Colazione in compagnia dei missili

Il risveglio dopo il lancio dei missili Usa nella vicina Homs. La strada verso Aleppo, la vena giugulare del Paese, che potrebbe essere recisa facilmente. Gli autobus che hanno scaricato i ribelli a Jerablus. Benvenuti ad Aleppo, dove c’era l’inferno

Abbondante, dolce e salata, la colazione dagli amici di Hama avviene in una cucina povera e disordinata, ma con un’accoglienza squisita, che occupa il centro della scena e di tutto. In un mobiletto, dove sono stipati sacchetti, vasi di formaggio sott’olio, qualche vecchio libro, Nescafé, scatole di plastica… c’è pure un vecchio e piccolo tubo catodico. La tv nazionale siriana alterna immagini rassicuranti di Damasco e Homs alle dichiarazioni di un generale e alle immagini del presidente Assad che si reca “tranquillamente” al lavoro.

La Bbc, invece, intervista esperti e personaggi politici, ma evidentemente non c’è granché da dire. Sono stati colpiti tre siti che si suppone siano centri per lo sviluppo e lo stock di armi chimiche, ma chi lo sa se è vero in questa guerra di fake news. Stanotte, alzandomi verso le 3, avevo sentito un sibilo, e poi sul terrazzino avevo visto delle scie colorate. Post su FB: «Sotto il cielo di Siria c’è vita. La vedo. Mi commuove». Subito ricevo una valanga di reazioni.

Lasciamo Hama e Homs e puntiamo verso Oriente: l’autostrada per Aleppo passa per Idlib, in una regione dove sono stati relegati migliaia di ribelli per i vari accordi stabiliti dal governo siriano con i vari gruppi della resistenza ad Assad. L’autostrada non è praticabile. Mi dico di nuovo che il principale pericolo di un reporter in Siria, oggi, non sono i missili o i colpi di mortaio ma le strade sulle quale si corre a velocità folle e con manovre spesso più che spericolate. I camion sono numerosissimi, questa è la vena giugulare della Siria. Ogni tanto appaiono dei grandi insediamenti industriali, chissà cosa producono. Magari saranno i prossimi obiettivi di qualche missile occidentale.

L’autista mi dice che Trump ed Erdogan stanno facendo il gioco di al Nusra e del Daesh, attaccando curdi e siriani, i soli che hanno veramente combattuto l’estremismo islamista. Non ha tutti i torti. I soldati sono ovunque, gli sguardi sovraeccitati. Postazioni di artiglieria pesante si moltiplicano ai lati della strada. Scorgo su un cocuzzolo una vecchia fortezza crociata, oggi trasformata in postazione di difesa dal governo. Ecco anche una colonna di soldati e mezzi russi, sono perfettamente ridipinti e ordinati. Improvvisamente un attruppamento di auto: il caffè è più potente di ogni controllo.

Raqqa 222 km. Le postazioni militari si confondono col paesaggio, paiono grumi di baracche, in realtà nascondono mezzi pesanti. La progressiva desertificazione del paesaggio rende il clima ancora più difficile da sopportare. Passano tre auto delle Nazioni Unite. Cominciano ad apparire abitazioni a forma di coni rovesciati, con strane protuberanze lignee sulle sommità. A Esria un posto di blocco più consistente di altri, qui si svolta a Nord verso Aleppo. Bisogna avanzare a passo d’uomo, i rallentatori di asfalto sono micidiali. Qui ci sono state battaglie in campo aperto, qui curdi e siriani hanno sconfitto il Daesh. Passano colonne di autobotti.

Leggo l’esortazione apostolica del papa sulla santità e il martirio: qui fa un effetto particolare… Sui bordi della strada si allungano piste parallele, probabilmente aperte nei giorni in cui questa strada era bombardata quotidianamente. Sfila pure una linea elettrica potente, nuova di zecca, quella che fornisce di energia Aleppo e la sua regione. Mi dico che basterebbe qualche missile ben piazzato per isolare di nuovo Aleppo. Ma nessuno osa farlo, fortunatamente. Ricominciano le distruzioni, proprio dove ricominciano gli abitati e l’ambiente naturale torna verde. Khanaser è completamente distrutta, casa per casa, anzi stanza per stanza. Persino i trulli beige sono stati perforati dalle artiglierie.

Un grande lago salato accompagna ora la strada, con i suoi inganni cromatici e i suoi riflessi delicati. È il “Sale di Jabboul”, un invaso sui cui bordi si ergevano villaggi ora sistematicamente distrutti. «Qui al Nusra pensava di fare la rivoluzione a poco prezzo: pensavano di vincere in pochi giorni, e invece…», dice il nostro autista. Case d’argilla e paglia, anch’esse distrutte. Apparentemente nessuno più vive in queste lande desolate, ma guardando bene ci si accorge che c’è vita negli interstizi degli abitati, qualcuno è tornato a casa: distrutta, magari, ma pur sempre casa propria. Passano camion carichi di legname, un segno che la ricostruzione è già cominciata. Passiamo ad al Sfire, donne col velo integrale, due secchi colpi di fucile, pesantezza nel cuore e nella mente, non c’è un solo edificio intatto, le case sono ormai merletti scomposti di pietra. Sotto i cieli di Siria le macerie gridano ancora. Nel silenzio dell’umanità.

D’improvviso, in senso inverso al nostro, passano un centinaio di bus turistici, regolarmente numerati, quelli che hanno depositato i circa 4 mila ribelli di Duma a Jerablus, una sacca a Nord terra di nessuno, dove vengono ammassati i combattenti che si sono arresi al governo siriano. La colonna di bus è scortata da una serie infinite di mezzi militari e non, da gente armata fino ai denti. Nessuno fiata in auto. Questa è la guerra vera, ancorché senza spargimento di sangue. Ma un minimo errore, la minima provocazione può scatenare l’inferno. L’abitato si fa città, poco alla volta. L’accesso all’aeroporto è nuovo di zecca, si vorrebbe riaprire lo scalo quanto prima. Poi il traffico della città, “rassicurante” questa volta, le moschee e le chiese, la gente che passeggia, gli ospedali che funzionano, il quartiere dei cristiani… Poi una via sbarrata, ad una dozzina di chilometri ci sono ancora i ribelli-terroristi.

Esco per un breve giro dall’albergo nel quale sono alloggiato nel grande parco pubblico che si snoda nel centro della città. C’è folla, è sabato, la gente non lavora. In fondo è un luogo ben curato, gradevole, attraversato da qualche canale che conferisce un po’ di frescura all’ambiente nonostante vi siano 28 gradi. Le grida dei bambini sovrastano ogni altro rumore, persino quello del traffico. Seppellirebbero anche il rumore dei Tomahawk. Dei mocciosi fanno il bagno, si divertono un mondo. Le mamme, quasi tutte velate, alcune (poche) in modo totale, accudiscono i loro piccoli e ne approfittano per telefonare con i loro cellulari ricoperti di brillantini: hanno le unghie curate, gli occhi truccati, una certa eleganza.

Sulle panchine i vecchi giocano a trik-trak o a carte, ogni tanto sospirano, guardano il cielo, chissà cosa pensano, loro che probabilmente hanno vissuto uno degli assedi più drammatici della storia moderna. Ma tante panchine sono occupate da giovani in divisa, probabilmente in libera uscita, che hanno lo sguardo spesso perso nel vuoto, fumano come… turchi, anzi siriani, ascoltano musica, cercano di dormire e dimenticare. I giovani in abito civile sono pochi, sono studenti universitari, quelli che hanno potuto rinviare il servizio militare. Gli altri sono partiti, e oggi stanno telefonando ai loro cari informati dalla Cnn e dalla Bbc delle decisioni prese da Trump, Macron e May per “punire” il loro amato Paese, manco fossero dei confessori o dei giudici d’un tribunale.

Due di loro m’interpellano, qui non posso passare inosservato, qui sono uno dei pochissimi stranieri che osano visitare la Siria, certamente non sono un turista, ma comunque paiono interessati alla mia presenza, forse vogliono capire cosa pensi di Trump, o forse semplicemente vogliono praticare il loro povero inglese. Fatto sta che mi chiedono da dove venga, che ci stia a fare in Siria, cosa penso dei missili lanciati sugli obiettivi siriani «dai servi di Trump». Gli dico qualcosa, poi a mia volta gli chiedo da dove vengano. Sono di stanza sul fronte occidentale, cioè nella zona forse più pericolosa della Siria, quella di Afrin e Idlib per intenderci.

In questo momento non stanno combattendo, stanno solo controllando le posizioni, impedendo sia sforamenti dei militari turchi o dei ribelli, sia dei tanti potenziali rifugiati che fuggono dall’esercito di Erdogan o dalle vessazioni di quel che resta del Daesh o di al Nusra. Mi dicono che sono pagati bene (ma so che non lo sono), che il morale è alto (questo posso crederlo, dopo cinque anni di débacle, l’esercito siriani ha riconquistato molte posizioni), che la Siria tornerà unita (bisogna sempre sognare) e che la verità tornerà a galla e vincerà (chissà, forse, un giorno). Uno di loro è sunnita, uno alawita, e mi indicano un compagno addormentato su un’altra panchina che è cristiano ortodosso. Hanno 19 e 20 anni, da due anni sono arruolati. Ci salutiamo, debbono partire, domattina debbono essere in caserma, lasciando le loro famiglie nell’apprensione. «Ma stasera abbiamo una cena coi fiocchi», si consolano. E io torno al mio albergo accompagnato dai rumori della vita aleppina. La morte falcidia a qualche decina di chilometri appena da questo parco pubblico.

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