Due Punti

Per salvare i posti di lavoro bisogna fare come Trump?

Donald Trump

Tra delocalizzazioni e protezionismi, il nuovo corso annunciato dalla Casa Bianca  cambierà i rapporti economici tra Stati e aziende? È la risposta giusta ed efficace?  Riportiamo il parere di Alberto Ferrucci, noto editorialista di Città Nuova e imprenditore di Economia di comunione, e di Francesco Gesualdi, già allievo di don Milani,  fondatore e coordinatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Vecchiano (Pisa)

Alberto Ferrucci editorialista di Città Nuova e imprenditore di Economia di comunione

Altro che dazi e barriere, cominciamo a colpire i paradisi fiscali

Per farsi eleggere presidente Donal Trump ha utilizzato lo scontento della classe media americana che malgrado la piena occupazione realizzata da Obama non ha visto crescere le proprie entrate perché buona parte della nuova ricchezza prodotta è finita nelle tasche di pochi.

Intanto per la crescente automazione e per le modifiche strutturali dell’economia dovute al problema ambientale è aumentata la precarietà dei posti di lavoro, così hanno votato per Trump le famiglie dei lavoratori delle miniere di carbone che ha promesso di mantenere aperte, chi ha visto minacciata sicurezza ed introiti dalla concorrenza del lavoro a basso costo degli immigrati, che Trump ha promesso di tener fuori se non di rimandare nei paesi di origine; e quanti ha rassicurato con la promessa di difendere con robuste barriere doganali i prodotti locali dalla concorrenza dei prodotti di importazione.

Invero è indigesto sentirsi dire che puoi essere sostituito sul lavoro da un robot che giorno e notte senza pause e rivendicazioni sindacali lo porta a termine ugualmente bene: è molto più accettabile sentirsi dire che il lavoro ti è sottratto da chi altrove è disponibile ad eseguirlo per la metà, se non per un decimo del tuo stipendio:  in questo caso – si afferma – non è colpa dell’imprenditore, egli per sopravvivere deve continuare a fare profitti e se non trasferisce l’azienda all’estero non venderà più perché sarà travolto dai prodotti di chi avendo usato lavoro a basso costo, potrà praticare prezzi più bassi.

Come impatterà sugli Stati Uniti ed il mondo la nuova politica di Trump? Avrà davvero un effetto dirompente come tanti temono? Come mai quasi subito grandi aziende si sono trovate d’accordo a fare investimenti negli USA, facendo finta di averlo deciso nei pochi giorni passati da quando lui ha vinto le elezioni?

Quando vent’anni fa la liberalizzazione dei movimenti di capitale ha reso possibili le delocalizzazioni verso nazioni con un governo stabile ed una parvenza di stato di diritto, è iniziato il loro vigoroso sviluppo, come era successo in precedenza nelle cosiddette “tigri asiatiche”, Corea, Taiwan, Tailandia, Malesia ecc. già industrializzate perché operanti nell’ambito “occidentale”: nazioni in cui ormai nessuno più delocalizza, perché troppo care.

In questi anni anche la Cina è sulla strada di diventare troppo cara per nuove delocalizzazioni: quando diminuisce la disponibilità dei giovani a trasferirsi dalle campagne in città con stipendi da fame, il costo del lavoro aumenta e la convenienza alla delocalizzazione diminuisce; non occorre che il costo del lavoro diventi pari,  perché delocalizzare ha inconvenienti, gestione a distanza, difficoltà a districarsi tra leggi e burocrazie, controllo della qualità, flessibilità alla innovazione del prodotto, oggi diventato un fattore fondamentale.

Per questo grandi e medie imprese che avevano favorito la delocalizzazione, anche per trovare sbocchi commerciali in quei Paesi, adesso vi stanno rinunciando: d’altronde nei paesi di origine il costo del lavoro non è cresciuto, quando addirittura non si è ridotto perché sono stati ridotti gli oneri che gravano su di esso.

Esistono ancora nazioni in cui il costo del lavoro è davvero basso, Vietnam, Indonesia, Bangladesh, Filippine e molte nazioni africane, il cui numero potrebbe molto crescere se in molte di esse si consolidasse lo stato di diritto e si riducesse burocrazia e corruzione; sarà sempre una questione di tempo, anche in esse con lo sviluppo economico il costo del lavoro crescerà.

L’arma delle barriere doganali è efficace, perché i prodotti di importazione costerebbero nettamente di più, ma è un’arma a doppio taglio, perché il maggior costo dei prodotti esteri a cui non si vorrà rinunciare, perché con prestazioni o qualità irripetibili, sarà a carico dei consumatori e poi perché gli altri Paesi si difenderanno dalle esportazioni americane con misure analoghe; un provvedimento poi difficile da applicare, se si pensa che a costruire lo smartphone da 110 grammi che teniamo in mano contribuiscono 30 aziende di tre continenti!

Il vero modo di difendere il lavoro in questo mondo in cambiamento sta nel trovare il modo per ridurre al minimo gli oneri pubblici dal suo costo (da noi si dice orribilmente “ridurre il cuneo fiscale”) e investire in ricerca ed innovazione per inventare nuovi posti di lavoro, invece di accanirsi in guerre di retroguardia per mantenere per forza posti di lavoro non più produttivi.

Ma per finanziare queste due azioni occorrono risorse, che non si possono trovare caricando le nuove generazioni con ulteriori debiti; occorre convincere tutti i cittadini a fare la loro parte pagando le imposte dovute, iniziando con l’obbligare a farlo le grandi società e gruppi finanziari che oggi le eludono bellamente grazie a sussidiarie in paradisi fiscali anche europei.

Francesco Gesualdi già allievo di don Milani, fondatore e coordinatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Vecchiano (Pisa)

Falsa alternativa. Il problema è il capitalismo

La scelta fra neoprotezionismo o neoliberismo è una questione tutta interna al capitalismo che rigetto in blocco. Volendo usare una metafora, non mi faccio trascinare nella disputa se sia meglio derubare i passanti con destrezza o con uno spintone. I passanti non vanno semplicemente derubati. Venendo al piano economico, dobbiamo cominciare a dire basta a modelli economici che ci costringono alla guerra fra poveri. Al contrario dobbiamo rivendicare nuove relazioni economiche che garantiscono a tutti gli abitanti del pianeta di poter vivere dignitosamente.

Il che non può essere raggiunto con le stesse strategie capitalistiche che hanno generato lo squilibrio, ma con altre logiche e altre scelte. La mia ricetta di riequilibrio passa per una maggiore e diversa regolamentazione commerciale internazionale in modo da garantire prezzi equi e stabili ai piccoli produttori dei paesi deboli, regole commerciali che impongano il rispetto dei basilari diritti dei lavoratori ovunque nel mondo. Occorre più cooperazione orientata a risolvere le gravi deprivazioni umane, più fiscalità tesa a scoraggiare il consumo di risorse e produzione di rifiuti nei Paesi opulenti.

Ovunque occorre più intervento pubblico per garantire in ogni angolo del mondo un tipo di produzione che privilegi la soddisfazione dei bisogni fondamentali di ogni cittadino. Dobbiamo smettere di pensare che la ricchezza possa essere prodotta solo dagli imprenditori privati per il mercato.   Il mercato è una formula che si basa sul principio “mors tua vita mea”, ossia “mi espando nella misura in cui riesco ad invadere i mercati degli altri”. E i risultati li vediamo: pur di ottenere un po’ di occupazione preghiamo che le nostre imprese riescano ad espandersi all’estero, ossia che riescano a generare disoccupazione altrove. Questa impostazione va bene per i mercanti che vedono gli esseri umani solo come salari da contenere o borselli da saccheggiare al supermercato. Ma vista da un punto di vista delle persone è follia allo stato puro.

Restando in questa prospettiva, ciò che dobbiamo raggiungere è la possibilità per tutti di poter soddisfare almeno i bisogni fondamentali nel rispetto dei limiti del Pianeta. Che significa rafforzamento, ovunque, dell’economia pubblica non orientata a produrre per mercati lontani, ma per soddisfare direttamente i bisogni dei propri cittadini.

La comunità imprenditrice di se stessa che si organizza sul piano produttivo per rispondere ai bisogni dei propri cittadini è una delle risposte chiave per garantire occupazione e sicurezza di vita senza fare violenza agli altri popoli. E contemporaneamente più equità fiscale, più regolamentazione bancaria e finanziaria, più accordi internazionali ispirati alla cooperazione e alla difesa dei diritti. “Globalizzazione dei diritti” si gridava in piazza a Genova nel 2001. E questo continua ad essere il mio slogan. Per concludere, credo che solo recuperando chiarezza sui principi, potremo trovare delle vere soluzioni per il genere umano, altrimenti ci rinchiuderemo negli spazi angusti dei nazionalismi vecchia maniera dove la guerra per la supremazia dei mercati si farà anche con i cannoni. E siccome a me non piace né la violenza economica, né quella bellica, rivendico il diritto di non appiattirmi sulla visione degli aguzzini-mercanti, per attuare altre formule economiche, totalmente nuove, al servizio della persona.

 

Leggi anche

Altri articoli

In libreria

Mediterraneo di fraternità

La sfida delle case verdi

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons