Di nuovo alle urne

Benjamin Netanyahu getta la spugna, non riesce a formare un governo. Si torna al voto. La tentazione del referendum. In crisi il piano Kushner.

 

Sempre più, nelle società digitalizzate, la tentazione del bianco/nero, del “o con me o contro di me” si esaspera, visto che i sistemi stessi mediatici tendono a semplificare e polarizzare la complessità delle nostre politiche. Così accade anche in Israele, dove il premier uscente, Benjamin Netanyahu non ce l’ha fatta a comporre un nuovo quadro istituzionale (sarebbe stato il quinto governo per lui), per il mancato accordo con il leader dell’ultradestra Avigdor Lieberman. E tutto ciò per un solo deputato: se il partito del premier avesse avuto un seggio in più alla Knesset non avrebbe avuto bisogno di una tale alleanza. Il problema deriva dal fatto che a questa tornata di consultazioni post-elettorali, il Likud, cioè il partito del premier, non ha avuto mezzi di pressione su Lieberman, perché a differenza del passato l’opposizione di sinistra e di centro non aveva nessunissima intenzione di legarsi al premier uscente, per via dei suoi guai giudiziari di prossima soluzione. Perciò i micro-partiti, che avrebbero potuto aiutare Netanyahu, hanno alzato la posta con le loro richieste corporative, impedendo al premier uscente di accettare il compromesso. Così la Knesset, il parlamento di Israele, si è auto-sciolto, proclamando elezioni per il 17 settembre. E allora ecco la tentazione del referendum: il prossimo voto sarà una scelta tra Netanyahu o… chissà chi. In fondo al premier manca un voto solo, non è impossibile che così riesca a ottenere un governo a lui più favorevole.

Un corollario alla crisi di governo attuale è la crisi profonda del ben noto e fantomatico piano per il Medio Oriente (LINK ARTICOLO BRUNO) del genero di Donald Trump, Jared Kushner, che ha inanellato un’altra delle sue numerose gaffe con una chiara mancanza di tempistica: il consigliere del presidente degli Stati Uniti, accompagnato dall’emissario speciale per la regione Jason Greenblatt e dall’inviato Usa per l’Iran Brian Hook, è infatti arrivato mercoledì a Gerusalemme in pieno tumulto politico per discutere con gli israeliani il suo progetto per la regione. «Questa è la morte del piano di pace», ha scritto ieri il Jerusalem Post. Netanyahu e Kushner si sono scambiati parole di circostanza: «Abbiamo avuto un piccolo incidente la scorsa notte. Non ci fermerà e continueremo a lavorare insieme», ha detto Netanyahu. Mentre Kushner ha detto al suo interlocutore di apprezzare «tutti i suoi sforzi per rafforzare le relazioni tra i due Paesi, che non sono mai state così solide». Se tali dichiarazioni tentano di nascondere il malessere, il “piano del secolo” è seriamente minacciato.

Avviato nel 2017 su incarico di Trump stesso, il piano era stato annunciato per il gennaio 2019 nel corso della sessione annuale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite lo scorso settembre. Ma lo scioglimento della Knesset nel dicembre 2018 ha spinto gli statunitensi a rimandare lo svelamento del piano a dopo il 9 aprile, data dell’ultimo voto in Israele, scommettendo ovviamente su una vittoria dell’alleato Netanyahu. «Penso che abbiamo una gran possibilità di successo ora che Bibi ha vinto», aveva scritto in un tweet il presidente Usa dopo la pubblicazione dei risultati. Poi l’annuncio di un ulteriore rinvio a dopo la fine del Ramadan. E ora l’incognita del voto a settembre.

Ormai il tempo stringe per Washington, che vuole svelare il suo piano prima dell’inizio della campagna elettorale statunitense del 2020. Ma presentare il piano prima delle ennesime elezioni israeliane vorrebbe dire condannarlo al fallimento ancor prima di poter essere discusso, perché Netanyahu non potrebbe fare campagna con un piano che fa concessioni ai palestinesi, e i palestinesi hanno già detto che rifiutano il piano a priori, affermando che le azioni del presidente degli Stati Uniti hanno dimostrato un pregiudizio favorevole evidente nei confronti di Israele, come il riconoscimento da parte degli Stati Uniti di Gerusalemme a fine 2017 come capitale di Israele, o la rimozione di aiuto ai palestinesi., o ancora il riconoscimento della “israelianità” delle alture del Golan. Cosa mai uscirà dal cappello magico di The Donald? Riuscirà a imporre il suo piano, sempre che Netanyahu vinca in settembre, nei pochi mesi prima della campagna elettorale Usa? Difficile prevederlo.

 

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