Dad e disabilità

Con il lockdown nelle zone rosse si riapre il problema e le contraddizioni relative ai congedi parentali. E chi ha figli con disabilità, può andare a scuola?
Foto Marco Alpozzi/LaPresse 7 Gennaio 2021 Torino, Italia Cronaca Studenti delle scuole superiori protestano in piazza Castello a Torino, davanti il palazzo della Regione contro la didattica a distanza (DAD) Photo Marco Alpozzi/LaPresse January 7, 2021 Torino, Italy News High school students protest in Piazza Castello in Turin, in front of the Palazzo della Regione against distance learning (DAD)

Pare non esserci pace per le famiglie degli studenti italiani (e per i ragazzi stessi naturalmente), ormai quasi tutti a casa – i più fortunati in didattica a distanza, gli altri neanche quella. E non stiamo parlando solo del fatto che i congedi parentali sono retribuiti solo al 50%, e non sempre è scontato ottenerli; né solo del fatto che un lavoratore autonomo non può certo farsi bastare 100 euro settimanali di bonus baby sitter (a trovarne una, e a volersela portare in casa in questi frangenti); né solo del fatto che chi è in smart working è escluso da questi benefici – come se fosse possibile lavorare ed occuparsi di uno o più bambini contemporaneamente.

Parliamo anche del nodo che investe coloro che, sulla carta, potrebbero continuare a frequentare in presenza – ossia i bambini con disabilità e bisogni educativi speciali – e di quelli che in un primo momento si era ipotizzato potessero farlo insieme a loro, ossia i figli dei lavoratori cosiddetti “essenziali” – su tutti i sanitari, che in tutta evidenza non possono assentarsi dal lavoro in un contesto di pandemia.

Venerdì 12, con l’ufficializzazione del passaggio in zona rossa di più di mezza Italia, il ministero dell’istruzione ha infatti diramato una nota esplicativa in merito alla possibilità di proseguire la didattica in presenza per bambini con disabilità o bisogni educativi speciali, eventualmente accompagnati – a discrezione del singolo istituto – da un gruppetto di compagni. Non erano però stati inclusi in questa nota, come in un primo momento si era appunto creduto, i figli dei lavoratori “essenziali”. Vero è che i bambini che vanno in classe con un compagno disabile potrebbero, a rigor di logica, essere appunto i figli di questi lavoratori: ma al di là dell’ovvia considerazione che la soluzione è praticabile solo nelle classi in cui c’è un bambino con disabilità certificata, si aggiunge anche il fatto che ad oggi non tutte le scuole sono ancora riuscite ad organizzarsi per riaprire le porte solo a piccoli gruppi – né si sa se e quando ci riusciranno: diverse famiglie sono ancora in attesa di informazioni.

Subito è scoppiata la protesta degli interessati, medici e infermieri in particolare: che oltretutto devono per contratto – almeno quelli del Servizio Sanitario Nazionale – dare almeno cinque giorni di preavviso per chiedere il congedo – e qui sarebbero stati solo due –, che può comunque non essere concesso in una situazione di emergenza qual è appunto questa. In altri termini, rischiano di trovarsi nella kafkiana situazione di non poter né andare al lavoro perché hanno un figlio piccolo a cui badare, né stare a casa perché la loro presenza in ospedale è necessaria. Per quanto fosse informalmente circolata la voce che il ministero avrebbe ripreso in considerazione la cosa, ad oggi non si hanno ulteriori aggiornamenti.

Intanto però il presidente della Provincia Autonoma di Trento, Maurizio Fugatti, ha pensato di far da sé: emanando già sabato 13 un’ordinanza – simile a quella già emanata in Alto Adige con il lockdown dello scorso autunno – che permette di lasciare aperti nidi e scuole materne per i figli degli operatori sanitari in servizio in strutture pubbliche e private e nelle Rsa.

La cosa però non è piaciuta alle sigle sindacali. Filcams, Fisascat e Uiltucs del Trentino hanno infatti affermato che, pur comprendendo «la volontà di tutelare gli operatori sanitari», la deroga prevista dall’ordinanza provinciale «è troppo restrittiva. Ci sono tante altre categorie di lavoratori essenziali che in queste ore si trovano a fare vere e proprie acrobazie. Così si discrimina tra lavoratori ugualmente in difficoltà. Anche le cassiere come i banconisti dei supermercati non si sono fermati un giorno e anche i loro bambini sono a casa perché le scuole sono chiuse; si estenda almeno anche a loro la deroga per la frequenza di asili nido e scuole dell’infanzia» – e l’assessore provinciale alla salute, Stefania Segnana, ha infatti precisato che la Provincia sta verificando la possibilità di estendere la frequenza in presenza in asili e scuole materne anche ai figli di altre categorie di lavoratori che svolgono servizi essenziali.

Ma ancora più duro è stato il sindacato Usb del Trentino, che ha chiesto il ritiro del provvedimento: «L’ordinanza di Fugatti, che permette la frequenza di nidi e scuole materne solo ai figli del personale sanitario, è contro ogni principio costituzionale e presenta preoccupanti connotati di discriminazione sociale. Fermo restando il rispetto per medici ed infermieri oltre che per la loro professione, riteniamo questa una scelta vergognosa che crea una distinzione inaccettabile fra lavoratori oltre che introdurre un principio discriminatorio legato all’attività lavorativa». Una posizione che sicuramente ha le sue ragioni; da cui però consegue che, per evitare che alcuni abbiano il “privilegio” di mandare i figli a scuola, la possibilità di farlo non ce l’abbia proprio nessuno.

E i bimbi con disabilità? Anche qui la situazione non è così lineare. Innanzitutto, infatti, la circolare del ministero prevede che siano le scuole a valutare caso per caso se attivare o meno la didattica in presenza: in ragione del fatto che potrebbe ad esempio non essere opportuno per motivi sanitari, o non necessario in quanto la disabilità in questione non pregiudica la possibilità di seguire le lezioni in Dad nelle stesse condizioni degli altri compagni. Non esiste pertanto alcun automatismo tra la presenza di disabilità e il fatto di continuare ad andare fisicamente a scuola. Allo stesso modo, è rimessa alla valutazione degli istituti la possibilità di fare o meno accompagnare da un piccolo gruppo di compagni un eventuale studente con disabilità.

La cosa pone però un carico non indifferente in capo alle scuole e alle famiglie, rischiando di creare disparità nella disparità. Diverse famiglie e insegnanti stanno infatti facendo notare che, mentre alcune scuole hanno le risorse e più in generale la possibilità per organizzarsi in questo senso – si pensi anche solo a che cosa significa garantire il servizio di pulizie per solo poche stanze se ad occuparsene è una ditta esterna, o organizzare la didattica mista – altre invece si trovano costrette, nonostante la buona volontà, a gettare la spugna dichiarando che non ci sono le condizioni per far rientrare in aula questi gruppetti. Ciò significa che lo stesso bambino con la stessa disabilità, o lo stesso figlio di lavoratore essenziale che lo accompagna, potrebbe avere la possibilità di rientrare a scuola se ha la fortuna di frequentare un certo istituto, o non averla se ha la sfortuna di frequentarne un altro.

In tutto ciò, a rimetterci sono sempre i bimbi e le famiglie: andando ad allargare ancora di più le disparità di genere (ricordiamo che a perdere il lavoro nel 2020 sono state per il 98% donne) ed educative, e demotivando le giovani coppie, soprattutto nella loro metà femminile, ad intraprendere un percorso di genitorialità.

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