Debito pubblico sopra i duemila miliardi. Che fare?

Interessi pagati ai creditori e tagli alle spese sociali. Come siamo arrivati a questo punto? E come possiamo uscirne? Il contributo di Benedetto Gui, ordinario di Economia politica all'università di Padova
Banca centrale europea - Francoforte

Nonostante i tagli e le nuove imposte, l’Italia, a fine 2012, ha sfondato i duemila miliardi di euro di debito pubblico. Anche se il Tesoro è riuscito a vendere tutti gli 8,5 miliardi di Bot a 6 mesi, resta il fatto che miliardi di interessi dovuti ai nostri creditori ogni anno sono sottratti alle spese sociali necessarie e urgenti. Cercare di capire come siamo arrivati a questo punto può aiutarci a comprendere come riuscire a liberarci da un vincolo che incide sulla vita di tutti. Federconsumatori sostiene che nel 2013 ogni famiglia pagherà in più, solo per spese e servizi, oltre mille e cinquecento euro. Abbiamo rivolto alcune domande a Benedetto Gui, ordinario di Economia politica all’università degli studi di Padova. 

Come nasce un grande debito pubblico?
«Tipicamente un grande debito pubblico nasce da una guerra, e non si fa fatica a capire perché. Purtroppo ci si può riuscire anche in tempo di pace, come ha fatto lo Stato italiano dal 1970 in poi distribuendo benefici, non tanto a politici e amministratori pubblici – pure essendo cresciuti vergognosamente, i privilegi della casta restano una frazione relativamente piccola della spesa –, bensì a questa o quella categoria che chiede di pagare meno contributi, o di ottenere maggiori diritti pensionistici, o nuove strade nella propria provincia, o aiuti straordinari per il restauro del teatro cittadino, spesso secondo logiche elettoralistiche; e poi chiudendo un occhio, o anche tutti e due, nei confronti dell’evasione fiscale, o magari addirittura proteggendola con qualche provvedimento legislativo o regolamento attuativo. E quando poi ci è cascata tra capo e collo una di quelle crisi che arrivano un paio di volte al secolo non avevamo più margini di manovra, perché ci eravamo già speso tutto quando le cose filavano relativamente liscio».

Esistono modalità per rinegoziare il debito senza portare l’intera economia in recessione e le famiglie non abbienti verso il default? Come ci si libera di un debito così pesante?
«Il più sbrigativo è il default (insolvenza, ripudio, mancata restituzione), totale o parziale, in tal caso di parla di "ristrutturazione" del debito, in pratica una decurtazione del suo ammontare o del tasso di interesse pagato ai creditori, come è avvenuto recentemente per la Grecia. Come ricordano gli economisti Reinhart e Rogoff in “Questa volta è diverso”, una magistrale ricostruzione di “otto secoli di follia finanziaria”, la storia è piena di episodi del genere, di cui forse il più noto risale al XIV secolo, quando Edoardo III di Inghilterra mandò gambe all’aria i banchieri fiorentini rifiutandosi di rimborsarli. Se ci limitiamo agli ultimi quattro decenni e ai Paesi “a medio reddito”, pensiamo in particolare al Sudamerica, al Medio Oriente e all'Est Europa, tra default e ristrutturazioni se ne contano oltre 35; i risparmiatori italiani ricordano certamente quello dell’Argentina del 2001, che ha falcidiato i risparmi di migliaia di famiglie, mal consigliate dalle loro banche di fiducia, rivelatesi inaffidabili, se non disoneste».

Il default è davvero l'unica soluzione?
«Da almeno un secolo a questa parte i Paesi della "buona società" internazionale non usano fare default, se non dopo una sconfitta, accadde alla Germania nel 1932 sotto il peso delle "riparazioni" di guerra, oppure quando si mettono in conflitto aperto (la Germania fece default nuovamente nel 1939, ma a quel punto più che in termini di mercati finanziari si ragionava in termini di panzerdivisionen). Insomma, come si può facilmente intuire, default e buona reputazione internazionale non vanno d’accordo».

Altra ipotesi?
«Un secondo modo per alleggerire un debito pubblico eccessivo è che la Banca centrale "stampi" moneta, o, più correttamente, "crei" moneta in grandi quantità e la usi per finanziare la spesa pubblica. In tal modo diminuisce l’ammontare di titoli pubblici sul mercato e i tassi di interesse scendono. Il resto lo fa l’inflazione che in tal modo viene alimentata. Così è avvenuto in Italia nel corso della Seconda guerra mondiale e nei due anni immediatamente successivi, quando il debito pubblico passò da valori prossimi o superiori al cento per cento del Pil, attorno ai quali aveva oscillato durante il conflitto, al ben più sopportabile 24 per cento del 1947. In realtà l’inflazione non è altro che una forma strisciante di default: a scadenza i debiti vengono sì ripagati all’intero valore nominale, ma nel frattempo il loro valore reale è stato silenziosamente falcidiato dall’aumento dei prezzi. Un risparmiatore che con quei soldi pensava di potersi garantire un buon tenore di vita nella sua vecchiaia avrà in mano una cifra magari con molti zeri, ma che non gli basterà nemmeno per pagarsi le bollette dell’acqua. Tuttavia quella del finanziamento monetario del debito non è più un’opzione per l’Italia di oggi, prima di tutto perché le decisioni monetarie non si prendono più a Roma, ma a Francoforte, e poi perché le regole stabilite al momento di far nascere la Banca centrale europea non permettono di finanziare pronta cassa le spese degli Stati membri».

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