Contagi da coronavirus e blocco delle visite, il dolore dei carcerati

Le condizioni di vita nelle prigioni restano precarie: difficile garantire il distanziamento nelle piccole celle sovraffollate. Intervista a don Marco Fibbi, cappellano del carcere di Rebibbia
Foto Claudio Furlan - LaPresse 08 Marzo 2020 Milano (Italia) News Rivolta dei detenuti al carcere San Vittore a causa delle nuove misure per l emergenza coronavirus Photo Claudio Furlan/Lapresse 09 March 2020 Milan (Italy) Inmates rebellion at San Vitttore prison for the new coronavirus measures

Le rivolte carcerarie di metà marzo hanno manifestato all’Italia intera – ancora una volta – come il sistema penitenziario sia inadeguato. Le cause scatenanti sono state la paura del contagio da Covid-19 e la restrizione dei permessi per visite familiari, ma la situazione negli istituti è ben oltre la soglia di criticità ormai da anni. Le proteste hanno causato, tra le altre cose, la morte di 14 detenuti e il ferimento di decine tra detenuti e agenti di polizia. L’emergenza è parzialmente rientrata, ma successivamente si sono verificati altri episodi di protesta, unitamente all’incremento di contagiati tra detenuti e agenti di polizia. Papa Francesco, riferendosi alle carceri di tutto il mondo, ha parlato di “rischio calamità”. La soluzione individuata dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal Dipartimento è quella di alleggerire le strutture, usufruendo di braccialetti elettronici, non disponibili per tutti nell’immediato. L’alleggerimento è iniziato col contagocce. Ne parliamo con don Marco Fibbi, cappellano presso la casa circondariale Rebibbia Nuovo Complesso. Per assistere i detenuti in questo momento di particolare difficoltà, il Vicariato di Roma ha attivato una raccolta fondi dedicata, denominata “S.O.S. Rebibbia”.

Don Marco, com’è la situazione nel carcere?
Il carcere è sovraffollato. Sono presenti circa 1500 detenuti, mentre la struttura è pensata per 1100 posti. Molte celle da 4 posti sono popolate da 6 detenuti. Mangiano a stretto contatto e le condizioni igieniche non sono certo ideali. C’è paura per i contagi, il distanziamento sociale è inattuabile.

Dalle rivolte cos’è cambiato?
L’assenza di visite fiacca il morale dei detenuti, già messo a dura prova dalle condizioni carcerarie. L’apporto dei familiari era anche materiale: con l’epidemia è aumentata la povertà in carcere. È una pena nella pena. L’amministrazione carceraria, da parte sua, ha fatto molti sforzi. Gli agenti di polizia penitenziaria hanno rafforzato la loro presenza, ma sono stressati, rischiano molto e hanno paura per il contagio. L’equipaggiamento è limitato. 

Di cosa si occupa lei?
Il nostro compito è quello di supportare moralmente, spiritualmente e materialmente i detenuti, soprattutto oggi che l’accesso al carcere è precluso ai familiari e alle decine di volontari che prestavano il loro servizio. Di fatto, noi tre sacerdoti dobbiamo assistere tutti da soli.

Come sono stati sostituiti i colloqui con i familiari?
Con le videochiamate, ma non è la stessa cosa. Le visite duravano tra una e due ore, mentre le videochiamate durano 20 minuti, col rischio di problemi tecnici. L’amministrazione mette a disposizione il supporto informatico e il tutto avviene alla presenza degli agenti di polizia.

Come riuscite ad assistere spiritualmente i carcerati?
Siamo allineati con le disposizioni della diocesi, ma su indicazione dell’ispettore generale dei cappellani siamo vicini a loro con la preghiera e li accompagniamo nel loro percorso spirituale. I detenuti possono assistere alla celebrazione liturgica in televisione, ma immaginate bene che non tutti nella cella possono essere d’accordo ed è molto difficile raccogliersi in preghiera in quelle condizioni.

Avete dispositivi di protezione?
Ci controllano la temperatura prima di entrare. Indossiamo mascherina e guanti, ma non possiamo esimerci dall’avvicinarci a loro.

Come mai?
Il colloquio personale è a distanza, nei limiti del possibile, ma il saluto deve esserci, per non mortificarli. La nostra è una missione di prossimità, la necessità di separazione dal mondo esterno, che li ha privati ulteriormente dei contatti umani, ci rende più vicini a loro. Nonostante tutto non abbiamo mai pensato di tirarci indietro.

 

 

 

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