Cosa fare dell’Ilva di Taranto ?

Mentre l’attenzione è rivolta al processo penale “Ambiente svenduto” il governo Renzi ha deciso di sostituire il commissario straordinario dell’Ilva. Con quali conseguenze? Intervista al professor Vincenzo Comito
Ilva operaio

Con quasi 800 richieste di costituzione di parte civile, è iniziata, e subito rinviata al 16 settembre, l’udienza preliminare relativa al maxiprocesso sul disastro ambientale di Taranto che vede oltre 50 imputati tra persone fisiche e giuridiche. Un’intera classe dirigente è chiamata a difendersi non solo dalla condanna penale ma anche dalle richieste di risarcimento danno per decine di miliardi di euro.

Oltre il clamore per il processo denominato ufficialmente “Ambiente svenduto”, gli occhi sono puntati sul futuro dello stabilimento dell’Ilva dopo la scelta del governo Renzi di sostituire il commissario Enrico Bondi con Pietro Gnudi. La manovra rimanda alle diverse strategie industriali e finanziarie che coinvolgono il mondo bancario e che avranno un impatto immediato sulla città di Taranto e sul destino della siderurgia italiana.

Abbiamo chiesto il parere di Vincenzo Comito che, con Riccardo Colombo, ha scritto una recente pubblicazione su “L’Ilva di Taranto e cosa frane. L’ambiente, la salute e il lavoro”. Comito è docente di finanza aziendale presso l'Università di Urbino.

Per alcuni osservatori, con la sostituzione del commissario straordinario operata dal ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, sembra arrivata la fine dell'Ilva…

«Anche a mio giudizio l’operazione faciliterà lo smembramento dell’Ilva: il grosso (Taranto) andrebbe agli indiani di Arcelor Mittal, i quali, con la capacità produttiva già in esubero in Europa, ridimensioneranno l’impianto. Il resto andrebbe agli italiani (gruppo Marcegaglia). Non è detto che questo disegno si realizzi anche perché è fortemente censurabile».

Siamo davvero davanti ad una sovrapproduzione dell'acciaio nel mondo?

«Esiste, in generale, una sovrapproduzione di acciaio. In Cina, che produce da sola la metà dell’acciaio mondiale, è in corso un processo di ristrutturazione che sta portando alla chiusura di molti impianti. In Europa la sovraccapacità è molto evidente».

Come si legge la vicenda di Taranto nel contesto italiano e europeo?

«Siamo davanti ad un altro settore, quello dell’acciaio, che sta passando nelle mani dei produttori asiatici. Si può resistere solo con rilevanti investimenti mirati ad innalzare la qualità delle produzioni e a incentivare la riconversione ecologica».

È realisticamente ipotizzabile una riconversione ecologica del sito di Taranto come è avvenuto con il bacino della Ruhr in Germania? Con quali risorse e strategie?   

«La riconversione ecologica è certamente, a mio parere, possibile, come mostrano altri casi nel mondo, ma non ci sono in Italia le risorse necessarie allo scopo. Bisogna certamente coinvolgere qualche grande produttore mondiale nel progetto Ilva, ma Arcelor Mittal mi sembra inadeguato. Bisognerebbe rivolgersi ai gruppi industriali cinesi o coreani. Ad un grande produttore straniero si dovrebbero associare anche capitali pubblici italiani, come ad esempio la Cassa Depositi e Prestiti, per tutelare gli interessi nazionali. Ben vengano anche società private nazionali purché siano disposte ad investire capitali contanti».

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