Cosa dice la nuova legge elettorale

Approvata con il voto di fiducia tra polemiche e dubbi costituzionali. Una prima analisi sul sistema di voto che determinerà il prossimo Parlamento concentrandoci su tre punti: il voto di fiducia, il contenuto della legge, il Parlamento che ne potrebbe derivare

Allora, abbiamo una nuova legge elettorale, il “rosatellum”. Il rito delle votazioni nei due rami del Parlamento, con voti di fiducia, è stato accompagnato da proteste interne alle Camere e nelle piazze romane, oltre che in quelle virtuali. Poiché la legge uscirà in Gazzetta Ufficiale e vincolerà tutti noi, è saggio fare un passo indietro rispetto alle convinzioni personali e analizzare la situazione con sano distacco concentrandoci su tre punti: il voto di fiducia, il contenuto della legge, il Parlamento che ne potrebbe derivare.

Sul voto di fiducia, non è piaciuto a nessuno per più di un motivo: ha consolidato il precedente, inaugurando anche la doppia fiducia; è stato posto non alla fine di una doverosa discussione in Assemblea bensì prima che questa si svolgesse, lasciando spazio solo alle dichiarazioni di voto; ha contribuito a rendere le regole elettorali un fatto di parte, anzi di una parte (per quanto larga) contro un’altra, aggiungendo elementi alla spaccatura del Paese. Naturalmente per chi l’ha voluta, tout se tient: la necessità di dare regole comuni alle due camere, i tempi di fine legislatura che incalzano, le trappole del voto segreto, hanno imposto quella scelta: il lavoro sporco qualcuno deve pur farlo.

Un sistema complesso 

Riguardo i contenuti, abituiamoci anche qui a sentire alcuni refrain: la legge elettorale perfetta non esiste, una scelta va compiuta e sempre si scontenterà qualcuno, questa è la migliore possibile. È anche una buona legge, che reintroduce i collegi uninominali cosicché le candidature dovranno essere di livello; e poi promuove le coalizioni tra partiti, il che è fondamentale per la governabilità. Ora, a essere onesti e non faziosi, sui contenuti c’è da dire che dietro questo innegabile impianto si nasconde una realtà che alla fine rischia di negare quelle premesse. I collegi uninominali sono poco più di un terzo (il 37,5%, per l’esattezza), che in numeri vuol dire 232 deputati su 630 e 116 senatori su 315. I restanti 398 deputati e 199 senatori sono eletti in collegi plurinominali a liste bloccate. Pertanto, se la campagna elettorale  si svolgerà esibendo il buon candidato al collegio uninominale, è bene che noi cittadini lo guardiamo come si guarda una locomotiva, avendo presente cioè che dietro ci sono altri vagoni e che la sua elezione si trascinerà dietro altri candidati che non possiamo scegliere (si badi: ad ogni collegio uninominale corrispondono uno o più collegi plurinominali, il che costituisce anche una specie di rovesciamento dell’impianto classico del collegio uninominale, territorialmente piccolo). Il pacchetto infatti è preconfezionato: candidato al collegio uninominale e liste che lo sostengono formano un tutt’uno e l’elettore voterà o la lista (dando così il voto anche al candidato nel collegio uninominale) o il candidato, dando in questo caso il voto a tutte le liste che lo sostengono, che si ripartiranno questo pacchetto di voti pro quota a seconda delle percentuali che ciascuna ha raggiunto. Si può anche barrare sia una lista che il nome del candidato collegato, ma è un esercizio superfluo: il voto alla lista si porta automaticamente il voto al candidato. Quello che non si può fare è barrare una lista e un candidato di altra lista o coalizione: il voto sarebbe nullo.

Dibattito sul rispetto della Costituzione 

Ora, su questo metodo di espressione del voto si è già aperta la tenzone della costituzionalità/incostituzionalità. Che dire? Di per sé il voto congiunto non è incostituzionale, perché ha una sua ragionevolezza nel promuovere la coesione parlamentare delle forze politiche. Nell’attuazione del “rosatellum” qualche profilo dubitativo emerge nel meccanismo di attribuzione dei seggi, talmente complesso che l’elettore non è davvero in grado di sapere chi contribuirà ad eleggere con il suo voto. Una prima disamina si è svolta tra i professori chiamati in audizione presso la Commissione Affari costituzionali del Senato e la lettura delle varie posizioni induce a qualche riflessione, a partire da un elemento concettuale di fondo che determina l’uno o l’altro convincimento. Non ravvede problemi di conformità costituzionale chi pone al centro del sistema i partiti. Sentiamo il prof. Caravita, che addirittura ribalta la questione: «Il voto unico mantenendo forte il collegamento tra eletti e partiti è funzionale al buon funzionamento della forma di governo parlamentare, più di quanto lo sia il voto disgiunto, che privilegia il rapporto eletto-territorio a scapito del rapporto eletto-partito, sicuramente favorendo i fenomeni di pellegrinaggio parlamentare che infestano le nostre istituzioni. E, allora, siamo proprio sicuri che il voto disgiunto rispetti l’art. 49 e l’art. 94 e non introduca invece un vulnus rispetto a due articoli, che sono cardine della nostra forma di governo?». Chi invece pone al centro della questione il cittadino, vede un sistema che opera una delega eccessiva ai partiti, fattisi depositari della scelta dei candidati, fruitori degli abbinamenti forzati risultanti dal voto congiunto e anche dei meccanismi di riparto dei seggi, roba per iniziati.

Quale delle due tesi è più plausibile? A questa domanda non è possibile rispondere, perché entrambe sono forti di elementi convincenti: lasciamola quindi ai giudici, che verranno certamente investiti.

Il pericolo della casta 

Noi però non eviteremo di tirarci indietro dalle considerazioni politiche che ci competono come cittadini, parti in causa.

È verissimo che la Costituzione ha posto al centro del nostro sistema democratico i partiti, ma come si fa a negare che negli ultimi lustri si è scavato un solco tra i cittadini e i partiti stessi? E che a scavare questo solco ha contribuito non poco anche la legge elettorale che ha inaugurato le liste bloccate per eleggere il Parlamento? Da quella legge, infatti si è operato lo spostamento definitivo dell’attenzione del parlamentare dai cittadini alle segreterie del proprio partito. Ecco che è invalso il concetto di “casta”. Per un popolo, vedere il proprio Parlamento come una casta è una malattia mortale (potremmo leggere sotto questa specie anche il rinascente regionalismo). Eppure, questa sembra essere una preoccupazione totalmente assente dagli orizzonti di coloro che hanno approvato questa legge, che invece rischia di accrescere quel solco fino a rasentare la sua incolmabilità. Magari, conformemente a Costituzione.

Si obietterà: è vero, c’è un sacrificio di rappresentatività, ma almeno con questa legge ci sarà più governabilità perché spinge le forze politiche a stringere coalizioni. E qui veniamo al terzo punto. Fa male dirlo, ma questa è una aberrazione che la legge provoca, speriamo non intenzionalmente. La parola coalizione non appartiene al “rosatellum”, che si limita a prevedere un collegamento tra liste, senza un programma unitario. L’unica cosa che le liste collegate hanno in comune è il candidato nel collegio uninominale, il quale però non sarà mai figlio di nessuno: una volta entrato in parlamento si iscriverà al gruppo del suo partito. Perché, ovviamente, ogni partito formerà il proprio gruppo parlamentare, come è sempre stato. Certo, se più liste collegate raccogliessero il 50 per cento dei parlamentari più uno, allora si, rimarrebbero unite per governare. Ma il tripolarismo in cui si scompone l’elettorato italiano rende estremamente difficile questa eventualità: il prof. D’Alimonte ha calcolato che per avere la maggioranza di due seggi alla Camera (317 su 630) è necessario prendere il 40 per cento di seggi al proporzionale e il 70 per cento all’uninominale. In sostanza, una volta entrati in parlamento, ogni partito sarà libero di andare a formare la maggioranza che ritiene: quindi i raggruppamenti tra liste vecchie e nuove che si  stanno costituendo, non è sbagliato vederli più vicini a un cartello elettorale che a una coalizione.

 

 

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