Duetto di giovani a Santa Cecilia

Il direttore Lorenzo Viotti e il violinista Giuseppe Gibboni protagonisti di un concerto fuori del normale
Giovani

Viotti, franco-svizzero, ha 30 anni, è figlio d’arte – il padre Marcello era un valido direttore d’orchestra – e ha già diretto orchestre come i Berliner e i Wiener, tanto per citarne alcune, debutta alla romana Accademia Santa Cecilia.

Gibbone ha vent’anni, salernitano, famiglia di musicisti, ed è vincitore del 56 Premio Paganini, primo italiano dopo 24 anni. Sono giovani, determinati e affiatati.

Viotti dirige con il corpo e il braccio in modo appassionato e preciso, ha un impatto molto buono con i complessi ceciliani: rigoroso, elastico, si muove molto, ma si controlla. Gibboni sembra molto più giovane: la sua tecnica è sbalorditiva, e quando c’è una ovazione dell’orchestra e della sala si ritrae sorpreso e timido. Non è abituato a questo entusiasmo, Viotti invece sa già gestirsi bene mediaticamente.

Il programma comprendeva musiche tra fine Ottocento e primo Novecento. Si inizia con l’ouverture di Johann Strauss Jr dall’opera Die Fledermaus (IL Pipistrello, 1874) sprizzante, generosa di valzer e di fuoco viennese e poi l’immenso Concerto in re maggiore per violino e orchestra di Ciajkovskij (1881) scritto dopo un momento di  vita  difficile del compositore.

Il primo tempo (Allegro moderato) sembra infinito con quel tema che è ormai popolarissimo, con i virtuosismi che all’epoca fecero definire il brano “ineseguibile”. Gibboni l’affronta con estro, forza e un gran fuoco. Anche il secondo movimento “Canzonetta” così tipico della ipersensibilità patetica dell’autore è reso con calore e scioltezza per non dire del Finale travolgente e veramente arduo.  Naturale che dopo una simile “impresa” pubblico e orchestra abbiamo risposto con applausi interminabili e che il giovane abbia regalato due bis, dai Capricci di Paganini, ovviamente.

Poi la scena è stata tutta per Viotti che ha affrontato di petto la Suite dal Cavaliere della rosa di Richard Strauss (1946), sicura nello splendore dell’orchestra, e infine La Valse di Ravel (1920), poema coreografico per orchestra, ricco di suadenze e di scoppi.

Certo i due interpreti sono giovani, hanno una vita davanti e affronteranno altre sfide con crescente maturità, forse Viotti darà sobrietà al gesto e Gibboni si slancerà in dolcezza maggiore, ma quello che hanno offerto, oltre alla evidente affinità e unione, e alla gioia chiara dell’orchestra, è veramente di alto livello. Di qui la gioia del pubblico e dei numerosi giovani presenti.

Di concerti simili ce n’è un gran bisogno perché la musica è viva, ma non basta. Ci vuole chi la faccia sentire viva, come questi due giovani.

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