Comincia il Ramadan

I musulmani iniziano in queste ore il loro periodo di digiuno. Alcune riflessioni in epoca di islamofobia, cristianofobia e antisemitismo, sul martirio. Dov’è il sacrificio veramente religioso?

Siamo arrivati all’inizio del sacro periodo di digiuno del Ramadan. Qualche anno fa molti italiani, probabilmente la maggior parte, non conosceva che cosa questo significasse. Oggi non possiamo chiudere gli occhi di fronte al fatto che molti – a volte vicini di casa e colleghi di lavoro, genitori dei compagni di scuola dei nostri figli o colleghi di università – iniziano un lungo periodo di digiuno. Si tratta di qualcosa che, di fatto, non possiamo più ignorare. Il Ramadan è entrato a far parte della vita religiosa, ma anche sociale dell’Europa e, malgrado tutto, anche dell’Italia.

È, ovviamente, uno dei segni del mondo che cambia e che la globalizzazione sta ridisegnando in modo imprevedibile, ma, soprattutto, è un fatto a cui dobbiamo abituarci ed adattarci. Dobbiamo riconoscere, infatti, che la nostra società italiana non è mai stata multiculturale e multireligiosa, e perciò fatichiamo non poco e riconoscere delle realtà ormai parte del presente. Il clima che respiriamo negli ultimi tempi di certo non aiuta a cercare di capire cosa significhi per questi nostri concittadini – molti sono ormai cittadini italiani – o rifugiati o, ancora, in qualche modo ospiti del nostro Paese vivere trenta giorni in un regime di digiuno.

Deve essere chiaro. È una scelta libera. Ognuno la fa a ragion veduta. Conosco musulmani che lo osservano fedelmente, altri meno, altri ancora che non lo fanno, almeno ogni anno. Quest’anno si tratta di fare il digiuno dall’alba al tramonto in un momento in cui le giornate sono quasi al massimo della loro lunghezza e questo mette alla prova ancora di più chi sceglie di digiunare. Fortunatamente non siamo nel cuore dell’estate come è capitato due e tre anni fa quando il Ramadan capitava nei mesi di giugno e di luglio, non solo con giornate lunghe, ma soprattutto con un caldo soffocante in molte parti d’Italia.

Personalmente mi sono sempre trovato arricchito a incontrare musulmani in questo periodo dell’anno. È un momento sacro che vivono con intensità spirituale ed umana e, durante il quale, valorizzano in modo particolare i rapporti. La sera, infatti, il digiuno si rompe dopo il tramonto, con quelle che sono chiamate cene iftar, alle quali si invitano parenti, vicini, amici, colleghi. Sono momenti in cui si sperimenta la dimensione sociale della religione e si costruiscono rapporti preziosi destinati a durare nel tempo. È sempre una ricchezza poter partecipare a questi momenti.

Quest’anno il Ramadan arriva in un momento in cui da poco abbiamo festeggiato, cristiani ed ebrei, la Pasqua. È stato un momento doloroso caratterizzato dalla carneficina provocata dagli attentati in Sri Lanka durante le messe nel giorno di Pasqua. Ma non sono stati gli unici momenti di sangue. Nei primi mesi del 2019 si sono susseguiti assalti a moschee – basta pensare a Christchurch in Nuova Zelanda – e sinagoghe. Le vittime non sono state poche, anche se i morti in Sri Lanka hanno superato nel numero tutti gli altri. Ma quante volte anche musulmani sono stati oggetto di attentati in diverse parti del mondo. Si grida – giustamente – all’islamofobia, alla cristianofobia e all’antisemitismo. Noi cristiani ci sentiamo la religione più perseguitata, ma posso assicurare di avere amici musulmani ed ebrei che vivono sulla loro pelle la stessa impressione riguardo alle loro comunità.

Mi ha fatto impressione in questi giorni sentire parlare da più parti sempre e solo di martirio cristiano. Sempre più, infatti, si dovrebbe parlare anche di un martirio musulmano e di uno ebraico. Sono tanti gli uomini e le donne uccisi perché appartenenti a quelle religioni. Il problema è che forse dovremmo renderci conto che ad essere martirizzati oggi sono uomini e donne del nostro tempo, a prescindere dalle loro religioni. Siamo chiamati a essere accanto ai fratelli e sorelle musulmane che celebrano questo mese di digiuno come loro – e sono stati migliaia e migliaia – hanno espresso la loro vicinanza per la tragedia dello Sri Lanka. È un’epoca in cui siamo chiamati a condividere sia le gioie che i sacrifici, come i dolori e le persecuzioni.

Mi ha impressionato un episodio di cui ho letto in questi giorni. Il protagonista è stato Paolo VI, durante la sua visita in Uganda nel 1969. Il Concilio Vaticano II era terminato da poco, la Chiesa faceva i primi timidi passi verso persone di altre fedi, non era ancora iniziato il grande flusso migratorio degli ultimi decenni e le religioni vivevano, ancora, per così dire, nei loro contesti. Incontrando un gruppo di leader religiosi ugandesi – cristiani cattolici ed anglicani, e musulmani – Montini si rivolse ai musulmani e pronunciò parole di grande apprezzamento: «Come esprimervi la nostra profonda soddisfazione di incontrarvi, la nostra gratitudine per aver voluto corrispondere al nostro vivo desiderio di salutare, attraverso voi, le grandi comunità musulmane sparse per l’Africa, permettendoci così di esprimervi il nostro grande rispetto per la fede che voi professate e i nostri voti affinché ciò che è comune fra noi unisca sempre più cristiani e musulmani in una fraternità autentica?».

Ma, soprattutto, leggendo la storia di quel Paese, ebbe il coraggio di associare tutti nell’esperienza del martiro, senza far distinzione di fede: «Come non assoceremmo noi a questa testimonianza di pietà e di fedeltà dei martiri cattolici e protestanti la memoria di quei confessori della fede musulmana, la cui storia ci ricorda che sono stati i primi, nel 1848, a pagare con la vita il rifiuto di trasgredire le prescrizioni della loro religione?».

Certo, il martirio caratterizza questo nostro momento storico in modo nuovo ed inatteso e, forse, per creare la cultura dell’incontro di cui parla papa Francesco dobbiamo tutti condividere questa esperienza che tocca le nostre comunità. Ma per farlo è necessario conoscerci, apprezzarci e condividere anche momenti come il Ramadan, un periodo sacro che, tuttavia, aiuta, se vissuto nella giusta maniera, a costruire profondi rapporti di amicizia e fraternità. A noi non perdere le opportunità che si presentano spesso nella casa accanto.

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