Tutto chiede salvezza, la nuova serie sul disagio mentale

Su Netflix 7 puntate che raccontano con forza e rispetto la condizione di chi vive la malattia mentale attraverso gli occhi di un ragazzo nei suoi 7 giorni di degenza in una struttura ospedaliera
Tutto chiede salvezza

C’è una serie italiana interessante, da un po’ di giorni su Netflix: introspettiva, sostanziosa, forte nel senso di aspra, tosta, ma rispettosa dei contenuti delicati che affronta. È una serie che parla di disagio mentale, ma anche di ricerca di senso nella vita, della persona da cercare sotto le maschere e le etichette, sotto la superficie. Parla dell’individuazione della sua essenza sotto la condizione, sotto lo stato emotivo, sotto la patologia presunta o reale, più o meno distanziante dall’astratta, convenzionale e (per certi versi) inafferrabile normalità. È una serie sulla sofferenza e sulla ricerca umana di salvezza; su quanto la vita sia complicata e difficile da controllare, ma anche su quanto, nella vita stessa, siano importanti gli altri, quelli che incontriamo sul cammino: il dono del prossimo, la sua bellezza gratuita da scovare, leggere. Un bel po’ di cose, insomma, dentro questa serie intitolata Tutto chiede salvezza, diretta da Francesco Bruni e tratta dal romanzo omonimo e autobiografico – finalista del Premio Strega e vincitore del Premio Strega Giovani nel 2020 – di Daniele Mencarelli, anche co-sceneggiatore della serie insieme allo stesso Bruni, penna importante della televisione e del cinema italiano (sua la serie Montalbano come tanti film di Paolo Virzì) ma da tempo, ormai, anche apprezzato autore di commedie intelligenti e profonde, di pregevoli dramedy in più di un caso dedicati al tema della malattia: Tutto quello che vuoi, sull’Alzheimer, del 2017, o l’autobiografico Cosa sarà, del 2020, sulla leucemia.

Anche questo racconto – continuamente attraversato dal concetto di umanità – abbonda di momenti non drammatici e di una varietà di contenuti per cui il sottotitolo “Da vicino nessuno è normale” (lo stesso della commedia Si può fare di Giulio Manfredonia, di diversi fa, sul tema della disabilità mentale) serve a dare indicazioni, a orientare il potenziale spettatore, ma è insufficiente per racchiudere l’abbondanza di materiale narrativo presente nei 7 episodi totali di quella che lo stesso Bruni ha definito come un lungo «film». La storia è quella di Daniele (il Federico Cesari di Skam Italia), un giovane che in seguito a una crisi di rabbia in famiglia viene ricoverato per un TSO (trattamento sanitario obbligatorio) presso una struttura ospedaliera: 7 giorni di degenza (raccontati uno per puntata) nei quali il ragazzo incontra persone profondamente problematiche e sofferenti, ma anche vere e capaci di insegnargli molto, di allargare il suo sguardo e il suo cuore. C’è Mario, per esempio – interpretato da Andrea Pennacchi – che dalle sue drammatiche e laceranti esperienze ha trovato una saggezza da donare agli altri, seppure non gli basti per salvarsi se stesso. Dice a Federico, a un certo punto del racconto: «I poeti, gli artisti e i matti hanno una cosa in comune, che nessuno gli può dire cosa guardare e come guardarlo». E ancora: «Non lasciare che nessuno ti racconti il mondo. Tieni il tuo sguardo aperto, libero». Insieme a Mario, oltre ai medici e agli infermieri dell’ospedale, ci sono Alessandro, Gianluca, Giorgio, un certo Madonnina e Nina (Fotinì Peluso), influencer divorata dal successo e dai social; personaggio, quest’ultimo, non presente nel romanzo ma introdotto nella serie per riflettere sul presente di connessioni virtuali e conseguenze (drammatiche) reali. Con lei (al pari degli altri anche se passando per il tema amoroso), Daniele svilupperà un rapporto profondo e sperimenterà che quella condizione forzata di sopportazione rappresenta invece un’occasione per elaborare in modo utile la vulnerabilità, e produrre risposte efficaci alle sue domande di persona fragile, ma anche sensibile, profonda e dunque completa: persona, semplicemente, e probabilmente, proprio per un rapporto nuovo con il senso di precarietà del vivere, persona con la p maiuscola, decisamente in sintonia con la parola umanità, senza più la paura di far primeggiare la verità sull’immagine, di far convivere la forza con la fragilità.

Ci sono passaggi densi, ricchi, in Tutto chiede salvezza; c’è la crescita liberatoria di Daniele, che riesce a sentire sempre meglio l’altro, a liberarsi a sua volta da pregiudizi e paraocchi, tanto da arrivare in pieno a lui, fino a riconoscerlo fratello, con gratuità e slancio vitale: «È na settimana che sto qua – dice col suo romanesco avvicinandosi al finale – e quello che provo per loro è indicibile. Forse i miei compagni di stanza sono la cosa più simile alla mia vera natura che mi sia mai capitato di incontrare. Di più: sono fratelli offerti dalla vita, trovati sulla stessa barca in mezzo alla stessa tempesta, tra pazzia e qualche altra cosa che un giorno, forse, saprò nominare. Ognuno nel proprio angolo di stanza, indifesi di fronte alla propria condizione, esposti alle intemperie, di uomini nudi abbracciati alla vita, schiacciati da un destino ricevuto in dono. Sono i miei fratelli». È una serie, Tutto chiede salvezza, vogliosa di dare una mano, di offrire parole incoraggianti, rasserenanti ai (tutti) fragili, diversi, non omologati e distanti dalla perfezione, ai possessori di una forza fortemente impregnata di debolezza.

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