Covid, due anni dopo il “paziente 1”

Il 21 febbraio di due anni fa veniva diagnosticato il primo caso di Covid, a Codogno. Questa esperienza ha segnato per sempre le nostre vite e ci ha ricordato il valore di ogni singolo respiro.
Le autorità svelano un memoriale per le morti di Covid, a Codogno, nel nord Italia, domenica 21 febbraio 2021. (AP Photo/Luca Bruno)

«Che bello respirare». Si può reagire in mille modi diversi quando si esce da un tunnel, quando tentiamo di superare tutte quelle situazioni in cui non ci sono certezze se non quella di aggrapparsi alla vita con le unghie e con i denti. Così sarà stato per Mattia Maestri, il 38enne di Codogno, da due anni noto al nostro Paese come il “paziente 1”. La ricostruzione delle dinamiche ci avrebbe poi portato a concludere che, in realtà, il manager lodigiano non è stato il primo anello della catena di contagio nel nostro Paese. Ma, oltre la cronaca, la vicenda personale di Mattia Maestri resta nell’immaginario collettivo come una sorta di spartiacque: il mondo prima e dopo l’emergenza, quelli che eravamo e quello che siamo diventati. La scelta di Mattia di tenersi lontano dai riflettori, come dichiarato in più occasioni sugli organi di stampa, e di tornare alla sua vita ordinaria, alla sua famiglia e alla figlia Giulia, nata mentre l’Italia era in preda alla fase più acuta dell’epidemia, segna il vero elemento discriminante tra il prima e il dopo il 20 febbraio di due anni fa: tra ciò che prima veniva dato per scontato e ciò che non lo è più.

(AP Photo/Luca Bruno)

Da qui la prima reazione di Mattia, appena uscito fuori dal tunnel della terapia intensiva: «che bello respirare!».  Il primo atto vitale: il respiro. Quell’atto che, per dirla con Schopenauer, «respinge continuamente la morte», quella scelta di vita che compiamo continuamente senza accorgercene. Dopo la vicenda personale di Mattia, non era più scontato. Come non lo era per tutti noi. La prima lezione che ci consegna questa lunga notte, che dura ormai da due anni e rispetto alla quale solo ora intravediamo i primi bagliori dell’alba, è quella che la vita non è scontata.  Che bello vivere. Che bello riassaporare la vita e dare ad ogni attimo dell’esistenza il suo vero valore. Com’è bello lasciarsi interpellare dal mistero della vita infinitamente più grande di noi.  Da quel giorno in poi, dalla scoperta del paziente 1, malattia e morte che avevamo cercato in tutti i modi di rimuovere dalla nostra quotidianità, sono diventati, soprattutto nella prima fase dell’emergenza, l’unico e solo tema dell’agenda mediatica giornaliera: malati e morti li abbiamo visti con i nostri occhi, abbiamo “consumato” ogni giorno lacrime, sofferenze, vite strappate nell’isolamento.  Abbiamo toccato con mano la fragilità della nostra esistenza, abbiamo riscoperto che la vita non è un fatto scontato.

Così come non è “scontato” il patrimonio del servizio sanitario nazionale pubblico: i milioni di medici e infermieri che hanno consentito al nostro Paese di reggere nella fase più buia dell’emergenza, moltissimi dei quali hanno pagato con la vita la dedizione al loro lavoro. Secondo il portale della FNOMCeo, sono 370 i medici morti per Covid in Italia e uno studio dell’Oms stima 115.000 operatori sanitari morti nel solo primo anno dell’emergenza.  Non è “scontato” disporre di un servizio che ha consentito a tutti, a prescindere dalle loro condizioni socio-economiche, di essere curati. Nessuno di noi, come accaduto al nostro connazionale Francesco Persico a New York, si è visto recapitare il conto a casa dopo essere uscito dalla terapia intensiva. Nessuno di noi sta pagando per accedere ai vaccini e alle cure che stanno consentendo al nostro Paese di uscire per emergenza.  «Nessuna conquista è definitiva», diceva Tina Anselmi, il ministro della sanità che ha portato all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale nel 1978.  Vale anche per la sanità pubblica che, come fotografato dall’annuario statistico del Servizio Sanitario Nazionale pubblicato dal Ministero della Salute, in dieci anni ha visto: 173 ospedali  e 837 strutture di assistenza specialistica ambulatoriale chiusi, 276 strutture di assistenza territoriale pubbliche in meno e  una diminuzione di oltre 42.000 unità per il personale dipendente del Servizio Sanitaro Nazionale. L’emergenza sanitaria ci ha fatto capire il valore costituzionale della sanità pubblica come «diritto alla salute di tutti» e l’esigenza di avvicinare sempre più gli strumenti per la tutela della salute alle comunità, fino alle case delle persone e delle famiglie. In questa direzione vanno gli interventi previsti dalla missione 6 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

La gente partecipa a una messa a Codogno, nei due anni dall’inizio della pandemia in Italia. (AP Photo/Luca Bruno)

“Scontate” erano, fino a quel 21 febbraio 2020, le relazioni umane, le molteplici occasioni di prossimità che segnano il nostro quotidiano. Era scontato vedersi, chiacchierare, trascorrere del tempo insieme. La privazione e l’esigenza di stare distanti gli uni dagli altri ci ha fatto scoprire il bisogno della relazione, il suo valore e il suo potenziale straordinario.  Basta ripensare alle tante modalità virtuali con cui abbiamo cercato di tenerci compagnia nelle interminabili settimane del primo lockdown. Usciamo dall’emergenza, con il bisogno di ridare alle relazioni il loro valore, sottrarle alla dimensione dello “scontato” e dell’abitudine, ridare alla relazione il tempo e la cura che essa richiede.

«Che bello respirare», diciamo anche noi oggi con Mattia. Due anni dopo, sentiamo il bisogno di vivere un tempo che sia meno scontato, meno distratto, un tempo più profondo di quello che vivevamo fino a quei primi mesi del 2020. Che bello tornare a respirare e a dare valore a ogni singolo respiro.

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