Coronavirus, scoperta la cura?

L'Università di Oxford ha mostrato i sorprendenti benefici di un farmaco molto diffuso e poco costoso, il Desametasone, per la cura del coronavirus. Fra tanti farmaci la strategia vincente è la riscoperta della cura, di se stessi e degli altri, con l’attenzione puntata sul paziente.
Reparto terapia intensiva AP Photo/Petr David Josek)

Da alcune ore uno studio dell’Università di Oxford è sulle prime pagine dei quotidiani online: un farmaco dal costo irrisorio riduce la mortalità da Covid-19 più di qualsiasi altro prodotto studiato finora.

Apparentemente è l’ennesima “non-notizia” di questi mesi di pandemia. È da fine febbraio, infatti, che quasi ogni giorno – nella lotta a questo virus del tutto sconosciuto e dal comportamento ancora oggi misterioso e contraddittorio anche per i virologi – la notizia da prima pagina è quella dei risultati ottenuti con farmaci e procedure “sperimentali” (l’idrossiclorochina, gli antivirali, l’eparina, il plasma, gli anticorpi monoclonali… tutti ne abbiamo sentito parlare).

Ora agli onori della cronaca sale un vecchio e usatissimo farmaco, un cortisonico che di nome fa “Desametasone”. Eppure, nei primi giorni della pandemia una delle poche certezze era quella di «non usare i cortisonici perchè riducono le difese immunitarie». Che cosa è successo? 

Attenzione, non è la miracolistica scoperta del farmaco usato per intuizione geniale o per caso o per errore, come nei film. Non sarà neanche “la” soluzione al Covid-19: il cortisone sembrerebbe agire in una fase molto particolare di quel meccanismo conosciuto solo in parte con cui il virus ad un certo punto scatena una grave “tempesta immunitaria”, da cui la cascata di eventi drammatici che purtroppo abbiamo imparato a conoscere nella tragedia di questi mesi.

Quindi il Desametasone non serve né come prevenzione né all’inizio dei sintomi né troppo avanti: probabilmente è utile solo se impiegato in un momento particolarissimo che non si riconosce con gli esami del sangue, con i tamponi o solo con le TC.

Ed è qui, mi pare, che la questione si fa più “interessante”. Perché questo vecchio farmaco è uno dei più usati dai palliativisti: certo, è pieno di effetti collaterali a lungo termine anche gravi, ma nel “momento del bisogno”, se usato con attenzione, funziona benissimo: per la debolezza, il “malessere generale”, la mancanza di fiato, certe sofferenze del fegato o dei reni, per le gravi infiammazioni.

Ma c’è un solo modo per capire quando usarlo: lo sguardo di cura. Avvicinandosi al paziente, ascoltandolo, “leggendo” nel suo volto la fatica e la sofferenza globale, visitandolo (il buon vecchio esame obiettivo, fatto di tanti gesti di cura). Ragionando su “quel paziente”… in “quel momento”.

Non sarà il Desametasone da solo la soluzione a buon mercato, ma i risultati dello studio dell’Università di Oxford sembrano suggerire ancora una volta una delle poche evidenze emerse in questa pandemia causata da un virus sconosciuto e tuttora imprevedibile; l’unica strategia vincente è stata la riscoperta della cura.

Cura di se stessi (le protezioni), degli altri (le mascherine), dei propri cari e della comunità (l’isolamento, lo smartworking) e innanzitutto dei malati, con vicinanza, attenzione alle sofferenze, con la personalizzazione e il ragionamento in équipe su ogni singola storia di malattia, con la collaborazione fra servizi, ospedali, territorio. Sapremo custodire questa lezione, ripartendo proprio dall’etica della cura in questa nuova fase della Società? È una domanda che ci riguarda tutti.

 

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