso, che una «vocazione» per essere tale, cioè per essere in sintonia con quelle dimensioni trascendenti che riteniamo importanti – la famosa «volontà di Dio», espressione nella quale però proprio non mi ritrovo – debba espandere la persona. L’intuizione iniziale rispetto ad un percorso di vita, seminario, comunità, fidanzato/a, non potrebbe essere vagliata altrimenti che osservando la crescita, l’evoluzione di Francesca, di Marco, di Matteo. Non entro nella dimensione spirituale, perché pur essendo credente non è la mia competenza, tuttavia anche dal punto di vista umano-psicologico qualcosa si può dire. Prendiamo l’esempio di Francesca: dopo alcuni anni di vita fraterna la rigidità iniziale che la caratterizzava e per la quale le sue sorelle scherzavano volentieri, inizia un allentamento. Lei che andava presa con le pinze perché «non si sa mai come reagisce», lei che «guai a cambiarle il programma della giornata», sembra essere più disponibile. Capiamoci: non intendo «più servizievole» nel senso dell’efficientismo tipicamente religioso – si dà un gran da fare – ma nel senso di una maggiore apertura alla vita, ai suoi imprevisti, un’attenzione meno egocentrica che inizia a spostarsi sugli altri, una flessibilità di orizzonti. La vocazione, direi, inizia allora a delinearsi nella direzione giusta. È vero che la vocazione è molto di più di questo, ma tutte le dimensioni precedenti non possono essere bypassate in nome di un astratto progetto di Dio. La pienezza umana fa saltare di gioia il Dio cristiano. C’è molto altro, però. La dimensione individuale non è a sé, e non è osservabile in modo isolato, in quanto interpella e coinvolge anche il contesto in cui si inserisce. Bisogna dirselo con coraggio e lucidità. Talvolta un desiderio vocazionale autentico, purtroppo, non trova un ambiente fecondo, ma stantio, fermo, poco propulsivo, non accogliente la novità di una persona creativa. E per aggiungere complessità, anche il nostro tempo non aiuta granché, pensiamo, ad esempio, alla vita di un sacerdote, carico di ruoli e responsabilità e quasi sempre solo. Accade, allora, che pur con le migliori intenzioni interne, la stabilità affettiva inizi a vacillare. Voglio dire che «la vocazione» è una realtà piena di sfaccettature che non può essere risolta con «hai vocazione/non ce l’hai». La immagino, piuttosto, come un processo relazionale, che richiede tempo (appunto è un processo), immensa prudenza, autenticità in chi vuol capire quale è la propria strada di vita, libertà interiore in chi accompagna per non presumere di leggere «segni» in ogni dove, e di conoscere già la rotta per quella persona. Di certo questi sono solo frammenti, magari potremmo riprendere ancora l’argomento. Ciò che vorrei comunicare è però soprattutto la necessità che un «progetto» si incarni nella storia di ciascuno, e si consideri se quella persona migliora, matura, si consolida, si apre all’amore, è serena. Questa valutazione non avviene una volta per tutte, sebbene ci sia un tempo privilegiato per tale discernimento: è necessario confrontare se stessi sull’espansione di sé ciclicamente. So che può apparire liquida una prospettiva simile, lo comprendo! Ma di fatto persone infelici rendono infelice anche l’ambiente intorno. Cosa fare, allora? Non ho una risposta, e non ce l’ha nessuno, però forse possiamo darci dei criteri da tener presenti. Credo che l’obiettivo sia, in un certo senso, dare una mano a Dio che vorrebbe ciascuno di noi ben realizzato, e non frustrato, ripiegato su di sé, aspro, e sempre inquieto. Chi accompagna un processo vocazionale, ai suoi primi passi o successivamente, dovrebbe perciò – insieme alla persona interessata – considerare la sua crescita e sostenere con lei e per lei il raggiungimento di un’armonia di vita, o il suo ritrovamento, qualora quel fratello o quella sorella l’abbia persa. Nessun canovaccio da seguire. Si chiude il manuale di istruzioni e si apre «quella» vicenda, con tutta la fatica, la complessità, ma anche la bellezza di un servizio davvero sublime, affiancare il cammino di chi cerca se stesso, e quindi Dio.
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