Elezioni, attenzione alle questioni reali e la concordia che serve al Paese

Una campagna elettorale sottotono incentrata sul voto utile per non far vincere gli avversari. Un invito a misurarsi sui contenuti concreti legati alla vita degli italiani che, nonostante tutto, mandano avanti il Paese e hanno bisogno di concordia politica. Ai leader politici che si professano cristiani è chiesto di misurare i loro programmi con le questioni sociali espresse nelle encicliche di Francesco

C’è qualcosa di surreale nella campagna elettorale che ci porterà ad elezioni domenica prossima. Le questioni messe in campo dai suoi interpreti principali i leader politici raramente si collegano alle pressanti sfide attuali. Ambiente, guerra, future generazioni, lavoro, welfare, inflazione, energia, occupano spazi marginali nel dibattito in corso.

Invece sentiamo risuonare temi triti e ritriti, a cui si sta cercando di dare una mano di vernice fresca, ma che ricordano slogan di mezzo secolo fa (“Dio, patria, famiglia”, “Fuori l’Italia dalla Nato”, “L’utero è mio e lo gestisco io”, “Salario garantito per tutti”…).

C’era da aspettarsi una campagna sottotono, in considerazione del fatto che siamo andati al voto a seguito di un pasticcio politico originato dai 5stelle. Se avessimo aspettato il termine naturale della legislatura (pochi mesi), forse avremmo potuto godere di un periodo elettorale più ordinato e meno confuso. Se si fosse agito con meno impulso, avremmo forse potuto superare alcune sfide urgentissime, sulle quali il governo ancora in carica sta lavorando, senza timori di contraccolpi istituzionali interni e internazionali. Discorsi inutili: la storia non si fa con i “se”. Accantoniamoli, dunque, per spiegare come si è arrivati fin qui, ma recuperiamoli per capire in quale direzione stiamo procedendo. Se la storia non ammette “se”, il dibattito politico, invece, si fonda su molti “se”.

Il primo “se” ha il profilo del voto utile. Esso si basa essenzialmente sulla considerazione per cui “se vince l’avversario sono guai per tutti”. Quando Letta lo propone e lo ripete, ha in mente due obiettivi: il primo è di smuovere gli indecisi, intorpiditi da una politica che pare incapace di dare risposte e anche stanchi del teatrino che è andato in scena lo scorso luglio.

Il secondo è evitare la dispersione del voto verso il terzo polo, il quale rischia di sottrargli quote di elettorato e, dunque, anche forza parlamentare. Bisogna dire che il voto utile è la condizione più bassa di qualsiasi proposta politica. Sottintende l’invito a vincere una certa repulsione nello scegliere X in considerazione del fatto che Y farebbe ancora più schifo. «Votate DC turandovi il naso», come disse Montanelli negli anni Settanta, è stato un richiamo al voto utile: pazienza il malaffare e la corruzione che assillavano la Democrazia Cristiana, ma impedire ai comunisti di andare al governo era, all’epoca, prioritario.

Oggi il voto utile è richiesto soprattutto da Letta, e da tanti che guardano all’avvento di una stagione politica di estrema destra come all’apocalisse. Non è estraneo neanche al centrodestra, che cerca di impaurire gli elettori prefigurando gli scenari della «cittadinanza facile» (sarebbe la traduzione di Salvini dello ius scholae), e dell’Italia vittima inerme delle decisioni prese a Bruxelles e a Berlino (Meloni).

Il secondo “se” è un po’ più erudito, perché implica la conoscenza della legge elettorale. “Se applichiamo la legge elettorale, allora…” fatti due calcoli, i giochi sono in gran parte già fatti. In alcuni territori stante la riduzione del numero dei parlamentari da eleggere i posti davvero in bilico sono pochi. Dunque è inutile lasciarsi distrarre da chissà quali belle aspirazioni. Ci sono obiettivi impossibili da raggiungere e conviene prenderne atto per votare con un minimo di razionalità. Un “minimo” a cui bisogna aggiungere un “deprimente”, perché chi fa una legge elettorale con un’intenzione manipolatoria vuole proprio che gli elettori si arrendano all’aritmetica della traduzione plausibile delle schede elettorali in posti in Parlamento e, dunque, votino di conseguenza.

L’ultimo “se” è quello di chi s’immagina al governo e dunque desidera che la forza politica a cui ha dato il suo consenso faccia le cose che gli stanno a cuore. Questi esercitano il diritto di voto senza lasciare che qualche calcolo opportunistico possa condizionarlo. Hanno una fiducia estesa nelle istituzioni. Sono convinti che, affinché una democrazia funzioni veramente, ci sia bisogno di un voto espresso sulla base di valori e prospettive e si danno da fare per comunicarle agli altri, attraverso la partecipazione politica e l’impegno nella vita pubblica. Votano ciò che percepiscono essere il meglio per loro e per il Paese, convinti che questo sia l’unico voto utile.

A questo punto – come sempre accade in questi casi – il terzo tipo di elettore è bollato come un idealista politicamente inefficace, a cui servirebbe un serio incontro con la realtà. Se mettete insieme un po’ di sedicenti realisti, esperti di realtà, scoprite dopo 30 secondi di dialogo con loro che ognuno ha della realtà un’idea diversa, frutto spesso delle loro aspirazioni, dei loro desideri, delle loro immaginazioni. In politica, niente è più fantasioso della realtà.

Su questo terreno periglioso meglio non avventurarsi, diamo per scontato che la contrapposizione fra il presunto idealista e il sedicente realista è una banalità. Guardiamo invece alla storia del Belpaese e cerchiamo di trarre qualche considerazione. L’Italia repubblicana è sempre stata a un passo dall’apocalisse. Non c’è stata elezione politica in cui l’obiettivo era una politica di governo differente. Sempre si è insistito sul fatto che, di qua o di là, in gioco c’era l’intero sistema civile e il destino storico del Paese. Eppure ce la siamo cavata, impiegando risorse e strategie originali: il centrismo puro del dopoguerra, lo spostamento a destra col governo Tambroni, a sinistra con la politica morotea e fanfaniana che riuscì a portare il socialista Nenni al governo, fino ai governi di unità nazionale, e poi ancora il consociativismo, la ripresa dei temi ideologici all’indomani della caduta del Muro di Berlino col berlusconismo, e ancora il moltiplicarsi delle forze antisistema di questi anni.

Al di là se si tratti o meno di una traiettoria dignitosa, dovremmo forse aver imparato che quanto accade nell’arena politica, fra i partiti, è solo una delle determinanti da cui dipende il nostro avvenire. C’è anche l’Italia che agisce dietro le quinte, sul piano della produzione economica, della solidarietà con i poveri, dell’accoglienza ai migranti, del welfare attuato all’interno delle mura domestiche…

È questa che, fra mille contraddizioni apparenti, manda puntualmente in porto la nave. Ha bisogno di sostegno politico. Primo fra tutti una certa dose di concordia che esige oggi di non avvelenare i pozzi sul campo di battaglia. Perché quando la lotta sarà finita, cioè il giorno dopo che disporremo dei risultati elettorali, bisognerà rimboccarsi le maniche e tornare a collaborare in vista dell’interesse generale.

Ho aperto questo articolo lamentando la scarsa rilevanza di questa campagna elettorale. Un’eccezione è stato l’appello che, i primi di settembre, in circostanze diverse, i cardinali Parolin e Zuppi hanno rivolto ai cattolici affinché recuperino un ruolo in politica. Una radiografia della classe politica attuale direbbe che tale appello è ingiustificato: in un modo o nell’altro tutti i leader dei principali partiti politici (dalla Meloni a Letta) si dicono cristiani. È evidente che l’appello non intendeva sondare l’identità dei protagonisti (come potrebbe?) ma suscitare una presa di posizione attorno ai temi centrali del messaggio attuale della Chiesa. Tali temi sono facilmente rintracciabili negli insegnamenti di papa Francesco. Basta sfogliare le pagine della Laudato si’ e della Fratelli tutti: ecologia integrale, nessuna cieca fiducia nel mercato, dovere di accoglienza dei migranti, visione globale basata sull’interdipendenza planetaria e sul destino comune di tutti i popoli della Terra, pericolosità dei populismi che sfociano in nazionalismi egoistici, società aperte che integrano tutti, pace come orizzonte di senso della comunità mondiale…

In quanto cristiani dovremmo forse chiedere a quei leader politici che fanno aperta professione cristiana di spiegare come i punti del loro programma si rapportino ai valori sostenuti dalla Chiesa. Sarebbe un primo modo per rispondere all’appello fatto. Altrimenti in gioco non c’è l’irrilevanza dei cattolici in politica, ma la loro strumentalizzazione.

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