C’è sempre un’altra possibilità

Una gravidanza inattesa, un figlio che si droga, un marito infedele. Una famiglia schiacciata dal fallimento. Ma non tutto è perduto
Famiglia

«Mia moglie Piera ed io ci siamo guardati senza poter dire nessuna parola. Il nostro terzogenito, ancora minorenne, ci scrive che la sua ragazza attende un bambino e che hanno già fissato l’appuntamento per l’interruzione… a meno che non ci fossimo presi noi il bambino e la cura di Gertrud, una ragazza straniera che studia in Italia. È stato un colpo imprevisto anche perché in famiglia c’era stata sempre tanta comunione, tanta affettuosa complicità tra noi genitori e i nostri quattro figli. Ora Manlio ci scrive una lettera perché non ha il coraggio di parlarci.

 

«Il primo pensiero di Piera è stato di salvare la vita del nascituro; e per l’aspetto economico, ancora una volta avremmo creduto all’aiuto della Provvidenza che sempre ci ha accompagnati.

 

«Io avrei voluto fare una bella lavata di capo a Manlio, ma lo sguardo di mia moglie mi chiedeva aiuto e non ricerca di spiegazioni.

 

«Per la nostra famiglia è iniziata una stagione che non avremmo mai immaginato. L’arrivo in casa di Gertrud, che nei primi mesi della gravidanza non stava bene, ha scombussolato la nostra vita. Il peggio era che gli altri figli ne hanno risentito.

«Forse per le nuove tensioni, nel giro di poco ci siamo accorti che il primo figlio, Giorgio, era entrato nel giro della droga. Poi, appena nata la bambina, Gertrud se ne è tornata in Germania, senza dare più segno di vita, mentre Manlio cadeva nella depressione.

 

«È stato allora che la mia fede, assieme a tutti i grandi ideali, ha cominciato ad annebbiarsi e, giorno dopo giorno, il mio vivere è diventato esecuzione di compiti a denti stretti. Cominciavo a evitare di parlare con i colleghi e lentamente mi sono ritrovato solo anche al lavoro.

 

«Ormai le feste, le ricorrenze non erano momenti di gioia, ma ferite che si riaprivano anche perché ormai non eravamo tutti presenti in famiglia. Giorgio, dopo aver toccato il fondo, si era convinto a entrare in una comunità terapeutica. Manlio era andato via di casa.

 

«La cosa peggiore: la distanza tra me e mia moglie era aumentata sempre di più ed io non trovavo nessuna fonte dove attingere energia. Ci sono state anche delle fughe. Mi sono aggrappato a colleghe “materne” che hanno intravisto le mie fragilità e, più che aiutarmi, hanno reso ancora più instabile il mio equilibrio.

 

«I figli, uno dopo l’altro, si sono allontanati da casa. È rimasto soltanto l’ultimo che non aveva nessuna voglia di studiare e neanche di scappare. 

 

«Nei tempi gloriosi della contestazione ero convinto di avere il mondo nelle mani e che nulla avrebbe potuto scalfire la mia gioia di vivere. Ci ha pensato la vita a stendermi a terra.

 

«Perché ti scrivo? Non so, forse per una specie di debito da pagare. Così sei informato che quel leader che voleva aggredire il mondo e trasformarlo è ormai stritolato dalla sua stessa vita. Parafrasando Leopardi, sono convinto che la vita non mantiene mai le promesse che una volta ti ha fatto. E non parlarmi di Dio e di libertà. Se il frutto della libertà è il suicidio, che libertà è? Sai quante volte ho riletto le pagine che ci accendevano e ora mi sembrano fuochi fatui, fantasmi di una farsa putrefatta. E tu ti intestardisci a vivere ancora per gli altri, a credere che il mondo cambierà?».

 

Quando ho ricevuto questa lettera di Eugenio mi è sembrato incredibile che fosse proprio lui.  

Recentemente, approfittando di un viaggio in Italia, sono andato a trovarlo e gli ho proposto di passare un pomeriggio in riva al mare. Lunghi i suoi silenzi in spiaggia. Lo vedevo fissare qualche punto indefinito, ma in realtà non guardava niente. Poi, avvicinandosi il tramonto del sole, lui è scoppiato a piangere.

Il crepuscolo che precede il buio della sera è stato un conforto.

 

Mentre raccoglievamo le nostre cose per tornare alla macchina, Eugenio mi ha chiesto se avevo voglia di restare ancora in riva al mare.

 

«Il mio errore è stato la stessa idea che mi ero fatto della famiglia e quando qualcosa ha cominciato ad andare storto ho visto che non ero capace di accettare un programma non voluto da me. Il mio nemico sono stato io stesso e per questo ho privato la mia famiglia di crescere nella libertà dell’amore, non secondo un’idealità. L’altro giorno il figlio rimasto a casa, mentre guardava il telegiornale, di fronte alle bravate dei politici, mi grida in faccia che la gente come me, la generazione delle parole, la generazione che sa dare etichette a tutto e non si accorge che sta pestando la coda di un cane, è da impiccare. Secondo lui, se il mondo va male è colpa di gente come me che ha usato tutta l’intelligenza soltanto per fare una doppia vita. Come i politici. E con lo stesso tono grida, davanti alla madre, che lui sapeva delle mie avventure con le colleghe. Ma ciò che lo sconcertava, diceva, era il coraggio che avevo di dire che credevo in Dio. Quale fede? La mia fede era soltanto un progetto, ma non era rapporto con Dio.

 

«Ora, annientato e depauperato di ogni parola e idea, nel vuoto totale, nel crollo di ogni speranza, mi sembra che Dio mi offra ancora una possibilità. Stavolta, però, non sarà lui a fare tutta la parte, devo anch’io fare la mia. Una volta gridavo nei cortei il coraggio di vivere. Allora era giovinezza, era sogno. Oggi questo coraggio devo crearlo, in me e negli altri. E ci vuole coraggio quando la vergogna rischia di seppellirti. Ci vuole coraggio davanti a mia moglie che molto più di me si è presa sulle spalle il peso della famiglia. Ci vuole coraggio a riconoscere il proprio fallimento. Avevo bisogno di silenzio per risentire la Sua voce e questo è ora il mio unico coraggio!».

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