Comunicare la fede on line. Intervista a Juan Narbona

Abbiamo fatto alcune domande a Juan Narbona, giornalista e professore di Comunicazione digitale alla Pontificia Università del Sacro Cuore, a proposito del suo ultimo libro, Comunicare la fede. Strategie digitali per istituzioni ecclesiali e realtà religiose (Città Nuova 2020), una guida destinata a chi è impegnato a annunciare in rete il messaggio religioso, scritta a partire dall’idea che comunicare, per un cristiano, non è tanto un’attività ma un modo di stare al mondo.

 

Nel primo capitolo del libro racconti la vicenda di Paolo Longo, parroco di Polla (comune in provincia di Salerno), che durante il primo lockdown imposto dall’emergenza covid, ha celebrato una messa in streaming su Instagram, attivando, per sbaglio, una funzionalità dell’applicazione che permette al telefono di aggiungere elementi buffi (baffi, occhiali, caschi e cappelli) alla diretta; così facendo ha trasformato la funzione in un’esperienza surreale e virale. Cosa succede, ti domando allora, quando la fede viene comunicata male?

 

L’aneddoto ricorda una situazione buffa che può capitare a chiunque e che dimostra come la mancanza di preparazione possa rovinare perfino il messaggio più bello. Comunque, don Paolo ha ricevuto anche molte parole d’incoraggiamento perché è rimasto chiaro il suo zelo a non abbandonare i propri parrocchiani in quei giorni difficili. In questo caso la fede è stata comunicata male per un errore tecnico, ma spesso la stessa cosa accade per motivi più gravi, come la trasmissione di un contenuto noioso, irrilevante o autoreferenziale. Spesso ci fidiamo molto della indubbia “qualità” del messaggio cristiano, ma non basta. Se in qualcosa possiamo collaborare con Dio nella trasmissione della fede è nel nostro impegno per trasmetterla bene. La società non ascolta più ciò che non sembra interessante. Bisogna cercare parole nuove, offrire storie accattivanti, capire il contesto in cui siamo ascoltati, adoperare nuovi canali… E questo è un compito necessario ora che, con la rivoluzione digitale, in pochi anni sono cambiati i gusti, i toni, i tempi, i flussi e le abitudini. È un compito per cui serve professionalità e persone preparate e flessibili, che amino la Chiesa e la comunicazione.

 

La rete è uno spazio in cui ciascuno di noi comunica con altri utenti senza avere la certezza di parlare a qualcuno con cui si condividono valori o una certa sensibilità rispetto al mondo. Questa situazione è molto spesso alla base di quello che gli analisti della comunicazione definiscono hate speech, ossia le espressioni di odio che corrono sui social. Esiste un atteggiamento in grado di arginare questa deriva?

 

L’atteggiamento ideale è il rispetto, parola che originariamente significava «guardare indietro da lontano». Indietro, perché per guardare l’altro bisogna prima distogliere lo sguardo dalla propria realtà individuale, smettere di stare attaccati alle proprie sicurezze e provare a capire chi non la pensa come noi (per esempio, leggendo attentamente i suoi post o commenti e scovando ciò che c’è di vero in essi prima di rispondere). E da lontano: mai come ora abbiamo avuto la possibilità di scambiare idee su argomenti polarizzanti con persone che hanno valori e vivono in contesti molto diversi dai nostri. A questa distanza “interiore” se ne aggiunge una “fisica”: non sentiamo i toni della voce né vediamo i gesti (che molte volte possono riempire di umanità un’opinione che consideriamo sbagliata) dei nostri interlocutori. La rete mette alla prova la nostra capacità di rispettare gli altri, ma anche di meritare il rispetto. Bisogna confidare nell’autorità che offrono le opinioni serene e il dialogo, rinunciando per esempio a “sconfiggere” l’altro. L’unica altra alternativ possibile è parlare unicamente con chi la pensa come noi, costruendo una sorta di “arca di Noè morale”, dove condanniamo al diluvio chi rimane estraneo rispetto alle nostre posizioni. Ma questo atteggiamento non può funzionare, perché la fede richiede ossigeno, dialogo, apertura; anzi, marcisce quando la si prova a rinchiudere.

 

Tim Berners-Lee, l’informatico inglese considerato il padre della rete, si è spesso lamentato della sua creatura, dichiarando pubblicamente che internet, oggi, non corrisponde a quello che lui sognava, ma è invece diventato un luogo corrotto da egoismi umani e interessi commerciali. Cosa ne pensi di questa lettura? E quale pensi debba (e possa) essere il ruolo dei cristiani di fronte a questa novità assoluta?

 

La rete è un sogno fatto realtà. È normale, pertanto, che chi è stato il primo a sognare sia oggi tra i più delusi. Ma capita con qualsiasi realtà umana: prima o poi ci si scontra con i limiti personali o con le ambizioni disoneste proprie e degli altri. Ma non bisogna scordare il sogno iniziale, perché è una guida da inseguire ancora, un ideale che serve da bussola. Il realismo cristiano ci incoraggia a mettere in risalto gli aspetti positivi della rete, senza dimenticarne ingenuamente i pericoli. Penso che dobbiamo avere più fiducia nella capacità della fede di trasformare tutte le realtà, anche internet e il mondo che verrà fuori da questa rivoluzione. Spesso tendiamo a proteggere la fede dai pericoli, quando invece dovrebbe servirci per crescere di fronte alle sfide. Rete e fede sono due rivoluzioni che agiscono potentemente su di noi e che si possono illuminare a vicenda.

 

Potresti elencarmi tre errori che chi ha il compito di comunicare il messaggio di fede dovrebbe evitare di commettere nell’impostare un piano di comunicazione digitale?

 

Il primo errore è non avere un piano di comunicazione. Mi piace accostare internet all’Amazzonia. Sono entrambi spazi vastissimi, pieni di risorse e promesse, misteriosi. Ma proprio questa ricchezza e abbondanza rendono necessario un piano: bisogna sapere cosa si vuole ottenere in rete, quale percezione si desidera modificare, a quale pubblico si vuole arrivare. Altrimenti ci si perde e si lavora invano. Il secondo errore è l’improvvisazione: pensare che chiunque possa gestire un canale digitale e che non vale la pena investire tempo e denaro nella loro gestione, perché tanto tutti sappiamo aprire un blog o pubblicare su Instagram. Un terzo errore sarebbe lasciarsi portare dall’ansia di dire cose, dimenticando che comunicare è anche ascoltare, conoscere le inquietudini della gente, intercettare le loro domande, capire le loro richieste. Internet facilita tale ascolto: i commenti degli utenti, i blog degli esperti, gli influencer che agiscono sull’opinione pubblica, i dati statistici del nostro sito che rivelano cosa piace e cosa non piace… Per tornare alla comunicazione della fede, possiamo dire che l’Ascolto deve precedere e seguire l’Annuncio. E questo secondo esercizio è forse più impegnativo.

 

Non di rado, purtroppo, le conversazioni in Rete si trasformano in vere e proprie risse digitali e il litigio, ormai lo sappiamo, non fa altro che distrarre gli utenti dalle argomentazioni, cioè dall’oggetto del dibattere, per poi trasformarsi esso stesso in centro e cuore pulsante della comunicazione (ne sanno qualcosa tanti talk show e salotti televisivi). Potresti darci qualche consiglio utile per imparare a dissentire senza scontrarci?

 

Spesso parliamo di argomenti difficili, che richiederebbero processi lunghi per essere compresi appieno. Inoltre, internet ha aumentato l’urgenza di risolvere questioni. Penso per esempio al recente dibattito in rete su un cartello pubblicitario a Milano che ricordava che la pillola abortiva è un veleno. In una frase – cinica e tagliente, il più delle volte – pretendiamo di smontare argomenti che si oppongono ai nostri. In questi casi, il primo consiglio sarebbe rinunciare alla pretesa di vincere battaglie online. Ma allora serve dialogare in rete? Certo! Aiuta a mantenere vivi argomenti complessi di cui è bene che si parli in società, ci obbliga a migliorare le nostre spiegazioni e ci mette nelle condizioni di doverci impegnare per capire le ragioni altrui. Ricordiamoci che in rete non risolveremo le questioni più delicate, ma possiamo avvicinarci all’altro. Un altro consiglio, oltre a mantenersi nell’oggetto del dibattito, sarebbe cercare i punti d’incontro (la sofferenza delle donne che devono ricorrere alla pillola, ad esempio) oppure menzionare esplicitamente aspetti positivi dello scambio di opinioni che umanizzano la conversazione e aiutano a lasciare le porte aperte al dialogo futuro («Ti ringrazio perché mi hai fatto vedere il problema da una prospettiva diversa»). Inoltre, per facilitare il dialogo bisogna evitare di semplificare le opinioni contrarie alle nostre o inquadrare mentalmente l’opponente in una categoria (ad esempio le femministe radicali, o il bigotto, o il liberale…) che, inevitabilmente, condizionerà il nostro atteggiamento. Tacere, modificare un commento prima di rispondere, evitare critiche ingiuste, frammentare con pazienza le nostre spiegazioni sono tutte maniere in cui la carità –il valore cristiano più alto – può farsi presente nei nostri dialoghi online.

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