Come l’11 settembre ha cambiato le nostre vite

La cosiddetta "dottrina Bush" ha reso il mondo più sicuro? L'opinione di un editorialista del "The Philippine Star"
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Molti filippini ritengono, erroneamente, che l’attacco terroristico alle Torri Gemelle sia un problema americano che ci tocca solo marginalmente: infatti diversamente dalla Spagna, dall’Inghilterra e da altri bersagli successivi di Al Quaeda, le Filippine non sono state attaccate direttamente.

 

Tuttavia le conseguenze sulla sicurezza nazionale e anche sulla vita quotidiana sono state rilevanti: i viaggiatori hanno dovuto adattarsi a nuove misure di sicurezza negli aeroporti, le interruzioni nella produzione di petrolio in Iraq hanno causato un aumento dei prezzi, e siamo diventati facilmente condizionabili da parte degli Stati Uniti con la paura del terrorismo consentendo loro di manipolare i nostri timori per ottenere ciò che desiderano.

 

L’11 settembre ha portato ad un cambiamento epocale nella politica di sicurezza degli Stati Uniti, definita “dottrina Bush” dal nome dell’allora presidente. L’attacco alle Torri può essere considerato l’avvenimento che ha storicamente segnato la fine della supremazia Usa nel mondo: molti ritengono che le radici dell’attuale crisi finanziaria affondino nei costi della disavventura irachena e nel conflitto ancora in corso in Afghanistan.

 

Il 17 settembre 2002 gli Usa hanno reso pubblica la loro strategia di sicurezza nazionale. In uno dei passaggi si afferma: «Il contesto di fronte a cui gli Stati Uniti oggi si pongono è radicalmente diverso rispetto a quello con cui si sono confrontati sinora. Tuttavia, il primo dovere degli Stati Uniti rimane quello di sempre: proteggere i cittadini e gli interessi americani. Questo dovere, che obbliga il governo ad anticipare ed opporsi alle minacce usando tutti gli elementi del potere nazionale prima che queste possano causare gravi danni, rimane un principio costante per l’America. Maggiore è la minaccia, maggiore è il rischio di inazione, e più impellente la necessità di un’azione preventiva per difenderci anche se persiste l’incertezza sul tempo e il luogo dell’attacco nemico. Ci sono pochi pericoli maggiori di un attacco terroristico con armi di distruzione di massa. Per anticipare e prevenire questi atti ostili da parte dei nostri avversari, gli Stati Uniti agiranno – anche preventivamente, se necessario – nell’esercitare il nostro inalienabile diritto all’autodifesa. Gli Usa non ricorreranno alla forza in ogni caso: la nostra preferenza va alle azioni non militari, e nessun Paese dovrebbe mai usare la prevenzione come pretesto per l’aggressione».

 

Storicamente gli Stati Uniti erano entrati in guerra solo in risposta ad eclatanti aggressioni dirette, come il bombardamento di Pearl Habor per la Seconda guerra mondiale o l’affondamento del Lusitania per la Prima. Anche l’invasione americana delle Filippine – allora possedimento spagnolo – era stata la risposta alla misteriosa esplosione della nave Maine a L’Avana, che aveva portato alla guerra con Madrid – sebbene senza la certezza che questa ne fosse davvero la responsabile. La dottrina Bush, invece, ha spazzato via tutti questi precedenti, rendendo la guerra preventiva il nuovo metodo per gli Stati Uniti: l’Iraq è stata invasa in base alla minaccia, rivelatasi falsa, della armi di distruzione di massa. Insomma, se gli Usa riescono a convincere il mondo che il tuo Paese costituisce un pericolo per le vite e gli interessi americani, allora possono attaccarti senza alcuna provocazione diretta: carta bianca per un bullo internazionale.

 

Nel caso della guerra in Iraq, l’ex ministro della Giustizia William Ramsey Clark era così sconvolto che il 20 settembre ha scritto addirittura al Consiglio di sicurezza dell’Onu per spiegare i pericoli che la dottrina Bush poneva per la pace mondiale. Nella lettera Clark sollevava sei punti contro questa dottrina: innanzitutto sosteneva che già dalla sua elezione Bush era deciso ad attaccare l’Iraq e cambiarne il governo, trascinando tutti verso «il mondo senza legge delle guerre senza fine». E aggiungeva: «Sono gli Stati Uniti, non l’Iraq, la minaccia maggiore per l’indipendenza e gli scopi delle Nazioni Unite». La messa in guardia di Clark è molto più evidente oggi: gli Usa si erano illusi che gli iracheni li avrebbero accolti come liberatori, mentre li hanno visti invece come invasori che rubavano il loro petrolio. Non è trascorso molto tempo prima che i membri della cosiddetta “coalizione dei volenterosi” cominciassero a tirarsi indietro da una guerra che aveva mancato i suoi obiettivi geostrategici.

 

Bush ha sfruttato la paura degli americani per mettere in atto i suoi programmi imperialistici: chi vive nel timore di qualcosa o di qualcuno è facilmente manipolabile, e può essere indotto ad agire nella maniera decisa dal “burattinaio”. Alla fine gli americani si sono resi conto dell’errore e il consenso a Bush è calato, anche a causa dell’alto prezzo pagato dall’economia americana – “la guerra da 3 miliardi di dollari”, secondo la definizione del premio Nobel Joseph Stiglitz – e degli oltre 2000 morti. Il mondo ha così visto l’elezione del primo presidente afroamericano della storia, resa possibile anche dagli errori del suo predecessore.

 

Noi filippini dovremmo andarci cauti quando ci viene detto dagli Usa che diventeremo uno Stato fallito se non facciamo questo o quello, chiedendoci se questo è un bene per noi o per gli americani: le offerte di assistenza da parte degli Stati Uniti non sono atti di altruismo.

 

Dieci anni dopo l’11 settembre, la dottrina Bush ha reso il mondo più sicuro? Al contrario, ci troviamo ora più vicini ad uno scenario apocalittico dopo che Russia, Cina, India e Iran (un «superpotere del Medio Oriente», come è stato definito da un alto ufficiale della Cia) sono stati spinti ad allearsi per proteggersi dai pericoli che vedevano insiti in queste politiche.

 

(traduzione di Chiara Andreola)

 

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