Il coronavirus spazza via le ideologie

Mentre i governi di fede neoliberista applicano ricette keynesiane, quelli più statalisti sono restii a fare intervenire la spesa pubblica. Il coronavirus obbliga gli economisti a rivedere le proprie convinzioni.

Poco prima che iniziassero le proteste sociali che hanno messo in subbuglio il Cile – ma anche altri Paesi latinoamericani come la Colombia, Haiti, Bolivia, Ecuador, Perù, dalle pagine del Mercurio, storico mezzo stampa cileno, non senza certa arroganza, si consigliava ai critici della riforma tributaria promossa dal governo di studiare meglio l’economia. Le critiche erano dirette all’intenzione di ridurre l’imposta corporativa agli utili aziendali, che dall’attuale 9,45% sarebbe scesa praticamente a zero, con benefici per i settori più ricchi. Per il giornale era evidente che ridurre i tributi fa lievitare gli investimenti.

In realtà, di tale “evidenza” non appaiono dati empirici che la confermino. Semmai, gli studi al riguardo dicono il contrario, mentre chi ci rimette sono le entrate fiscali e i servizi pubblici. Non è un caso che, sotto l’onda della protesta sociale, tale punto della riforma tributaria sia stato poi prudentemente cancellato. Saggia decisione che, nel momento in cui il governo sta mobilitando risorse per far fronte all’emergenza scoppiata con la pandemia, tale riduzione di imposte sarebbe stato un boomerang politico e finanziario.

Infatti il Cile figura oggi tra i Paesi della regione che stanno destinando più risorse alla crisi, pari al 6% del Pil (prodotto interno lordo, ossia, la somma del valore di beni e servizi prodotti durante un anno), circa 18 miliardi di dollari. Viene superato da Brasile e Perù che hanno impegnato rispettivamente il 7 ed il 12% del proprio Pil.

Una condotta che si direbbe logica, se non fosse per il fatto che suppone un notevole cambio di rotta ideologico di governi di marcato stampo neoliberale. Presidenti come il brasiliano Jair Bolsonaro e il cileno Sebastián Piñera sono convinti assertori di uno dei dogmi del neoliberismo: la capacità del mercato di far fronte ad ogni evenienza e la necessità di limitare il più possibile il ruolo dello Stato. Ma, da quando è scoppiata l’emergenza contagio, frenando o fermando le industrie, a intervenire per assorbire gli effetti negativi sono stati gli ammortizzatori sociali finanziati dal portafoglio statale. Anche in Colombia il governo neoliberista di Iván Duque ha messo mano ai sussidi per garantire un reddito minimo ai settori più vulnerabili impegnando il 2% del Pil, mentre Panama è ricorso al 3%. Riscossione di imposte sospese, congelamento delle tariffe dei servizi, in vari casi sospensione del pagamento di questi, sussidi diretti sono tra le misure prese.

Si può parlare di un cambiamento in senso keynesiano della politica pubblica di questi Paesi, alludendo a J.M. Keynes, l’economista britannico che meglio comprese che la via d’uscita dalla crisi successiva al crack di Wall Street del 1929, stava nell’incrementare la spesa pubblica, anche via indebitamento, con interventi destinati a garantire le entrate dei più poveri.

Ma i cambiamenti di rotta si stanno verificando anche tra i governi di segno opposto. In Messico, Nicaragua ed Ecuador, si è al contrario restii a ricorrere all’intervento statale. Il Messico, tra le prime dodici economie del pianeta, ha destinato appena l’1% del suo Pil alla crisi. Se in Nicaragua il problema è convincere il governo dei molteplici rischi del virus, in Ecuador siamo davanti a una situazione più complessa. Il numero dei contagi potrebbe esser ben più alto, mentre l’economia annaspa da tempo. Il presidente Lenin Moreno ha spedito in Parlamento un progetto di legge che crea due fondi, uno alimentato da prelievi fiscali alle imprese con utili superiori al 900 mila euro, da destinare ai settori produttivi in crisi; l’altro col contributo dei salariati con stipendi al di sopra dei 450 euro, per aiutare i settori più poveri. Il controllo di questi fondi sarebbe affidato a rappresentanti della società civile.

In un caso e nell’altro, si sta pragmaticamente mettendo da parte le ideologie per far fronte all’emergenza. Ma non dovrebbe sfuggirci un’osservazione: scartare una posizione ideologica è una cosa, ma scartare quanto insegnato dai manuali di economia è un’altra storia. Induce al sospetto che le teorie spesso insegnate fossero più ricette ideologiche che scientifiche. Cioè, una scienza economica che funzionerebbe (il condizionale è d’obbligo) solo in caso di situazioni economicamente favorevoli. Non sarà che il coronavirus sta cominciando a far piazza pulita anche delle ideologie spacciate per scienza? Questo suppone un’enorme sfida per gli economisti, i quali dovranno rivedere gran parte delle loro convinzioni. In un senso o nell’altro, per comprendere meglio come mettere l’economia al servizio del vero sviluppo. Dovrebbe essere uno degli obiettivi della fase 2 nella pandemia.

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