Christian Carlassare: il perdono e la pace

Originario di Piovene Rocchette (Vi), missionario comboniano, nominato vescovo di Rumbek, in Sud Sudan, da papa Francesco l’8 marzo 2021, il 25 aprile subisce un attentato. Nel corso di una visita in Italia, monsignor Christian Carlassare ha offerto nel Santuario della Madonna dell’Angelo le pallottole che lo hanno colpito. Lo abbiamo intervistato.

Cosa significa avere una vocazione missionaria?
Ogni cristiano ha una sua vocazione che nasce dall’incontro personale con Gesù Cristo. Ogni vocazione quindi è essenzialmente vita da discepolo/a in comunione con altri compagni/e di cammino, la Chiesa. Un discepolato comune che trova la sua espressione nell’apostolato, nella missione. Non esiste vocazione cristiana senza missione intesa come annuncio del Vangelo, come riconciliazione e umanizzazione delle persone e dei loro rapporti, come vocazione all’unità e alla solidarietà, come impegno per la pace e perché tutti abbiano vita in Cristo.

Come è nata la sua?
Non so come sia nata, forse è nata prima di me. Sono nato in una famiglia credente, molto ben disposta verso l’opera di uno zio missionario che avevamo come modello. Sono cresciuto in una comunità cristiana, la parrocchia, ricca di proposte e dove, fin da piccolo, ho trovato sostegno e valorizzazione della mia persona. Fin da piccolo sentivo la fiamma della vocazione missionaria che però ha trovato modo di rivelarsi solo al tempo delle scuole superiori, al termine delle quali ho iniziato il percorso di formazione con i missionari comboniani.

Come missionario si è mai sentito solo?
Ho sempre vissuto la missione in comunione con una comunità missionaria, il mio istituto e la Chiesa. Non mi sono mai sentito solo, neanche nei momenti più difficili, quando la missione mi ha chiesto perseveranza, o di prendere responsabilità importanti in prima persona. La vocazione cristiana è sempre una vocazione ecclesiale.

In Sud Sudan ha vissuto due esperienze forti: la nomina a vescovo e poi l’attentato…
Ho vissuto questi due eventi come parte della chiamata fattami dal Signore per essere a servizio della Chiesa e del popolo Sud Sudanese. La nomina a vescovo è arrivata del tutto inaspettata, non solo per la mia giovane età, ma anche per il fatto che ero da poco stato chiamato a servire la Chiesa di Malakal come vicario generale. Non può che esserci gratitudine quando la Chiesa chiama a tale compito e quindi anche desiderio di rispondervi con generosità. Ma allo stesso tempo ho sentito timore davanti alla grandezza dell’opera che mi veniva chiesta e alle gravi problematiche che la diocesi di Rumbek stava attraversando. Il mio sì è arrivato dopo un momento di preghiera e affidamento, ripetendo le parole di Charles de Foucauld nella sua preghiera di abbandono. L’attentato è arrivato ancora più inaspettato. Certo, croci e opposizioni ci sono state preannunciate da Gesù come elementi sempre presenti nella vita del discepolo e delle opere di Dio. In qualche modo anche il martirio. Ma non avevo contemplato che la mia vita potesse essere minacciata così all’improvviso. In quei momenti mi sono affidato sapendo di essere un servo qualsiasi, attraverso il quale il Signore sa compiere la sua opera.

Cosa pensa degli autori dell’attentato?
Le mie prime parole sono state di perdono. Non sono state parole di circostanza. Ma frutto di un bisogno mio personale di liberarmi dalla paura, dal risentimento e dalla frustrazione per quanto successo. L’attacco è stato attuato da giovani che non potevano avere alcun rancore contro di me, ma stavano semplicemente eseguendo un ordine, manipolati come molti altri giovani del Sud Sudan usati per perpetuare conflitti. Anche questi giovani hanno bisogno del mio aiuto per emanciparsi e riconoscere il senso della loro vita per il progresso del paese.

Poi, confrontandomi con la sofferenza di tante persone che soffrono violenza, solo il perdono apre il cammino verso la pace passando per una giustizia che sia ben diversa da quella punitiva, una giustizia capace di riconoscere l’umanità di ciascuno e quanto ci sia di bello, buono e santo in questa umanità. Ecco che le mie ferite mi permettono di far causa comune con tutte le vittime innocenti del Sud Sudan e concorrere al cammino di riconciliazione di cui il paese ha tanto bisogno.

Come aiutare le persone a riconciliarsi con Dio e con i fratelli in Sud Sudan?
La riconciliazione, come si legge nella Fratelli tutti (FT n. 246), è un fatto personale. Nessuno può imporla all’insieme di una società esigendo un perdono generale e generalizzante, pretendendo di chiudere le ferite per decreto e coprindo le ingiustizie con un manto di oblio. Il perdono è una scelta personale che nasce solo in chi sa essere riconciliato con Dio e con se stesso. È una scelta così profetica e rivoluzionaria che va a intrecciarsi con la storia e il destino di tutti, portando cambiamento e trasformazione sociale.

L’annuncio del Vangelo, la formazione degli agenti pastorali, la celebrazione dei sacramenti e l’impegno comune delle piccole comunità di base nei loro villaggi hanno portato un grande cambiamento nella coscienza di molte persone, nel saper leggere gli avvenimenti, anche quelli più dolorosi, nell’essere capaci di fare opera di pace. Rimaniamo stupiti nel vedere quanto sia minima la parte di lievito buono che va mischiata nella pasta, quanto fragile sia la pace e rivestiti di debolezza i suoi servitori. Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi, ci dice Gesù. Vinceremo se sapremo essere come Lui: agnelli solidali e pastori buoni fino in fondo.

La Chiesa sta dando un contributo importante al Paese non solo attraverso l’evangelizzazione, che è il cuore di ogni conversione, ma anche attraverso l’impegno nel campo dell’istruzione, dove i ragazzi e i giovani possono maturare una coscienza nuova ed essere educati all’unità, e l’azione umanitaria (da quella sanitaria a quella caritativa) verso le persone più povere e marginalizzate. La rete di radio diocesana offre un grande contributo verso la pacificazione, passando costantemente messaggi positivi e valorizzando narrative di pace. Non dimentichiamo il contributo dato dall’associazione dei religiosi con il centro di spiritualità e per la pace stabilito a Kit (Juba) che offre percorsi di formazione umana, cura del trauma e impegno per la pace. A questo va aggiunto anche l’impegno ecumenico per il dialogo nazionale e la riconciliazione promosso dalle diverse denominazioni cristiane attraverso il consiglio delle chiese del Sud Sudan. Nella nostra diocesi di Rumbek vogliamo valorizzare la presenza di comitati di giustizia e pace in tutte le missioni e una commissione diocesana che possa entrare in dialogo e fare da ponte tra la base (la popolazione più umile) e i vertici (i leader politici e gruppi al potere).

Nel suo stemma episcopale molti simboli richiamano l’impegno pastorale per la pace e l’unità. È possibile sognare la pace per il Sud Sudan?
Sognare è sempre possibile, anzi fa parte della natura umana. Nelson Mandela usava dire che il vincitore è un sognatore che non si è arreso. Lui ha saputo sognare un Sudafrica dopo l’apartheid che fosse riconciliato con la propria storia e capace di abbracciare tutto e tutti basandosi su valori comuni che sono la democrazia, l’uguaglianza, la riconciliazione, la diversità, la responsabilità, il rispetto e la libertà. È un sogno non ancora del tutto realizzato ma che è diventato il sogno di tante persone. Penso che abbiamo lo stesso sogno per il Sud Sudan perché sia un paese unito nella diversità dei tanti gruppi etnici presenti nel territorio e aperto al mondo, pronto a dare il proprio contributo in chiave globale.

 

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