Ebrei e cristiani: 50 anni di dialogo

Il documento conciliare Nostra Aetate ha spalancato le porte al rapporto tra Chiesa cattolica e fedeli di altre religioni. «L’ebraismo è qualcosa di assolutamente speciale per i cristiani». I recenti documenti, del vaticano e dei 25 rabbini, sono chiavi di lettura sia del cammino di avvicinamento degli ultimi decenni che del futuro di cooperazione
Ebrei ortodossi

«Quando ebrei e cristiani, attraverso un’assistenza umanitaria concreta, apportano insieme il loro contributo alla giustizia ed alla pace nel mondo, offrono testimonianza dell’amorevole premura di Dio. Non più in discordante contrapposizione, ma cooperando a fianco gli uni degli altri, ebrei e cristiani dovrebbero adoperarsi per un mondo migliore».

 

Con queste parole il cardinale Kurt Koch, Presidente della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, conclude il recente documento pubblicato da questo ufficio della Santa Sede in occasione del cinquantesimo anniversario della promulgazione di Nostra Aetate, il documento conciliare, che ha segnato una svolta decisiva nei rapporti fra la Chiesa cattolica ed i fedeli di altre religioni. Negli ultimi mesi non sono mancati momenti di riflessione che hanno inteso celebrare il mezzo secolo del documento più breve fra quelli conciliari, ma che, come è stato più volte affermato, ha impresso una delle svolte decisive al mondo cattolico, spalancando le porte della Chiesa al rapporto con seguaci di altre religioni.

 

D’altra parte, si è sempre riconosciuto che proprio il rapporto con «l’ebraismo è qualcosa di assolutamente speciale per i cristiani» per via delle radici del cristianesimo che affondano nella storia di coloro che Giovanni Paolo II e Banedetto XVI hanno chiamato, rispettivamente, «fratelli maggiori» e «padri nella fede».

 

È proprio in questa prospettiva di un rapporto privilegiato fra cristianesimo ed ebraismo che si inserisce la riflessione offerta dal card. Koch, che non nasconde come, «nonostante la rottura storica ed i dolorosi conflitti che ne sono derivati, la Chiesa rimane consapevole della sua permanente continuità con Israele». Le sedici pagine della lettera – intitolata in modo significativo Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili – intendono tracciare una lettura di alcune questioni teologiche che toccano in modo nevralgico il rapporto fra ebraismo e cristianesimo a cinquant’anni di distanza da Nostra Aetate.

 

Proprio questo mezzo secolo fa da sfondo alle questioni, spesso complesse, che hanno caratterizzato un rapporto non facile da ricostruire dopo quasi duemila anni di atteggiamento tutt’altro che fraterno da parte della Chiesa nei confronti del popolo ebraico. E qui si apprezza il cammino fatto in cinque decenni che non possono pretendere di appianare difficoltà costruitesi in una storia fatta di secoli e culminata con l’esperienza drammatica della Shoah. Con attenzione puntuale, il documento della Santa Sede mette in rilievo il cammino di questi cinquant’anni scandito da documenti importanti, frutto di riflessioni teologiche, ma anche di rinnovati incontri fraterni e di gesti e messaggi profetici dei vari papi, in modo particolare di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, senza, ovviamente, diminuire il ruolo di papa Francesco che ha portato a livello di Chiesa universale la sua ricchissima esperienza di dialogo con ebrei a Buenos Aires.

 

Particolarmente importanti sono stati i due organi fondati rispettivamente nel 1974, da Papa Paolo VI – la Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo – e nel 1970 da parte ebraica – l’International Jewish Committee on Interreligious Consultations (IJCIC)– diventato, poi, il rappresentante ebraico ufficiale di fronte alla Commissione della Santa Sede. Il lavoro di questi due organi ufficiali –sebbene non sempre legati alle sensazioni della base e dell’opinione pubblica che per lungo tempo ha ignorato sia Nostra Aetate, che il cammino di dialogo intrapreso –, ha permesso di passare da un atteggiamento di contrapposizione «ad una proficua collaborazione, dal potenziale di conflitto ad un’efficiente gestione dei conflitti, da una coesistenza contrassegnata dalle tensioni ad una convivenza solida e fruttuosa».

 

Si può senza dubbio affermare – e lo faccio anche alla luce di anni di esperienza personale – che si sono costruiti legami di amicizia, che «hanno dimostrato la loro robustezza ed hanno permesso così di affrontare insieme persino temi controversi senza il rischio di arrecare al dialogo un danno permanente». Non mancano, e non sono mancati, infatti – anche questo è frutto di esperienza di persona – momenti difficili, incidenti di percorso.

 

Il documento è ricchissimo di spunti e riflessioni teologiche che mostrano quanta strada si sia fatta in questi anni da parte cattolica per abbattere aspetti che sembravano degli assoluti e che impedivano un dialogo sereno ed aperto. Il nuovo atteggiamento ha permesso di rimettere in discussione alcuni aspetti che da secoli apparivano ormai pilastri portanti della lettura teologica cattolica, soprattutto, a proposito della relazione fra Antico e Nuovo Testamento e fra l’Antica e la Nuova Alleanza.

 

«L’ebraismo e la fede cristiana – si afferma al n.25 – così come sono presentati nel Nuovo Testamento, sono due modi in cui il popolo di Dio può far proprie le Sacre Scritture di Israele. Le Scritture che i cristiani chiamano Antico Testamento sono dunque aperte ad entrambi i modi. Una risposta alla Parola salvifica di Dio che sia conforme all’una o all’altra tradizione può dunque dischiudere l’accesso a Dio, sebbene spetti all’intervento divino determinare in che modo egli intenda salvare gli uomini in ciascuna circostanza».

 

In altri termini, si nega la presenza di due strade diverse che conducono alla salvezza, come voleva affermare l’adagio «Gli ebrei sono fedeli alla Torah, i cristiani a Cristo. […] La Parola di Dio è una realtà unica e indivisa che assume una forma concreta nel contesto storico di ciascuno». Torah e Cristo sono, dunque, «Parola di Dio, rivelazione di Dio per noi uomini […] il luogo della presenza di Dio nel mondo, nel modo in cui tale presenza è sperimentata nelle rispettive comunità di culto».

 

Anche l’aspetto dell’Alleanza è affrontato con chiarezza. Quella offerta da Dio a Israele è irrevocabile: «Dio non è un uomo da potersi smentire» (Nm 23,19; cfr. 2 Tm 2,13) e la Nuova Alleanza non revoca le precedenti; piuttosto le porta a compimento. D’altra parte, la riflessione teologica proposta dal documento sottolinea come per i cristiani la Nuova Alleanza abbia una qualità tutta sua. Ciò che è fondamentale è riconoscere che la caratteristica di ciascuna alleanza è quella di vivere una relazione specifica con Dio.

 

Quello che mi pare emerga da questo documento a cinquant’anni da Nostra Aetate, oltre ai passi fatti nel dialogo fra ebri e cristiani, è la ricchezza che la scelta del dialogo porta ad entrambi. L’invito che Jules Isaac rivolse nel giugno 1960 a Giovanni XXIII per un documento che potesse modificare secoli di atteggiamento negativo della Chiesa e del mondo cristiano in generale nei confronti del popolo ebraico è uno di quegli avvenimenti che fanno parte della storia. Accolto dal pontefice ha condotto, poi, i padri conciliari a maturare una carta – Nostra Aetate – che ha decisamente modificato l’atteggiamento nei confronti di tutti i fedeli di altre tradizioni religiose. La riflessione teologica intrapresa nei decenni successivi alla luce del contatto con il mondo e la sensibilità ebraici hanno permesso alla teologia e al magistero cattolico di approfondire piste nuove che hanno portato ad una nuova comprensione di Cristo stesso e della missione della Chiesa. Tutti, dunque, hanno tratto prezioso profitto da questo sforzo a camminare insieme.

 

Lo dimostra, fra l’altro, un importante documento, firmato da venticinque autorevoli rabbini – si tratta di rabbini ortodossi di cui tredici residenti in Israele – uscito esattamente una settimana prima del testo dellaCommissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo. Partendo dalla Shoah, momento culminante dell’inimicizia tra cristiani ed ebrei, i rappresentanti del mondo ebraico affermano che “l’incapacità di andare oltre il disprezzo e di impegnarsi in un dialogo costruttivo per il bene dell’umanità indebolì la resistenza alle forze malvagie dell’antisemitismo che hanno trascinato il mondo nell’omicidio e nel genocidi”.

 

Tuttavia – riconoscono i rabbini – «dal Concilio Vaticano II l’insegnamento ufficiale della Chiesa cattolica sull’ebraismo è cambiato in maniera radicale e irrevocabile». I rappresentanti ebraici riconoscono che la promulgazione di Nostra Aetate ha dato il via a un processo di riconciliazione, che passa in particolare dal riconoscimento da parte della Chiesa riguardo all’unicità della posizione di Israele nella storia sacra e rispetto alla redenzione finale del mondo.

 

A fronte del riconoscimento che gli ebrei hanno sperimentato amore sincero e rispetto da parte di molti cristiani, attraverso iniziative di dialogo, incontri e conferenze in tutto il mondo, si richiede ora agli ebrei di «interrogarsi su chi siano i cristiani nel disegno di Dio sul mondo. […] Riconosciamo – affermano i rabbini – che il cristianesimo non è né un incidente né un errore, ma un frutto della volontà divina e un dono per le nazioni».

 

La dichiarazione dei rappresentanti ebraici invita ad uno sguardo teologicamente nuovo sulla collaborazione con i cristiani. «Ora che la Chiesa cattolica ha riconosciuto l’Alleanza eterna tra Dio e Israele – affermano – noi ebrei possiamo riconoscere il perdurante valore costruttivo del cristianesimo come nostro partner nella redenzione del mondo». È scomparsa, sottolineano i venticinque firmatari, la paura di proselitismo da parte cristiana: la missione per arrivare alla conversione degli ebrei.

 

Quello che entrambi i documenti sembrano voler chiarire in termini chiari, al di là delle questioni teologiche, è il riconoscimento che «non siamo più nemici, ma inequivocabilmente compagni nell’articolare i valori morali essenziali per la sopravvivenza e il benessere dell’umanità». È fondamentale la coscienza espressa in modo cristallino dai rabbini: «Nessuno di noi può svolgere da solo la missione affidatagli da Dio in questo mondo». Proprio questo è il frutto del dialogo: la coscienza che abbiamo bisogno gli uni degli altri e che insieme, mentre camminiamo verso la Verità vera meta del pellegrinaggio che è il dialogo, possiamo collaborare al bene comune della famiglia umana. 

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