In Egitto una nuova Sagunto?

La presenza dell’Isis, in ritirata in Iraq e Siria, sta crescendo nel Nord Africa. Particolarmente pensante la situazione nel Sinai. L’obiettivo di una civiltà non è vincere le guerre, ma evitarle
Aleppo

Vorrei agganciarmi all’opportuno articolo di Bruno Cantamessa “Creano un deserto e lo chiamano pace”, per completare con altri elementi il quadro della situazione in Egitto e anche più in là. Effettivamente, mentre in Siria ed Iraq l’Isis o Daesh perde territori e battaglie, migliaia di miliziani si stanno spostando in Nord Africa – e in particolare in Egitto – dove gli attacchi di questo gruppo si stanno intensificando senza che la stampa segua con attenzione il fenomeno.

L'interno della chiesa. ANSA/KHALED ELFIQI ATTENTION EDITORS: PICTURE CONTAINS GRAPHIC CONTENT
Attentato in Egitto

I due dolorosi attentati di domenica scorsa in altrettante chiese cristiane, con una cinquantina di morti e centinaia di feriti, è un ulteriore segnale di una escalation violenta in territorio egiziano e nel Nord Africa. I media spesso mi sembra commettino l’errore di non mettere in relazione tra loro fatti che indicano l’evoluzione di certi fenomeni. Tra qualche mese sembrerà che all’improvviso l’Isis abbia stabilito basi altrove, da dove attacca i suoi nemici. In effetti appare abbastanza evidente come l’Isis sia in ritirata in Iraq e Siria, dove in due anni ha perso il 40% dei territori controllati, anche se questi erano desertici e scarsamente abitati. E ciò ha provocato un riflusso di miliziani provenienti da vari Paesi del Magreb, in modo speciale tunisini (da dove proviene il contingente più numeroso), e di presenze in Marocco, Libia, Algeria e proprio nell’Egitto, ma anche più a Sud in Mali e Ciad. Localmente, le forze armate si oppongono con maggiori o minori risultati alle loro sortite. In Algeria la reazione delle forze governative è, ad esempio, più efficace. Ma ciò non toglie l’alta pericolosità di questi guerriglieri, che hanno alle loro spalle anni di allenamento alla lotta armata.

L’Egitto offre un terreno agevole per l’arrivo di combattenti islamisti, nonostante lo sforzo dell’esercito e del governo di al-Sisi, sostenuto da Washington e Israele. L’avvicinamento tra il Cairo e Damasco ha consentito di ottenere importanti informazioni in merito ai metodi per opporsi all’Isis e ai suoi membri egiziani, cosí come finora il governo siriano ha potuto offrire dati importanti in merito alla presenza di miliziani europei sul suo territorio. Un dettaglio spesso tralasciato.

Ma concentrarsi solo nello sforzo repressivo, non dà risultati accettabili. Gli attentati ultimi dimostrano in effetti che la situazione sta diventando pesante. In modo speciale nella penisola del Sinai, da dove sono sfollate centinaia di famiglie copte verso zone più sicure. Il territorio desertico, estremamente ampio e non sempre facilmente raggiungibile, oltre alla frontiera “porosa” con la Striscia di Gaza, dove esiste una collaborazione tra Isis e alcune fazioni di Hamas, sta facilitando le cose. Sono visibili sulla Rete documenti fotografici di veri e proprio check-point stabiliti dai guerriglieri alla ricerca di nemici o in vena di spillare quattrini a coloro che transitano. Si sa poi che non solo i cristiani sono un obiettivo per i guerriglieri – accusati di aver appoggiato il colpo di Stato di al-Sisi –, ma anche chiunque si opponga alle loro strampalate regole pseudoreligiose.

Negli ultimi tre anni gli attacchi sono stati in media un paio al giorno (intorno ai 700 in totale), e tra le forze armate egiziane hanno provocato un migliaio tra morti e feriti. Una dozzina appena la settimana scorsa, nel silenzio assordante dei media.

Alcuni legislatori statunitensi stanno facendo pressione sul Dipartimento di Difesa Usa perché dichiari la penisola “zona di combattimenti”, dato che ulteriori rovesci dell’Isis potrebbero far crescere la loro presenza. La rete di reclutamento e di spostamenti è attiva anche nella vicina Giordania.

Politiche centrate sulla repressione, la povertà endemica in Medio Oriente e Magreb, fonte di risentimento sociale, e la propaganda dei gruppi islamisti finanziati dalle petromonarchie del Golfo, potrebbero potenziare l’azione dei terroristi. Lo abbiamo visto in Siria ed in Iraq: il conflitto attivo, la presenza di ingenti forze armate e di una numerosa coalizione sotto la guida di Washington – che dovrebbe mantenere circondato e monitorato l’Isis –, non ha impedito che il gruppo criminale ricevesse ingenti appoggi in armi, anche sofisticate, fondi e risorse da “soci commerciali”, acquirenti del petrolio contrabbandato dai territori occupati. Per molto, molto meno, l’Iran e Cuba sono state sottomesse a un intransigente embargo.

Il che dice come siamo di fronte a un problema eminentemente politico, più che militare, i cui effetti potrebbero attraversare con maggiore frequenza le frontiere del Mediterraneo. L’Unione europea, di cui alcuni membri autorevoli hanno appoggiato sottobanco l’azione dei gruppi islamisti in chiave anti-Assad, dovrebbe prendere decisioni coerenti in merito alla pacificazione del Medio Oriente, rinunciando a limitate visioni parziali ispirate a una oscura ragion di Stato. In tal senso, si è perso tempo prezioso su questioni marginali rispetto al problema reale.

Il collega Cantamessa, nel suo articolo ha fatto appello a una celebre espressione di Tacito, tratta dal suo Agricola: «Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant» (creano un deserto e lo chiamano pace). Vale la pena richiamare anche la celebre espressione di Tito Livio, che ammetteva che mentre a Roma si discuteva, Sagunto veniva espugnata. L’obiettivo di una civiltà non è quello di vincere le guerre, ma di evitarle.

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