Crisi da coronavirus, l’Ue davanti ad un bivio estremo

Le istituzioni europee stanno facendo la loro parte. Il problema irrisolto, che può portare alla crisi irreversibile, resta il rapporto tra gli Stati. Decisivo l’Eurogruppo del 7 aprile
Christine Lagarde e Paolo Gentiloni (AP Photo/Olivier Matthys

Mai come ora si vede che, all’interno dell’Unione europea (Ue) ci sono due Europe: quella degli Stati e quella delle istituzioni comuni.

Partiamo dalla Commissione europea. La lettera agli italiani della sua presidente, Ursula Von der Leyen agli italiani, pubblicata su Repubblica il 1° aprile, non è stata una lettera di scuse (non ce ne voglia il titolista del prestigioso quotidiano).

È vero che la Commissione, di cui è presidente da 4 mesi, si è mossa con un certo ritardo all’inizio della crisi, quando il Covid-19 colpiva duramente – ma unicamente – l’Italia. Vero anche che la Von der Leyen ha da farsi perdonare l’intervista ad un periodico tedesco in cui ha definito i corona bond uno “slogan”. Si trattava di un dibattito interno alla politica della Germania, ma le parole di una leder mondiale hanno immediatamente ripercussioni su scala continentale.

Cosa hanno fatto le istituzioni europee?     

Le istituzioni sovranazionali dell’Ue, al netto del ritardo iniziale, fanno quello che devono, e che possono: vagonate di soldi freschi dalla Banca centrale europea (Bce) e dalla Banca europea degli investimenti, azioni concrete dalla Commissione Ue, alcune delle quali descritte dalla Von der Leyen nell’intervento citato: è grazie all’intervento risoluto di Bruxelles che ormai il materiale sanitario, mascherine in primis, non si fermano più alle frontiere nazionali ma vanno dove ce n’è più bisogno, in questo momento in Spagna; è la Commissione che ha proposto di sospendere le regole del patto di stabilità e di ammorbidire quelle sugli aiuti di Stato per permettere ai governi di prendere le prime misure urgenti in campo sanitario ed economico; è la Commissione, infine, che sta sbloccando 100 miliardi di prestiti per sostenere i regimi nazionali di cassa integrazione dei Paesi, come l’Italia, più duramente colpiti dall’epidemia (il nuovo strumento SURE) .

Il problema non è, quindi, l’Europa delle istituzioni comuni, è l’Europa degli Stati, la risposta che i governi dei 27 hanno dato e stanno dando alla crisi.

È in alcune capitali europee, e certo non a Bruxelles, che nei momenti inziali, drammatici, della crisi sanitaria in Italia, è scattato un atavico riflesso nazionale: ognuno per sé, restrizioni all’esportazione di materiale medico di cui cittadini dell’Ue, ma in altri Paesi, avevano disperatamente bisogno.La Von der Leyen, presidente dell’istituzione che rappresenta l’interesse comune, non può certo prendere la responsabilità delle azioni dei governi nazionali e scusarsi a nome loro.

La sfida che l’Ue si trova oggi ad affrontare è dell’Ue: è quella di reagire alla crisi sanitaria, e alla crisi socio-economica ad essa collegata, come una zona unica. Siamo tutti sulla stessa barca come dice papa Francesco: questa crisi ci colpisce tutti, ne usciremo solo insieme. Già è cominciato, in molti Stati membri dell’Ue, a subentrare un altro riflesso, quello della solidarietà: pazienti in condizioni gravi trasportati d’urgenza in ospedali di un altro Stato, come è avvenuto in Italia tra regione e regione.

L’egoismo non paga

Sono gli Stati, soprattutto, che dovranno mettere mano al portafoglio. Come ha affermato Mario Draghi, ex presidente della Bce, nel suo intervento sul Financial Times del 25 marzo, i bilanci dei governi devono intervenire, e rapidamente, per assorbire la perdita di reddito dei bilanci privati – delle imprese e delle famiglie – causata dalla temporanea chiusura di una vasta porzione delle attività produttive. Bisogna agire in modo coraggioso, avverte Draghi, se non si vuol rischiare che la recessione alle porte si trasformi in una depressione duratura.

Non solo: la portata dell’intervento deve essere di proporzioni senza precedenti. Di fronte al pacchetto di stimolo iniziale da 2.000 miliardi di dollari che gli Usa stanno mobilizzando, i 100 miliardi di euro dello strumento Sure, pur necessari, sono poca cosa, e servono misure molto più massicce per preservare la struttura economica europea e la sua posizione nei confronti dei competitor mondiali.

È proprio questo coraggio che manca, ancora, ai governi nazionali: i capi di Stato e di governo dell’Ue, riuniti in videoconferenza il 26 marzo, non sono riusciti a mettersi d’accordo su un pacchetto di misure basate sulla solidarietà tra Stati (come i famosi corona bond), per permettere a quelli più fragili, come l’Italia, di contrarre nuovo debito per far fronte alla crisi alle migliori condizioni, cioè quelle della Germania, senza avere sulle spalle il fardello addizionale dello spread. Il Consiglio europeo ha viceversa incaricato l’Eurogruppo (i ministri delle finanze della zona euro), di trovare soluzioni innovative entro il 7 aprile.

Come dopo una guerra  

Tra queste soluzioni non è al momento ipotizzabile che ci siano i corona bond, cioè l’emissione di titoli di Stato garantiti dai 27, per l’opposizione radicale di alcuni paesi, tra cui Olanda, Finlandia e Austria (e, con posizioni eventualmente più morbide, la Germania), che vedono nell’alto debito dei paesi del sud dell’Europa una sorta di peccato, che i mercati si incaricano di punire. Più probabile è l’intervento del fondo salva-Stati (il Meccanismo europeo di stabilità, Mes), con modalità inedite, cioè una condizionalità light secondo cui sarebbe sufficiente che i fondi messi a disposizione degli Stati siano usati per far fronte alla crisi sanitaria e le sue conseguenze. Tuttavia i fondi del Mes non sono infiniti, ed esiste il rischio  che alcuni governi che, a causa dell’alto debito (è il caso dell’Italia), hanno una capacità d’azione più limitata, debbano andare a cercare importanti risorse supplementari alle condizioni di mercato (con lo spread).

Draghi prevede che «livelli di debito pubblico più alti diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie». Occorrerà che tali livelli di debito siano sostenibili, senza strangolare a loro volta le economie dei Paesi più fragili. E questo non sarà possibile senza uno slancio di solidarietà tra Stati membri dell’Ue, al momento sconosciuto.

In questi giorni Jacques Delors, uno dei padri fondatori dell’Ue come la conosciamo, presidente della Commissione a cavallo degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, è intervenuto per affermare, con gravità: «Il clima che sembra regnare tra i capi di Stato o di governo e la mancanza di solidarietà europea rappresentano un pericolo mortale per l’Unione europea».

L’Ue, che è cresciuta rinnovandosi attraverso le crisi, è a un bivio. Se saprà darsi uno scatto di solidarietà senza precedenti, di fronte ad una crisi senza precedenti, senza lasciare nessuno per strada, non solo sopravvivrà ma sarà più forte.

Le si chiede oggi nulla di meno che lo sforzo di generosità e di immaginazione che ha permesso, all’indomani della seconda guerra mondiale, a nemici secolari di stringersi la mano e cominciare un cammino comune. È l’occasione, per i leader nazionali, di diventare degli Schuman, dei De Gasperi, degli Adenauer. Con la differenza che, mentre i leader che hanno costruito l’Europa nel dopoguerra hanno agito sostanzialmente da soli, oggi sono anche i popoli europei, tutti i popoli, che devono partecipare a questo slancio di solidarietà e di generosità.

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