Delegazione musulmana a casa di Yara

La famiglia ha accolto rappresentanti di varie associazioni islamiche. Intervista all’imam di Brescia e a quello del Veneto.
Yara Gambirasio

La notizia non ha avuto che poche righe distratte su qualche testata, mentre l’incontro della delegazione islamica con la famiglia di Yara Gambirasio, la ragazzina di Brembate scomparsa lo scorso novembre, avrebbe meritato riflessioni maggiori e forse anche un’intera pagina. Dodici rappresentanti di associazioni venete e lombarde, di fede islamica hanno bussato coraggiosamente alla porta di casa, ricevendo un’accoglienza calorosa e cortese. Solo tre di loro sono entrati «per non disturbare questo dolore», e hanno consegnato una lettera di solidarietà. Dall’altra parte profondo ascolto e apprezzamento. In strada è rimasto l’imam di Brescia, tra i promotori dell’iniziativa.

Issam Mujahed da vent’anni vive in Italia, è medico chirurgo specialista in radio diagnostica ed è presidente del Consiglio delle relazioni islamiche italiane (Crii).

 

Imam Mujahed, vi siete recati a casa di Yara, dopo le polemiche sull’arresto del giovane marocchino. Un gesto mediaticamente efficace in questo clima tetro o c’è dell’altro?

«Siamo andati semplicemente per esprimere solidarietà alla famiglia. In queste situazioni, poi, in cui gli immigrati sono chiamati in causa, in modo negativo, abbiamo sentito di dover fare qualcosa. Potevamo limitarci a commentare e a chiuderci fra noi, ma apparteniamo alla stessa comunità e la scomparsa di Yara ci da molto dispiacere, come a tutti. Stare con la famiglia voleva dimostrare anche questo».

 

Non ha avuto il timore di trovarsi davanti ad una porta chiusa?

«È stato un gesto dal cuore e avevo proprio sperato che questo non succedesse. Avevamo programmato la visita, ma dopo le vicende del giovane abbiamo voluto accelerare. Abbiamo chiesto al vigile che sorvegliava la casa di farsi portavoce della richiesta. E subito tre dei dodici presenti in rappresentanza di associazioni venete e lombarde, sono stati accolti in un clima di grande cortesia. Ci siamo trovati davanti ad una famiglia forte che affronta questa situazione con grande coraggio. Hanno perso una figlia e non possiamo dimenticarci del loro dolore».

 

Una risposta al clima di diffidenza che rischia di diventare intolleranza?

«La paura dell’altro, del diverso, del nuovo crea una diffidenza naturale. Come immigrati, dobbiamo fare cose concrete: lavorare al concetto di cittadinanza, di fratellanza dell’umanità e prendere le distanze dagli immigrati che fanno azioni spiacevoli. Bisogna essere concreti nel rispondere a degli equivoci e chiediamo agli italiani di aiutarci nel far cadere i pregiudizi. La diffidenza non si supera da soli, ma bisogna favorire incontri con associazioni, con la gente. Il dialogo va fatto insieme, altrimenti si rischia di arrivare ad un conflitto, partendo da un semplice scontro di differenze».

 

Anche Kamel Layachi, presidente del Consiglio Islamico veneto, che casualmente ha saputo della presenza di alcune donne della sua comunità, ha voluto ribadire l’apprezzamento per questo atto. «La nostra gente è viva e partecipa alle sofferenze di questa famiglia. Guai se vivessimo queste tragedie nell’indifferenza totale. E poi le donne sanno creare più relazione».

 

Però bisogna fare i conti con gli episodi di reato attribuiti ad immigrati?

«I titoloni dei giornali sono, per me, una grande amarezza. C’è un detto nella nostra tradizione che dice: “Quando una parola esce dalla bocca, non torna indietro”. Nella memoria della gente questi articoli lasciano il giudizio: noi siamo giudicati come persone, come comunità, prima ancora di un verdetto della giustizia che individui il colpevole».

 

Sui giornali è venuto fuori anche il suo nome…

«Un giornalista ha voluto estorcermi dei collegamenti con il giovane marocchino, solo perché si chiamava Mohammed. Io mi affido a quello che dirà il magistrato, alle indagini in corso e se si verificherà che si è commesso un reato, dobbiamo chiedere che questa persona si assuma le proprie responsabilità, ma non si può cercare un capro espiatorio perché la gente stia tranquilla. Educare alla legalità è un impegno, che ci accomuna tutti, al di là della fede religiosa. Alcune emittenti speculano per un ritorno di audience e di immagine, mentre i genitori sono in ansia per le notizie di ritrovamento. Io farei proprio un appello alla professionalità e alla responsabilità della stampa».

 

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