Dopo Rosarno, si può cambiare

«Io non assumo in nero». Dalla Sicilia una proposta di patto nazionale per i gruppi di acquisto solidale. Ma non solo.

Dopo i fatti di Rosarno in Calabria dello scorso gennaio, nessuno può dire di ignorare come ogni prodotto che arriva sulla nostra tavola segua una certa filiera che non ci deve lasciare indifferenti. La “terra è bassa” dicono i contadini per intendere che richiede lavoro pesante e faticoso con il capo chino, per non parlare del ritmo della raccolta imposto dalle scadenze stagionali.

 

Questo è il tempo della raccolta delle patate. A partire dalla storia di questo tubero si possono scrivere pezzi di storia di intere nazioni, come la grande carestia e la mancanza di solidarietà internazionale che, nell’Ottocento, condusse alla diaspora degli irlandesi negli Usa e Australia.

In questo caso si tratta di immigrazione, quella precaria e stagionale che muove in Italia una popolazione di varia etnia alla ricerca di un lavoro necessario per il proprio sostentamento.

 

Condizioni che fanno parlare di nuova schiavitù. Le immagini dei raccoglitori di arance in Calabria sono state quanto mai esplicite e rimandano a situazioni che non sono affatto risolte, ma comuni a tante realtà del nostro Bel Paese. Così come l’acquiescenza collettiva verso forme di lavoro nero e l’uso del caporalato per acquisire il lavoro dei braccianti. Uno stato di fatto che costituisce il brodo di coltura di ogni esplosione di intolleranza e violenza, dove a soccombere sono sempre i più deboli.

 

A meno che non si trovi il modo per intervenire sullo stato di pericolo e disinnescare la miccia. Di solito ciò che appare semplice è sempre difficile da compiere, come quello di costruire un patto di lealtà reciproco tra consumatori e  produttori: ci impegniamo a compare un certo quantitativo di merce se è certificata l’assenza del lavoro nero.

 

«Uguale salario per uguale lavoro» questo il motto ripreso dalle storiche richieste di giustizia dei braccianti siciliani che la rete antirazzista di Catania ha voluto rimettere in luce con riferimento alla coltivazione e raccolta delle patate a Cassibile in provincia di Siracusa. In primo luogo cercando un’alleanza con i gruppi di acquisto solidale (gas) che proprio in Sicilia lo scorso giugno hanno tenuto l’incontro nazionale ribadendo il ruolo centrale che, in questa esperienza di economia dal basso, ricoprono la legalità e la partecipazione assieme all’occasione di incontro, scambio e aiuto reciproco tra nord e sud, così come tra ogni latitudine.

 

Si tratta di usare una leva finanziaria che parte dalle tasche di ciascuno fino ai patti di fuoriuscita dal nero che conduce a condizioni umane per i lavoratori immigrati. Per riuscirci occorre un’invasione di patate in tutta Italia. Alcuni imprenditori sono disponibili, ma se rimangono soli devono subire la concorrenza sleale degli altri che se ne infischiano di ogni regola. 

 

Un segnale e un’intuizione di modalità non violenta che va considerata seriamente proprio perché proviene da chi, come la rete antirazzista, di norma, non rifiuta lo scontro e che alle cinque della mattina  si mette a distribuire materiale informativo ai migranti davanti ai caporali, chiedendo l’ottenimento del permesso di soggiorno per chi denuncia il lavoro nero, come prevede la direttiva europea n.52 del 2009.

 

La logica di premiare piuttosto che punire, o meglio senza rinunciare a sanzionare pratiche contro l’umanità, forse può essere la strada giusta per riuscire. Si tratta di provarci davvero per arrivare ad un primo maggio di festa. Ma cercando di andare oltre, interessare altre filiere e diversi prodotti, generando una corrente virtuosa in grado di scardinare con mitezza strutture inique. Tutto può cominciare da una patata, che non vorremmo vedere ricoperta di sangue. 

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