Daesh (Isis). La strategia contro il terrore

Un fenomeno inquietante condannato dalle maggiori autorità scite e sunnite, ma da comprendere nel contesto geopolitico internazionale e dentro le dinamiche del mondo musulmano. Senza semplificazioni e banalità. Favorire il dialogo e l’incontro, a qualsiasi livello, è parte della strategia necessaria per passare dalla paura alla speranza
Isis

Nei processi degli ultimi vent’anni da al-Qaeda in poi, il jihadismo è diventato un fenomeno importante, che spesso con definizioni semplicistiche e mediatiche ad effetto, si tende a identificare con l’Islam in quanto tale. La jihad è diventata il terrore dell’occidente. Ma è anche necessario distinguere e, a fronte dello spettro del jihadismo, non si può non tener conto di quanto la maggioranza degli stessi musulmani pensano. Lo spiega chiaramente il leader sciita libanese, Ibrahim Shamseddine, anch’egli in una intervista alla rivista Oasis. La“jihad – afferma Shamseddine – è una nozione islamica degna di considerazione, ma quasi tutti ne hanno abusato. Uccidere non è jihadismo. Uccidere musulmani, cristiani, uccidere persone di altre religioni, siano esse gente del Libro o non, come gli yazidi, non è jihad, è contro l’Islam. È omicidio puro, una carneficina umana. Portare la barba lunga e dire “Allahu akbar” non fa di un killer un fedele musulmano né un profeta e neppure un jihadista. La fede e l’Islam non si fondano sul coltello”. In effetti, le modalità d’azione dell’Isis sono state condannate da una lunga lista di autorità musulmane di tutto il mondo, sia sunnite che sciite, come Yusuf al-Qaradawi e i leaders di al-Azhar, l’università islamica del Cairo che resta il punto di riferimento per il mondo sunnita, e da gruppi e confederazioni islamiche in varie parti del mondo, compresa l’Italia con gli intervento significativi di U.Co.I.I (unione delle Comunità Islamiche in Italia) e Co.Re.Is (Comunità religiosa islamica). Alcuni Paesi musulmani, dopo aver dichiarato ISIS fuori legge sul proprio territorio, da tempo cercano di impedire che i propri cittadini si uniscano al gruppo. Fra questi c’è l’Indonesia, la nazione con la popolazione musulmana più numerosa al mondo.

Non dobbiamo, poi, sottovalutare i processi remoti che si sono attivati ormai da venticinque anni, con la caduta del Muro di Berlino e lo sbriciolarsi in pochi mesi del Blocco Sovietico. Quella situazione ha creato la necessità di una ricerca di nuovi equilibri dopo i quarant’anni di Guerra Fredda che avevano garantito il bipolarismo fra due sistemi politici e le ideologie che li ispiravano. Per l’occidente il ‘nemico’ è diventato l’islam con una operazione, fondamentalmente scorretta, che ha messo a confronto stati e politica con una religione. Proprio qui sta, probabilmente, la causa esterna che ha portato a fenomeni come quello di al-Qaeda prima e, ora, dell’Isis. Ma non si devono sottovalutare anche le cause interne: i complessi processi in atto da lungo tempo all’interno del mondo musulmano. Primo fra tutti sta la crescente tensione fra Sunniti e Sciiti, ma anche i giochi fra i vari centri dell’Islam politico: Arabia Saudita e Qatar, per il mondo sunnita, e Iran per quello sciita con la Turchia di Erdogan a giocare un ruolo non sempre chiaro, ma evidentemente da terzo polo.

La situazione provocata dal Califfato è, senza dubbio preoccupante. Oggi il Daesh (nome arabo dell’Isis.ndr) può contare su un esercito di circa trentamila combattenti armati, a fronte del migliaio di al-Qaeda nel 2001. Alcuni esperti calcolano che il suo budget potrebbe essere da cinquecento a mille volte superiore a quello a disposizione degli attentatori dell’11 settembre. E qui, la caduta di Mosul è stata fondamentale per il rimpinguamento delle casse dell’Isis, attraverso il denaro trovate nelle banche della città irachena (si parla di 430 milioni di dollari). Non mancano, poi, finanziamenti esterni, donatori e traffici illeciti capaci di generare, dicono ancora gli esperti, circa 8 milioni di dollari al mese. Inoltre, la base dell’organizzazione si situa in Mesopotamia, crocevia strategico, con una chiara risonanza per il mondo musulmano, al contrario di al-Qaeda che, in Afghanistan, stava in periferia. Altro aspetto di novità, è la grande capacità di usare i social media per diffondere il fondamentalismo più crudo, aspetto apparentemente contraddittorio ma di grande significato.

 

D’altra parte, la paura generata in questi mesi, sia all’interno della zona in cui Daesh opera direttamente che in occidente, potrebbe, nel giro di qualche tempo, mostrarsi come un boomerang proprio contro chi l’ha scatenata. In Europa, poi, esiste il grande timore di attacchi e il terrore che giovani jihadisti che si sono uniti a Daesh possano tornare in patria come potenziali terroristi. In effetti, sono circa ventimila gli stranieri che combattono nei Paesi arabi e indagini abbastanza precise parlano di 1000 francesi, circa 700 britannici e 400 tedeschi. Ma è interessante che sono alcune fra le nazioni di piccole dell’Unione Europea (Belgio, Olanda e Austria) a contare una percentuale alta di loro cittadini impegnati nel califfato: 350 per esempio dal Belgio. Non necessariamente quelli che potrebbero tornare nei loro Paesi potrebbero trasformarsi in terroristi, anche se la possibilità che lo facciano non può essere trascurata. D’altra parte, è necessario tener presente che impedire di unirsi al califfato può avere conseguenze ugualmente devastanti. Basta pensare che il ragazzo che qualche settimana fa ha attaccato il parlamento canadese avrebbe voluto partire per la Siria e le autorità gli avevano ritirato il passaporto per impedirglielo.

 

A fronte di una situazione così complessa, per altro tutt’altro che chiara, è difficile intravedere delle soluzioni. E’ chiaro, ormai, che non è possibile che solo una nazione o un gruppo di nazioni intervengano per risolvere il problema. E’ necessario una politica globale che tenga conto, da un lato, delle problematiche che attraversa il cosmo Islam e, dall’altro, che sia capace di trovare un dialogo con le sue varie componenti. Anche se Daesh non è l’Islam non si deve ignorare che combatte in nome dell’Islam e nel cuore dell’Islam medio-orientale, che è una minoranza di tutto l’universo dei musulmani del mondo, ma che, per motivi politici (la cui origine sta nella situazione in Terra Santa) ed economici (la presenza del petrolio) ne rappresenta il cuore e la parte più indicativa. E’ auspicabile, per esempio, una maggior collaborazione fra i Paesi occidentali con le nazioni musulmane che rappresentano un Islam moderato ed un’opera sempre più costante di collaborazione a progetti di pace, di assistenza sociale e di rispetto ed integrazione da parte dei leader religiosi di tutto il mondo, soprattutto in zone a rischio. Per questo, quanto si fa per favorire il dialogo e l’incontro, a qualsiasi livello, è senza dubbio parte di una strategia che può proporre la speranza alla paura. In questo, mi pare ciascuno di noi dovrebbe sentirsi impegnato, come uomo e donna, come cittadino, ma anche come membro di una comunità, sia quella famigliare che quella del quartiere o della scuola dove studiano i nostri figli. E’ anche in questo ambiente, sul territorio in cui viviamo, che si sconfiggono i fenomeni come quello di Isis.

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