Cosa sta accadendo veramente nel Mediterraneo?

Davanti ai numeri e agli slogan, tra speranze e paure, tra accoglienza e rifiuto, cerchiamo di non perdere di vista le storie delle persone reali. Su come i mass media rappresentano questa tragedia, il parere di Raffaella Cosentino (dal sito di NetOne)
Migranti

Oggi è la giornata mondiale del rifugiato, promossa dall’Alto Commissariato della Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). Sulla comprensione reale del fenomeno migratorio, presso l’opinione pubblica in particolare, molto peso hanno le rappresentazioni offerte dai mass media, anch’esse influenzabili. Ne abbiamo parlato con Raffaella Cosentino autrice del volume Immigrazione (Città Nuova).

 

«Siamo passati da una descrizione che si concentrava sull’uso del termine “clandestino”, che è fuorviante e abbastanza razzista, al non usare più questa parola. La svolta per i media italiani è stata innescata dalla visita di Papa Francesco a Lampedusa, perché il Pontefice, con l’impostazione che ha dato sul fenomeno delle migrazioni e dei rifugiati, ha spinto tutti ad essere più cauti, anche se c’è qualcuno che ancora uso questo termine. Quello che non è cambiato è la tendenza a raccontare il fenomeno come un’emergenza, un’ondata, con toni allarmistici, e che si concentra su un pallottoliere di numeri. Ora si dice “un milione arriveranno, 500mila arriveranno”, per concludere che “non c’è più posto, è il caos”. Ma così si perdono di vista le storie delle persone, le cause di questo fenomeno. Sono appena rientrata da un’esperienza su una nave privata che fa soccorso ai gommoni in mare al largo della Libia. Visto da lì il fenomeno ha un’altra prospettiva: ci sono persone coraggiose che sono degli eroi, e accanto alle marine militari e alla guardia costiera italiana, che sono chiamati a questo compito, ci sono soggetti privati e volontari che si impegnano nel salvare persone in mare e questo è incredibile. Di fronte a questo sforzo, a tante vite perse in mare, ridurre quello che sta accadendo al “non c’è più posto” è disumano».

 

Quali conseguenze comporta una tale rappresentazione?

«Le persone non capiscono cosa accade nel Mediterraneo dove è in corso una vera e propria guerra, e comunque si tende a focalizzare l’attenzione sulla mancanza di risorse rispetto al numero di persone in arrivo, che invece è relativamente piccolo. Si tratta poi di persone che vengono dalla Libia – per esempio – dove è impossibile restare perché le condizioni sono atroci, fra torture e pressioni, tanto che spesso non resta loro che affidarsi ai trafficanti, anche sotto la minaccia delle armi: vengono stipati nei gommoni all’inverosimile e buttati in mezzo al mare con l’idea che moriranno. E allora c’è questo sforzo incredibile di trovare i gommoni, arrivare in tempo per salvare i migranti, tirare sui bambini dall’acqua prendendoli per i capelli. Di fronte a questo, per un paese come il nostro, che pur in declino resta opulento, dire che non abbiamo risorse significa prestare il fianco a movimenti politici razzisti che perseguono solo il loro interesse».

 

Citando il Papa, lei parla del rischio della “globalizzazione dell’indifferenza”: come prevenirlo?

«Spiegando quello che succede e raccontando le cause dei fenomeni. Però secondo me si tratta di un problema culturale è più ampio, di aver perso i valori di riferimento, di aver perso in umanità, ed è qualcosa che va oltre il giornalismo, perché noi possiamo anche raccontare le storie ma serve che dall’altra parte ci siano persone pronte ad ascoltare e che non abbiano il cuore chiuso. Se abbiamo fatto qualcosa come italiani di cui andare orgogliosi in questi anni è proprio l’operazione di salvataggio delle persone in mare: nel 2014 l’Italia ha salvato 170mila persone da sola, e solo dopo sono venute in aiuto navi da altri Paesi europei. È stata l’Italia a dare il via a questa operazione ma è un peccato che la cosa non venga raccontata bene e che gli italiani non riescano a recepirlo e ad essere orgogliosi del nostro paese».

 

Di fatto non sappiamo nulla dei migranti che arrivano sulle nostre coste ma soprattutto di quelli che non sopravvivono al viaggio. Cosa perdiamo in questa rappresentazione riduttiva?

«Il punto fondamentale è che non si fa capire alle persone che le migrazioni forzate sono tali perché le persone non scelgono volontariamente di venire. Ci si è persi nella distinzione fra migranti e economici e rifugiati che, per quanto riguarda il flusso proveniente dalla Libia, è del tutto fuorviante: è vero che al momento non c’è la guerra, come in altri paesi dell’Africa subsahariana, e in molti fra quelli che partono lavorano in quei paesi, ma le condizioni sono tali – e i loro racconti lo confermano – che di fatto hanno pochissima scelta e anche loro sono migranti forzati. Le persone che dicono “statevene a casa vostra” non capiscono che se potessero resterebbero a casa loro. Non posso accettare che una persona sia libera di fuggire dalla guerra ma non dalla fame, che non debba morire sotto le bombe ma possa morire di fame, come se la fame fosse una cosa che qualcuno sceglie. Invece accade spesso che la fame, la siccità, le carenze alimentare siano dovute anche a cambiamenti climatici magari indotti dai paesi occidentali».

 

La responsabilità dei media – nel racconto delle migrazioni – risiede poi anche nella loro capacità di influenza sul mondo della politica: fu dopo la strage di Lampedusa, nell’ottobre 2013 – che vide 366 migranti morti – che il governo italiano avviò l’operazione Mare Nostrum…

«Sicuramente i media influenzano la percezione dell’opinione pubblica, per questo servono risorse e capacità di visione, ma questo nel panorama mediatico italiano non c’è, perché risente del declino culturale del paese. Un aspetto che viene taciuto ad esempio è il fatto che in Italia si abbassa il numero della popolazione attiva, ovvero i giovani che lavorano e pagano le pensioni degli altri e fra qualche anno non avremo abbastanza immigrati per supplire a questa carenza. Abbiamo giovani volenterosi che arrivano dall’Africa e vogliono semplicemente lavorare per mandare soldi alle loro famiglie: potremmo fare tesoro di questa risorsa, favorire l’inserimento regolare di queste persone perché possano dare quel contributo che sono molto motivate a dare – anche perché in genere fanno lavori non qualificati che gli italiani non vogliono più fare – e non trattarle come un problema da affrontare con misure emergenziali».

 

Con quale atteggiamento deve porsi il giornalista chiamato a raccontare l’ennesimo sbarco o la condizione dei migranti nei campi profughi?

«Direi di guardare a queste persone appunto come persone non come categorie di “migrante” o “clandestino”, e di porsi alla pari per poterle raccontare».

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